Nel suo ultimo lungometraggio La stanza accanto, Leone d’oro di Venezia 2024 in arrivo nelle sale italiane il 5 dicembre, il grande regista madrileno Pedro Almodóvar compone un altro dei suoi affascinanti mosaici (il primo in lingua inglese) legati a uno dei suoi temi più cari: la morte. Quello di The Room Next Door è un mosaico decadente e raffinato che deve parte della sua forza alle profondità interpretative di Tilda Swinton e Julianne Moore, entrambe capaci di rompere lo schermo con la loro ammaliante presenza scenica. Ispirato al romanzo Attraverso la vita di Sigrid Nunez, il film (qui la nostra recensione dal Lido) si struttura come un fitto e intenso dialogo interiore tra due amiche di vecchia data rincontratesi dopo tanto tempo.
Ingrid (Moore) è una scrittrice di successo, Martha (Swinton) è un’ex giornalista di guerra alle prese con una malattia terminale. La donna decide di morire, ma non vuole farlo sul letto di una clinica. Si reca, quindi, in una dimora perduta nella natura per passare i suoi ultimi giorni di vita prima di spirare mediante un farmaco acquistato illecitamente sul web (negli Stati Uniti, in cui la vicenda è ambientata, il fine vita non è ancora stato legalizzato). Quando arriverà il fatidico giorno, sarà importante avere qualcuno nella stanza accanto la sua che la accompagni nei suoi ultimi momenti esistenziali. Quel qualcuno sarà proprio Ingrid.
Almodóvar lontano da casa
E’ difficile immaginare Almodóvar distante dalla Spagna: nel corso della sua vita professionale e artistica, il regista ha sempre saputo offrire un grande spaccato storico, politico e sociale della sua terra natale – dagli stravaganti e provocatori esordi post dittatura franchista (Labirinto di passioni, L’indiscreto fascino del peccato, Donne sull’orlo di una crisi di nervi…) ai melò fassbinderiani della sua seconda metà di carriera (Parla con lei, La mala educación…). Una carriera che ha toccato il suo apice più significativo con Dolor y gloria (2019), suo testamento poetico e spirituale: il racconto di una vita attraverso il cinema, carico di una maturità visiva e di una potenza emotiva davvero sorprendente.
Eppure, in questo suo nuovo film anglofono che si è guadagnato l’onorificenza più importante del festival veneziano (tre anni dopo la vittoria della Coppa Volpi di Penelope Cruz per Madres Paralelas), Almodóvar è riuscito a regalarci un grande (l’ennesimo) trattato di maestria registica, i cui toni rispecchiano esattamente l’asciuttezza della lingua attraverso cui si sviluppa il suo copione. Una lingua più sintetica dello spagnolo, meno calda e passionale, ma non per questo meno avvolgente.
L’altra faccia del Melò
La stanza accanto non è altro che un intimo scambio filosofico tra le due protagoniste, rappresentanti di due approcci differenti nei confronti della crudeltà della vita: quello di Ingrid, più spaventato e disilluso, contrapposto alla visione di Martha, più serena e composta nella sua “condanna” ad andarsene per sempre nel giro di qualche giorno. In tutto questo, come nei suoi precedenti film, Almodóvar riflette sul tema dell’accettazione della morte come parte integrante dell’esistenza umana, con la sua inconfondibile eleganza di toni che si mescola a una profondità sensoriale quasi inesplorata nel corso della sua carriera.
Almodóvar riesce a sublimare perfettamente il suo stile della maturità in un’asciuttezza cinematografica sbalorditiva. Ne La stanza accanto tutto appare estremamente sintetizzato: l’erotismo è assente (curioso in un film dove verbalmente si esalta il sesso come antidoto per sfuggire alla paura della morte) e il tradizionale gusto “sirkiano” per il melodramma viene completamente asciugato in favore di un quadro poetico che riflette la natura ambigua della morte stessa. Le emozioni vengono in buona parte silenziate (anche se non mancano momenti di alta tensione enfatizzati dalle musiche di Alberto Iglesias), così come l’espediente del flashback e il fascino del thriller, presenze costanti nella sua filmografia, risultano quasi totalmente assenti.
Una pacatezza espressiva
Tutta la consapevolezza e la lucidità almodovariana nel comunicare la “positività” insita nelle tragedie umane si scioglie in una sceneggiatura assai fluida, per certi versi minimale, che trova la sua ragion d’essere nella pacatezza espressiva che il regista vuole trasmettere. Una pacatezza che proietta la tranquillità di Martha nell’abbracciare la fine dell’esistenza con grazia e bellezza. Tuttavia, tale secchezza melodrammatica che permea tutto l’arco narrativo potrebbe far storcere il naso ai fan più affabili del grande Pedro, soprattutto ai nostalgici dei suoi eccessi che l’hanno reso, di fatto, un regista imprescindibile della cinematografia europea e mondiale.
Dalla prospettiva di grandi estimatori innamorati del cinema di Almodóvar, La stanza accanto sembra tutto fuorché un film iscrivibile in un’ipotetica lista delle migliori opere del maestro spagnolo. Sia chiaro: il film è bellissimo (tra i migliori visti a Venezia 2024) ed è affascinante che Almodóvar, giunto all’età di settantacinque anni, intenda nobilitare ancor di più il suo stile inconfondibile in un prodotto che, nonostante tutto, solamente uno come lui avrebbe potuto dirigere. Peccato, però, che in questa sua lodevole trasfigurazione stilistica il regista abbia messo parzialmente da parte quella vitalità da sempre presente nelle sue opere.
Meno vitale del solito
The Room Next Door è sì un film che riesce a splendere nell’intensità di alcuni suoi dialoghi e nelle straordinarie performance delle due attrici, ma si tratta comunque di un’intensità minore. Un’energia narrativa meno capace di creare un solido legame tra spettatore e personaggi. Siamo distanti dallo spessore viscerale di Dolor y gloria, dall’ardore di Parla con lei o La mala educación, dalla passionalità incantevole di Volver. La stanza accanto è un film di un Almodóvar sicuramente diverso, anche se meno memorabile di quanto ci si sarebbe aspettato.
Certo, c’è una presa di posizione forte (ed è sempre un bene quando grandi artisti e intellettuali decidono di salire sulle barricate) in favore di un tema delicato quale l’eutanasia; c’è il tentativo di catturare la bellezza in un mondo dove i neoliberismi ci condurranno all’estinzione di massa (la decadenza del corpo di Martha diventa metafora del declino di un pianeta sempre più martoriato dalla crisi climatica). Ma tutti questi discorsi che il cineasta spagnolo cerca di mettere in scena appaiono fin troppo “di contorno”, quasi come se non riuscissero ad avvolgersi di una vera esigenza drammaturgica.
Leone D’Oro meritato?
Era davvero necessario premiare un film minore di un regista amatissimo, con alle spalle una delle filmografie più importanti della storia del cinema? Un maestro che, tra l’altro, nel 2019 (anno della Palma d’oro sfiorata con Dolor y gloria) si era già portato a casa il Leone d’oro alla carriera – fra i massimi traguardi a cui un cineasta può ambire? Quello de La stanza accanto è sembrato quasi un Leone da “contentino”, un premio politico che cercasse di soddisfare un po’ tutti in un’edizione della Mostra dove è mancato il grande titolo capace di allineare perfettamente il giudizio di critica, giuria e pubblico.
I riconoscimenti festivalieri sono elargiti da una giuria che opera sotto i riflettori, il cui voto è quasi sempre figlio di un compromesso che deve anche un po’ seguire il parere della critica – e il film di Almodóvar è risultato il titolo di Venezia 81 generalmente più apprezzato da quest’ultima, anche senza totale unanimità. Si poteva, però, azzardare un Leone d’oro a Queer di Luca Guadagnino, un regista di capitale importanza diventato ormai un punto di riferimento imprescindibile della contemporaneità cinematografica e che merita una definitiva consacrazione. Si è preferito invece giocare sul sicuro. Ciò detto, La stanza accanto resta comunque un bel film da ammirare e da considerare con attenzione: anche un Almodóvar minore è pur sempre grande Cinema.
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