Ne è passato di tempo da quel 2001, non l’Odissea nello spazio di Kubrick ma l’anno in cui venne alla luce Nonfilm. E da quell’esordio in sordina, un po’ un divertissement goliardico, non è cambiato molto. O forse è cambiato tutto. Può dirlo solo lui, a patto che sappia, e voglia, davvero spiegarlo il suo cinema. Quentin Dupieux – noto anche, soprattutto in ambito musicale, con lo pseudonimo di Mr. Oizo – è, ad oggi, tra gli autori più originali della sua generazione, capace di far divertire e mettere in crisi, testare lo spettatore e giocare con esso fino prendersene gioco.
Visionario e malinconico, diventato col passare degli anni un autore di culto, con un ritmo produttivo forsennato, il regista transalpino è quasi un Re Mida del nonsense, che trasforma il logico in irrazionale, che prende schizzi e idee grezze e li muta in occasioni comiche geniali. Non è facile prenderlo sul e forse neanche è necessario, per goderne appieno dei suoi piccoli – sovente meno di 90 minuti – marchingegni filmici. In occasione dell’uscita in sala di Yannick e in previsione di quella, prossima, di Daaaaaalì!, ragioniamo brevemente sul suo (non)cinema, sulle le sue creazioni e il suo spirito artistico.
Alla ricerca del senso perduto
Ogni grande film, senza eccezioni, contiene un importante elemento di ‘no reason’, di arbitrarietà. Perché? Perché la vita stessa è piena di arbitrarietà.
A rivederlo oggi, a distanza di quasi quindici anni, lo stranissimo incipit di Rubber (2010) sembra una vera e propria dichiarazione d’intenti. Una delle più esplicite possibili, dirette e senza mezzi termini, manifesto di e per un’intera filmografia. Dupieux non nasconde mai di essere devoto al nonsense, suo adepto e, in un certo senso, sacerdote, pronto a diffonderne il verbo e a battersi per esso. “Il più potente elemento stilistico che ci sia”, dice, nello stesso segmento iniziale appena citato, a proposito del “no reason”, che ha fatto proprio fino a renderlo il centro di ogni suo discorso, collocato sia come origine che come punto d’arrivo per sovvertire l’idea classica dei rapporti causa-effetto. Come detonatore per fare esplodere dall’interno generi, gusti e abitudini cinematografiche, al fine di poterli decostruire.
E a questo punto, in linea con il nichilistico poliziotto all’inizio di Rubber, che senso ha cercare una ragione? Per quale motivo il film, l’arte tutta del resto, ha bisogno di una spiegazione (un dibattito secolare che mai si spegnerà), di logiche traiettorie evidenziate? Non può bastare quella, anche notevolmente rimarcata, del non averle? Perché, del resto, essa stessa è una logica precisa e ha un senso specifico, anche quando pare mancare.
Dupieux è un burlone, un irresistibile provocatore compiaciuto del far qualcosa anche solo per il gusto di farlo. Un cineasta che padroneggia benissimo il mezzo e ne sembra parecchio consapevole, con una fiducia in sé tale da renderlo di una presuntuosità unica, a dire il vero più nel bene che nel male. È vero, servirà un certo grado di fedeltà al suo cinema e uno sforzo considerevole per accettare le regole del gioco, una volta dentro però sarà difficile uscirne.
Una serissima boutade
Quello del parigino è un cinema che va oltre ciò che si può definire grottesco o surreale. Sembra che egli sia costantemente vigile e pronto a rifuggire da ogni qualsivoglia tipo di categorizzazione, con la ferma volontà di rimanere in un limbo che lo rende contemporaneamente il nulla assoluto e qualsiasi cosa si possa immaginare. I suoi film sembrano una grande finzione, si mascherano da commedie ma accennano ad una filosofia pessimistica da dramma, si vestono di un’ordinata e asciutta confezione visiva (che strizza l’occhio all’estetica degli anni Settanta) ma contengono un caos che risulta così fuorviante. È tale eclettismo, questo essere molto radicale in certe scelte ma apparentemente confuso in altre, a far la differenza. Dupieux si diverte e sembra tener molto a far divertire lo spettatore, ma lo fa con una compostezza formale così straniante che, per contrasto, porta ad un’ilarità se possibile maggiore.
Si muove sempre su un territorio destabilizzante la sua arte, ad un primo impatto casuale ma comunque molto calcolata, ragionata per apparire tutt’altro che sagace. L’unica certezza possibile è il non voler annoiare, crimine che sarebbe delittuoso per le sue pretese. Ed è così che gli alti e bassi del singolo lungo(si fa per dire)metraggio appaiono ben più intenzionali di quanto possa sembrare, come a voler abbassare le aspettative, a puntare sull’inaspettato guizzo sorprendente – o su ciò che ci si aspetta normalmente ma nel momento in cui meno sembra opportuno. Come la vita, oltre la vita, mentre trascende dalla ragione e dalla materia tangibile, dalla realtà del quotidiano e del possibile, dalle quali non sembra dipendere. La sua è una filmografia che non guarda in faccia niente e nessuno ma che, paradossalmente, sembra fatta per ammiccare e sedurre proprio per via di queste esagerazioni.
Quando sei qui Dupieux, questa stanza non ha più pareti
Sembra di rivedere ambienti e personaggi familiari dentro il suo cinema ma, neanche a dirlo, allo stesso tempo essi sono distantissimi dal vero; da una parte in piena e inamovibile fissità, dall’altra in costante mutamento. Ogni elemento in scena può saltare da un momento all’altro, contraddirsi e annullarsi, mentre la quarta parete si deflagra e ciò che pareva una parodia della realtà si trasforma nella vita stessa, che così si fonde con la finzione – come il commissariato di Au Poste!, la rappresentazione di Yannick, il set-deserto di Rubber, o sostanzialmente l’intera scatola cinese che è il Reality, simbolo (non totalmente riuscito) della decostruzione filmico-narrativa di Dupieux.
Paradossi viventi da teatro dell’assurdo ioneschiano, che trovano fiato nella coincidenza tra vero e falso, realtà e fiction. E sarebbe facile additarlo e catalogarlo come “semplice” metalinguaggio, riferimento all’arte e alla sua creazione o al rapporto autore-spettatore, mentre, forse, è più una non poco stratificata ed egocentrica – ma non per questo negativa – autoreferenzialità, esperienza ludica con la propensione per l’episodico (il racconto nel racconto, il film nel film, per far diventare tutto un rimando al suo lavoro) con la quale prendersi gioco dei generi e del pubblico. Rischia di essere troppo, di apparire come un trastullo per pochi, forse solo per se stesso, ma l’iperbolico lavoro di Quentin Dupieux non pare adatto per il compromesso.
È la sintesi del contemporaneo, dell’effimero, auto riflessivo ma senza pretese, la pura contraddizione postmoderna che cita e rinnega, del B-movie ricercato ma contaminato dall’arte “alta”, dell’autorialità europea che incontra il demenziale americano (come non pensare a Scemo e più scemo con personaggi così cartooneschi?). Cita, a volte quasi esplicitamente, l’immaginario di Ai confini della realtà o Quantum Leap – una cultura pop che sembra conoscere e parodiare, come nel caso dei supereroi di Fumer fait tousser – tratteggia accenni di comicità vicini ai Monty Python o al cinema del trio Zucker-Abrahams-Zucker, ma quelle di Dupieux appaiono sempre e comunque idee riconoscibili, nelle quali ogni elemento, originale e citazione, si fonde per creare qualcosa di personale. Un caos stabile nel quale non ci si perde anche se non si conosce la strada e si rischia di vagare a vuoto, puro situazionalismo nel quale a contare è più il singolo momento che l’insieme.
Se gli umani si bloccano e gli oggetti si muovono
Bloccati in un contesto beckettiano e bunueliano, i personaggi creati dall’autore francese sono passivamente in balia di un universo che ha perso a monte i suoi riferimenti cardinali – e non è un caso che i suoi attori siano o poco noti, quindi meno soggetti all’associazione a modelli fisico-caratteriali preimpostati, oppure allontanati dalle loro abituali vesti, come visto con Jean Dujardin, Adèle Exarchopoulos o Benoît Magimel. Questi non agiscono, si lasciano trasportare e dominare da ciò che spesso è il vero motore degli eventi, attendono e accettano, spesso senza costruire legami e relazioni concrete, umane, reali. Ogni individuo in scena, dopo un iniziale sconcerto, sembra adattarsi ad un contesto privo di logica, come a dover, senza sé e senza ma, alzare le spalle e rassegnarsi candidamente davanti a ciò che non si può spiegare.
Ciò che, a pensarci, accade a chiunque si trovi alle prese con il cinema di Dupieux: all’inizio è spaesato, dopo poco però sembra quasi volerne di più, accettando ciò che non capisce e aspettandosi proprio quello. Lì il suo cinema distorto sa colpire ed essere spiazzante, più di quanto non abbia già fatto a monte, perché rimescola sempre le carte in tavola, gioca con il tempo e il ritmo del racconto – egli stesso lavora sul montaggio – e aumenta il tasso di nonsense quando sembra aver raggiunto il vertice, o si distende in divagazioni e interferenze, tra flashback e tangenti dialogiche (Doppia Pelle e Mandibules, ad esempio, sanno bilanciare adeguatamente ritmi e tempi, così da trovare il meglio/peggio proprio dopo fasi di stasi e normalità) per poi accelerare improvvisamente e prendere in contropiede.
Per farlo utilizza ogni singolo elemento possa scaturire dai meandri di una mente così creativa ma punta comunque sempre su determinati e rodati feticismi: l’oggetto da animare o per cui sviluppare ossessioni (Rubber o Le daim), le strane creature (Mandibules, Fumer fait tousser), le forze dell’ordine (Au Poste, ancora Rubber, Wrong Cops), gli artisti e lo spettacolo (Yannick, forse il progetto più “normale”), il tormentone esilarante (“toro!” o “e perciò…”), tutto periodicamente riproposto e rilocalizzato a seconda delle esigenze, con il rischio di risultare ripetitivo e stanco. Come un Pirandello moderno, Dupieux ragiona sull’identità, l’omologazione e lo straniamento metatestuale, partendo sempre, per l’appunto, da un fenomeno insolito e bizzarro, al quale non si è mai totalmente pronti. Da ciò che nessun’altro riuscirebbe a farci apprezzare ma che lui, esasperante, ci imbocca fino a dargli sapore. Viva Quentin Dupieux, abbasso Quentin Dupieux.
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