Trecentosessantacinque giorni di cinema intensi, ricchi e soprattutto molto stimolanti. Il 2024 è stata un’annata decisamente interessante dal punto di vista cinematografico. Infatti, tra cocenti delusioni, ottime conferme, meravigliose sorprese e gemme nascoste, questi dodici lunghi mesi sono stati capaci di abbracciare i gusti e le preferenze del pubblico più vario e variegato: dallo spettatore occasionale, distratto e svagato, passando per quello generalista, fino ad arrivare al cinefilo più sofisticato, attento ed esigente.
Passando dal grande schermo della sala al comfort dei nostri dispositivi casalinghi, sono numerose le pellicole degne di nota che abbiamo avuto il piacere di apprezzare, e in alcuni casi anche amare. Ecco quindi la lista dei 40 migliori film del 2024 usciti al cinema, in home video e in streaming.
1. Challengers

Tutti continuano a parlare di tennis, chiedendosi contestualmente se stiano davvero parlando solo di tennis. Plasmato sulle affinità elettive che intercorrono tra la vita e il tennis, Challengers, l’ottavo palpitante lungometraggio diretto da Luca Guadagnino, si muove costantemente lungo il filo sottile di un’ambigua incertezza comunicativa, in realtà solo apparente, per raccontare il triangolo esistenziale, carnale e sentimentale, vissuto dai suoi protagonisti, interpretati da Zendaya, Josh O’Connor e Mike Faist.
Ambientato durante la finale di un challenger, un torneo minore dell’ATP, nel corso di un match che diviene il teatro ove mettere in scena questa simbolica battaglia dei sensi, Challengers delinea, attraverso una serie di flashback che tratteggiano i momenti più significativi dell’evanescente e cangiante ménage à trois, il percorso individuale e relazionale dei tre giocatori. I quali come ghiaccio e fuoco, dipendenza e dominio, sconfitta e vittoria, amore e odio, non sono altro che anime agli antipodi, opposti indissolubilmente legati gli uni agli altri, che si respingono ed ineluttabilmente si attraggono.
Nella pellicola il tennis non si manifesta solo come il motore narrativo di una storia sexy e passionale che parla di potere, desiderio, eros e sessualità, ma rappresenta la metafora emozionale attraverso cui esprimere le dinamiche emotive e relazionali dei tre amanti-rivali. In questo senso il rettangolo di gioco, delimitato da linee bianche con la rete che separa i mondi dei due sfidanti, dà forma ad una realtà-altra, espressione estrinseca di una relazione governata da sentimenti intensi e contrastanti, di controllo e sottomissione, seduzione e desiderio, repressione ed esteriorizzazione, potere e interdipendenza. Guadagnino firma un’opera profondamente viscerale che come sempre mette al centro i corpi quale fondamentale mezzo espressivo di un cinema del dolore e del piacere fatto di carne, ossa, sguardi, sudore e sangue. Indiscutibilmente uno dei migliori film del 2024.
2. La zona d’interesse

Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, La zona d’interesse, il quarto lungometraggio diretto da Jonathan Glazer, dipinge uno sconvolgente affresco sulla banalità del male, configurato attraverso il controcampo dell’immane orrore perpetrato dai nazisti ad Auschwitz. Il regista britannico delinea un quadro agghiacciante che mette in scena la chirurgica rappresentazione, a tratti surreale, a tratti grottesca, di una mostruosa normalità, atta a raffigurare l’immagine di un paradiso artefatto intorno al quale si manifesta un reale inferno.
Questo è un film di forti contrasti e crude contraddizioni, capaci di generare, attraverso quel confine spinato che separa la graziosa villetta dall’inumano lager, una scioccante dissonanza sensoriale tra immagine e suono. Una dicotomia percettiva tra spettro visivo e spazio sonoro che Glazer riproduce con geometrica precisione. Al di qua del muro scene di futile ordinaria quotidianità, sorde rispetto agli atroci rumori circostanti. Al di là invece, costantemente fuori campo, invisibili, si odono urla, pianti, gemiti, imprecazioni, spari, la disumana macchina mortifera di Auschwitz, lontana dal nostro sguardo ma nitida nella mente.
È difficile restare indifferenti. È difficile non provare un doloroso disagio durante e dopo la visione di La Zona di Interesse. È difficile non chiedersi, inghiottiti dal buio, sovrastati da quei suoni incessanti, quale sia realmente la nostra zona d’interesse. L’orrore resta al di là, oltre un giardino, un muro, un filo spinato, una teca, uno schermo del cinema. Siamo noi in fondo a stabilire lo spazio oltre cui il male diventa la terribile normalità che siamo disposti a tollerare, la disgustosa abitudine che ci ha assuefatti. Siamo sempre noi a scegliere dove tracciare quel confine che Glazer non ci fa oltrepassare.
3. Perfect Days

La prima, emblematica, immagine di Perfect Days è quella di un uomo che apre gli occhi. Un nuovo giorno. Osserviamo le prime timide luci dell’alba, ascoltiamo i suoni mattutini di Tokyo che pigra si sveglia, mentre l’uomo apre gli occhi, si alza e inizia la sua giornata eseguendo gesti rapidi e precisi che scandiscono le attività quotidiane, igiene personale, pulizie, lavoro, svago. Fino alla sera, quando disteso sul futon, dopo un po’ di lettura, chiude i suoi occhi stanchi, annegando nella dolce quiete dei sogni che cullano il suo sonno. E così via di nuovo.
Con Perfect Days, Wim Wenders firma una pellicola laconica e riflessiva che vuole regalarci una prospettiva diversa sulla realtà, quella di un uomo semplice che ha scelto di condurre un’esistenza essenziale nella sua silenziosa solitudine. Il film, infatti, ci mostra il mondo attraverso gli occhi di Hirayama, un protagonista taciturno e solitario, un uomo fuori dal tempo capace di trovare gioia e bellezza nei piccoli, semplici e sfuggenti dettagli del quotidiano, l’alba del sol levante, la luce che filtra tra le foglie degli alberi, il suono imperfetto di una musicassetta, la lettura di un libro, in tutti quei momenti che, come i 36 scatti del rullino di una macchina analogica, bisogna saper preservare, proteggere.
È racchiuso tutto qui il senso della meravigliosa opera di Wim Wenders. Perfect days è una struggente opera esistenzialista. Un racconto intimo e commovente, malinconico e poetico, che parla per immagini, narrando in sottrazione attraverso non detti che custodiscono universi, dentro quei solitari, lunghi silenzi.
4. Megalopolis

Megalopolis è probabilmente la pellicola più controversa e divisiva del 2024. Presentata al 76° Festival di Cannes, l’ultima abbagliante favola diretta dal maestro Francis Ford Coppola è un kolossal edificato intorno al concetto di tempo in grado di travalicare generi, linguaggi e registri narrativi. Ambientato nell’immaginifica New Rome, una proto-Manhattan mascherata di romanità, il film delinea un’ucronia surreale che sovrappone, combina e mescola il passato e il futuro. Fonde l’antico Impero Romano e il capitalistico Impero Statunitense. I vizi e le virtù di ieri con la decadenza e il progresso di domani, definendo in questo modo una metaforica allegoria che tratteggia l’ineluttabile ciclicità della storia dell’uomo, condannato inevitabilmente ad un perpetuo tramontare e risorgere.
Megalopolis è un’opera-mondo perché il suo demiurgo è un creatore di mondi. È, infatti, un’opera composta da tanti mondi separati. È modellata intorno a diversi universi solitari che comunicano gli uni con gli altri. Coppola pone il suo sguardo su tematiche che riflettono sulla contemporaneità, e allo stesso tempo scava nell’intimo più profondo della propria coscienza, venendo a patti con i dolori generati dall’incedere implacabile del tempo.
Due mondi che collidono l’uno nell’altro. Ancora una volta l’indelebile legame tra l’arte e l’esistenza. La vita che entra nel cinema. Il cinema che diventa vita. Francis Ford Coppola firma un’opera plasmata per tutti, ma contemporaneamente solo per sé stesso, che rappresenta il suo testamento poetico, spirituale e personale. Il testamento artistico di un autore irripetibile, riassunto in quell’ultima emblematica, commovente inquadratura. L’ultimo grande insegnamento del maestro.
5. Il Ragazzo e l’Airone

Hayao Miyazaki, uno dei padri dello Studio Ghibli, è il magnifico creatore di innumerevoli mondi impossibili, è il demiurgo di incredibili immaginari capaci di cullare la nostra fantasia verso luoghi fantastici che non vorremmo mai abbandonare. Con la sua ultima opera, adattata in italiano con il titolo Il ragazzo e l’airone, il maestro giapponese dispiega innanzi i nostri occhi un altro immaginario fabuloso. Un immaginario poetico al di là del tempo e dello spazio, nel quale non possiamo far altro se non perderci dolcemente. Un mondo nei mondi, dove le diverse realtà magiche si estendono e si mescolano l’un nell’altra, dove la vita e la morte coesistono con armoniosa naturalezza.
Il ragazzo e l’airone è una fiaba surreale che sfrutta perfettamente la metafora del viaggio, uno degli archetipi narrativi più antichi del racconto di formazione. Il viaggio dell’eroe, quel percorso, sia fisico ma in questo caso soprattutto metafisico, che per un protagonista è sempre sinonimo di evoluzione e di crescita. È per questo che Mahito, il giovane eroe del racconto, nel tracciare il suo personale sentiero, dovrà perdersi prima di poter trovare la strada di casa. Come spesso accade, troviamo una guerra sullo sfondo della vicenda, in questo caso, presumibilmente la Seconda guerra mondiale. Il contesto bellico, infatti, è un mero pretesto per riflettere su tematiche dal carattere universale e dal valore sia personale che collettivo, come la perdita e l’elaborazione del lutto, la maternità e il sacrificio, il tempo e l’ereditarietà, la morte e la vita, il male e l’amore.
6. Anora

Melò agrodolce, drama sentimentale, commedia amara ma soprattutto satira di costume. Sono diverse e variegate le sfaccettature tematiche, riflessive e narrative che definiscono Anora, l’ottavo vibrante lungometraggio diretto da Sean Baker. Una pellicola divertente, a tratti esilarante, ma al contempo, ugualmente profonda, crudele e dolorosa, che declina, attraverso la parabola della sua protagonista, interpretata da una frizzante Mikey Madison, l’illusorietà di quell’effimera chimera rappresentata dal sogno americano.
Il cinema di Sean Baker è focalizzato su reietti e outsider. Il regista indipendente è difatti un narratore della marginalità, probabilmente perché è proprio questa la reale dimensione che meglio definisce il nostro presente. Questa volta il cineasta abbandona i desolanti e desolati lidi della ruzzolante provincia americana che avevano caratterizzato i suoi lavori più celebri, per trasferirsi nel contesto urbano di New York, restando però sempre ben distante dalle luci della ribalta di Manhattan. Ambientato nella grigia periferia di Brooklyn, tra Coney Island e Brighton Beach, Anora narra una storia semplice modellata come una coming of age a metà tra Cenerentola e Pretty Woman sulla perdita dell’innocenza e dell’illusione.
Premiato con la Palma d’Oro al 76° Festival di Cannes, Baker fotografa il quadro di un’America che si specchia nello sguardo della sua protagonista. Un personaggio smarrito, esattamente come gli USA che intende raccontare, costantemente in bilico e alla ricerca di un equilibrio, prima di tutto identitario, che pare inafferrabile. Fragile e frivola, ingenua e determinata, Mikey Madison dà volto a una moderna Cinderella desiderosa di fuggire dalla realtà circostante. Una giovane donna che rappresenta il riflesso spezzato di tutte le aspirazioni, le promesse e le speranze non solo di una generazione, ma di un paese intero. Il simbolo di un mondo vuoto e svuotato che deve prendere coscienza di sé e di tutto ciò che sta intorno, risvegliandosi da quell’inganno che è l’America dei sogni infranti, per abbracciare un’esistenza più essenziale, genuina e concreta e per questo forse anche più commoventemente vera.
7. Green Border

Il confine è quella linea immaginaria che delimita l’estensione di un territorio. Uno spazio ideale segnato artificialmente che definisce la sovranità di uno stato. È proprio in una zona di confine, precisamente quella a cavallo tra Bielorussia e Polonia, che Agnieszka Holland ambienta Green Border, il suo ultimo straziante lungometraggio. La regista polacca si muove lungo la gelida, sconfinata e paludosa foresta che separa i due stati limitrofi dell’Est Europa, trascinandoci nel confine verde che dà il titolo al film, una sorta di limbo della disperazione che diviene il teatro ove rappresentare questa raccapricciante odissea di disumanità. Profughi siriani, esuli afgani, più in generale migranti provenienti da Medio Oriente e Africa vagano inermi come spettri, scaraventati da un lato all’altro del filo spinato che divide i due paesi dalle spietate autorità di confine bielorusse e polacche, in un macabro pingpong di brutali equilibri politici.
Messo in scena in un bianco e nero asciutto e glaciale, atto a manifestare un’opacità che inghiotte i colori e cancella l’umanità, Green Border è uno struggente film di denuncia politica e sociale che affronta, con estrema lucidità, il dramma dei migranti, mettendo in evidenza da un lato le gravi responsabilità del governo polacco e la crudeltà delle istituzioni bielorusse; dall’altro la completa inadeguatezza di un’Unione Europea, traditrice di quei principi di giustizia, uguaglianza e solidarietà sui quali si fonda. Diviso in quattro capitoli più un emblematico epilogo, che mostra la squallida ipocrisia delle politiche europee, Green Border è un racconto corale che finisce con l’intrecciare le vicende di tutte le pedine presenti su questo disumano scacchiere verde.
Green Border è un’opera dura e fondamentale di impegno civile, capace di smascherare col suo sguardo lucido e intenso che non conosce retorica, il velo su una realtà dolorosa che troppe volte decidiamo di non vedere. Un racconto di disperazione e morte che sceglie di regalare nel finale una breve scintilla di speranza legata alle nuove generazioni. Agnieszka Holland firma uno dei film più necessari di questa stagione.
8. The Substance

Un’immagine emblematica che insistentemente ricorre in The Substance, il secondo lungometraggio diretto da Coralie Fargeat, ritrae la protagonista, interpretata da una superlativa Demi Moore, intenta ad osservare la propria immagine riflessa sullo specchio. Rappresentazione del declino dell’icona che, proprio nel riverbero di quel riflesso, vede appassire la propria aura e con lei il tempo fuggire via. Un’immagine evocativa che racchiude in sé il senso più profondo del film della regista parigina.
Provocatorio, audace, euforico. The Substance mescola il romanzo gotico di fine ‘800, chiari i rimandi a Il Ritratto di Dorian Gray e a Dr Jekyll & Mr Hyde, con il body horror di evidente matrice cronenberghiana (ma sono diversi i riferimenti cinematografici ai quali la regista si ispira), per delineare una satira horror feroce e spietata, nella quale Hollywood diviene l’immagine riflessa attraverso lo specchio, quello del cinema, che mette in mostra la rappresentazione di un mondo governato dall’ideologia dell’immagine.
La Fargeat firma un’opera cinica e spietata che condanna aspramente la nostra edonistica società fondata sullo sguardo. Stigmatizza lo stile di vita di una società decadente edificata sullo sdoppiamento dell’io, sulla propaganda del sé, sul culto dell’apparire prima che dell’essere, sulla bieca mercificazione della carne. Stimolante il discorso allestito in chiave politica sui corpi, il punto di partenza e di arrivo delle riflessioni della regista. Perché in questa critica brutale, che non risparmia niente e nessuno, il corpo, una gabbia che imprigiona la nostra anima, è rappresentato solo come uno strumento usa&getta sfruttato a fini di lucro. Una pellicola dall’impatto dirompente che non può lasciare indifferenti.
9. Giurato numero 2

La verità, la giustizia e il senso di colpa, ma soprattutto i dilemmi morali che li avvolgono e li compenetrano. Sono questi i pilastri argomentativi e concettuali su cui si fonda Giurato numero 2, il 42° sublime lungometraggio diretto da Clint Eastwood. Il cineasta novantaquattrenne incornicia, intorno alla struttura di un classico legal drama, una pellicola capace di ragionare su tematiche da sempre presenti nel suo irripetibile cinema. Riflessioni stimolanti che mostrano la complessità dell’animo umano, costantemente frammentato tra la sua dimensione intima e sociale.
Il cinema eastwoodiano è capace di mostrare le complessità che caratterizzano l’animo umano, costantemente scisso e frammentato tra la sua dimensione intima (esistenziale) e sociale (politica). Due sfere divergenti, due mondi conflittuali che inevitabilmente collidono l’uno nell’altro. Riflessioni stimolanti che obbligano i personaggi dei suoi film, e di riflesso anche noi spettatori, a scavare nell’oblio oscuro e tempestoso dei nostri abissi più profondi. Con una lezione di cinema fatta di quella sintesi pura ed essenziale che può appartenere solo ai grandi maestri, Clint Eastwood riesce a coinvolgere, travolgere e sconvolgere, instillando, nel tentativo di rimettere in equilibrio la bilancia morale, la scintilla di quel ragionevole dubbio che ci costringe ad interrogarci e uscire dalla visione del meraviglioso Giurato numero 2 con molte più domande che risposte.
10. Horizon: An American Saga – Capitolo 1

L’orizzonte sconfinato, quello spazio ove il cielo e la terra sfumano uno nell’altro, fino a confondersi in un tutt’uno indefinito e suggestivo, rappresenta la struggente metafora di un futuro fatto di sogni, rivincite, desideri e speranze. Lungo il paesaggio di quell’orizzonte, scorgendo sentieri selvaggi, scrutiamo la chimera di una terra promessa, e con essa l’utopistico miraggio di agguantare una nuova esistenza. È proprio sulla linea frastagliata di un orizzonte americano di frontiera, un luogo tanto fisico quanto mentale, che Kevin Costner dipinge l’affresco di Horizon: An American Saga, la sua magniloquente epopea western, un kolossal d’altri tempi diviso in quattro capitoli.
Horizon: An American Saga – Capitolo 1 è il primo lembo di un arazzo dalle proporzioni enormi, nel quale le strade e i percorsi, le sorti e i destini di personaggi lontani e distanti, ma tutti ugualmente desiderosi di intravedere quell’agognato orizzonte di una fertile terra delle opportunità, si incroceranno e intrecceranno, andando insieme a plasmare le fondamenta, bagnate da sudore, lacrime e sangue, di quelli che da lì a poco diverranno gli Stati Uniti d’America.
Kevin Costner è il demiurgo di un’opera ambiziosa che non lascia spazio alla retorica, perché l’America è il simbolo di una nuova frontiera fatta di sfumature sottili, indefinite e laceranti, nella quale non esistono distinzioni nette tra bene e male, giusto e sbagliato, bianco e nero. La terra dei sogni, delle speranze e delle contraddizioni è uno sterminato spazio libero di incontro, scontro e commistione di popoli eterogenei e culture diverse; è un luogo smisurato, forgiato da tutte le infinite storie con la s minuscola che accadono mentre sullo sfondo, costantemente fuori campo, si sta scrivendo l’altra storia, quella con la S maiuscola, che modellerà, dopo la Guerra civile americana, una nazione edificata sull’unione di innumerevoli divisioni. Kevin Costner firma un immenso western dalle sfumature classiche. Tre ore che profumano maledettamente di cinema, e (fortunatamente) questo è solo l’inizio.
11. Past Lives

Quante volte, nel corso della vita, ci siamo trovati ad interrogarci su sfuggenti dilemmi esistenziali, quante volte ci è capitato di riflettere sull’annoso quesito “cosa sarebbe successo se…“. Cosa sarebbe successo se avessimo intrapreso una strada diversa, se avessimo imboccato un bivio al posto di un altro, se avessimo preso quella scelta invece di quell’altra. Cosa ne sarebbe stato della nostra vita, decisioni, percorsi, compagnie e relazioni diverse, un’esistenza differente.
Amore, tempo e destino. Sono questi i tre concetti che formano l’ideale triangolo intorno al quale ruotano le commoventi vicende di Past Lives, il primo intenso lungometraggio scritto e diretto da Céline Song. Un ideale triangolo emozionale che di riflesso si specchia, o meglio fa da contraltare, con l’intreccio sentimentale vissuto dai tre personaggi di questa storia. Past Lives è un racconto romantico sui sentimenti nascosti dalle sfumature intime ed essenziali, incentrato sul significato di provvidenza e di destino, due termini che la cultura coreana poeticamente condensa nel concetto filosofico di in-yun, quella credenza spirituale secondo la quale due persone restano intrinsecamente legate nel corso di più vite grazie al filo invisibile del fato.
L’esordiente regista coreana firma una pellicola dai tratti autobiografici, minimale, profonda e vibrante, intrisa di delicatezza e malinconia, che riflette sulle strade delle nostre vite, quelle passate e quelle future, sullo scorrere inesorabile del tempo e su tutti i se che pervadono le nostre esistenze: identità personale e aspirazioni professionali, valore delle radici e concetto di lasciarsi alle spalle un passato lontano ma mai veramente dimenticato. Céline Song mette in scena un film fatto di atmosfere soffuse e delicate, di tempi lunghi e dilatati, di sguardi dolci ma distanti, filtrati dal monitor di un pc, di corpi separati e lontani, di silenzi intensi ed eterni che, proprio in quei non detti, custodiscono emozioni e proteggono sentimenti. Un’opera struggente. Profondamente viscerale.
12. Povere Creature!

Mattatore all’80ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia, nonché alla cerimonia degli Oscar del 2024, Povere Creature! è la pellicola che segna la consacrazione cinematografica del regista greco Yorgos Lanthimos. Poor Things è una fiaba grottesca per adulti che sfrutta la metafora del viaggio per delineare il percorso di crescita, evolutivo ed emancipatorio della protagonista, Bella Baxter, interpretata da una meravigliosa Emma Stone, che dona anima e corpo al film, sfoggiando una performance straordinaria, che tra l’altro le è valsa il suo secondo Oscar come miglior attrice protagonista.
Come una novella Pinocchio anche Bella Baxter, infatti, da inerme marionetta assoggetta al giogo del suo padre-creatore prima, e di altri uomini poi, dovrà intraprendere un viaggio alla scoperta di sé e del mondo circostante, per arrivare ad essere donna, per riuscire ad autodeterminarsi. La parabola della protagonista diviene il veicolo allegorico attraverso il quale esplorare riflessioni sociali, politiche e ideologiche; argomenti che definiscono quella che in fin dei conti può esser descritta come una coming of age story femminista. Per questo Povere Creature! può esser considerato a tutti gli effetti un romanzo di formazione, anzi è il romanzo di emancipazione femminile.
13. Civil War

Quarto lungometraggio da regista per Alex Garland, Civil War è un interessantissimo thriller fantapolitico, con protagoniste due strepitose Kirsten Dunst e Cailee Spaeny, che riflette sul valore, l’importanza e il potere dell’immagine nella nostra epoca. Edificato intorno ad un canovaccio narrativo ibrido, che oscilla tra il road movie e il post apocalittico, il coraggioso film del regista britannico abbraccia numerose tematiche capaci di dialogare con la contemporaneità.
Ci muoviamo lungo degli Stati Uniti d’America dilaniati da una feroce guerra civile che ha fatto precipitare un paese intero (e probabilmente non solo) nel caos più profondo. Tuttavia, all’interno di questo scenario crudo, inumano e sconvolgente Alex Garland non sembra tanto interessato a discutere sull’impatto sociopolitico che avrebbe a livello globale un conflitto fratricida di questa portata, perché il focus discorsivo sul quale il regista si concentra è un altro. La pellicola, infatti, ruota intorno al concetto di immagine.
Civil War è un film di istantanee capaci di cristallizzare un momento, di catturare l’attimo, la vita e la morte, per rendere quell’istante immanente nel tempo, perché ciò che resta fuori campo è inghiottito nell’oblio della memoria. L’occhio del cineasta londinese, fotoreporter dell’umanità, fotografa la vicenda con sguardo freddo, distaccato e privo di giudizio, senza condannare o assolvere nessuna delle forze in campo, riuscendo, attraverso le sue istantanee di cinema, a scuotere le nostre coscienze intorpidite, generare dubbi e stimolare domande, delle quali, probabilmente, non vogliamo conoscere le risposte.
14. L’innocenza

Una delle prime, fondamentali sequenze di L’innocenza, il 16° sublime lungometraggio di Hirokazu Kore’eda, vede una mamma e suo figlio affacciati al balcone, mentre osservano incuriositi e eccitati i tentativi dei pompieri di spegnere il poderoso fuoco che sta bruciando uno dei palazzi prospicenti. Sguardo dei protagonisti su quello spettacolo/tragedia che rappresenta il manifesto stesso della pellicola del cineasta giapponese.
Edificato intorno all’inscindibile legame tra adulti e bambini, il cinema di Kore’eda in questo caso non si concentra tanto sulla famiglia, tema sempre presente nelle suggestioni del regista, quanto più sul delicato ruolo che gli adulti, o i tutori in senso lato, hanno nella crescita dei giovani. Tra le pieghe di un racconto composito che narra una vicenda drammatica di identità sessuale, bullismo e dell’impossibilità degli adulti di comprendere appieno i giovani, si possono cogliere le sfumature stratificate di un’opera struggente, attraverso la quale il maestro giapponese vuole declinare le sue profonde riflessioni sul concetto di verità, sul valore che le attribuiamo, su quanto la stessa possa essere effimera, manipolata e plagiata dai nostri sensi così fallaci e fallibili.
Lo sguardo è il reale cardine discorsivo attorno al quale ruota Monster, questo il titolo internazionale del film. Ne è chiara manifestazione la struttura narrativa che riavvolge continuamente il flusso del racconto avanti e indietro nel tempo per seguire tre differenti punti di vista sulla medesima storia. Tre punti di vista diversi capaci di rimettere in discussione le certezze acquisite, che fuse insieme vanno a comporre la complessa intelaiatura di un mosaico narrativo ove la verità è una preziosa chimera da custodire in segreto. Kore’eda delinea un discorso sullo sguardo che mescola vita e cinema attraverso la dicotomia percettiva del visto e non-visto, del campo e controcampo. Poiché molte volte proprio lontano dal nostro sguardo, fuori campo, si devono ricercare quelle verità che i nostri occhi miopi non sono grado di vedere.
15. Furiosa: A Mad Max Saga

Quasi 10 anni dopo il capolavoro Mad Max: Fury Road, George Miller torna a mettere le mani sulla saga cinematografica che lo ha reso celebre. Tuttavia, questa volta il cineasta australiano, esattamente come fa la sua Furiosa nel corso del film, volge lo sguardo al passato. Ma se per il personaggio qui interpretato da Anya Taylor-Joy questo coincide con il desiderio di ritrovare il Luogo Verde delle Molte Madri, la terra natia perduta, per Miller significa allargare gli orizzonti, ampliare il respiro ed esplorare la realtà distopica plasmata nel ’79. Sceglie infatti di tornare indietro per andare avanti.
Con Furiosa: A Mad Max Saga, Miller dimostra rinnovata consapevolezza, intelligenza e maestria, poiché sebbene sia evidente che attinga a piene mani dall’immaginario del capitolo precedente, opera cardinale non solo per la sua filmografica ma per il cinema tout court, allo stesso tempo comprende la necessità di distanziarsi e non replicare la formula, ridefinendo nuovamente il registro dell’action, che se in Fury Road appariva indemoniato, agonico, iperadrenalinico, in Furiosa viene riletto tramite una chiave più ponderata, organica e concreta, ma per questo non meno spettacolare.
Ancora una volta George Miller, nonostante realizzi un film abbastanza verboso e dialogato, specie per i canoni asciutti e laconici della saga, mette al centro l’immagine, l’imprinting visivo dello spettacolo, narrando con la sua regia ispirata attraverso la costruzione di rappresentazioni evocative pregne di significati suggestivi dal forte impatto iconico. L’ennesimo fondamentale tassello nell’opera di un narratore irripetibile. Quindi non ci resta che ammirare Furiosa e continuare ad ammirarla ancora.
16. Hit Man – Killer per caso

Questa è una storia quasi vera di un finto killer. È questa la frase che introduce Hit Man, l’ultimo delizioso lungometraggio diretto da Richard Linklater. Questa è una storia quasi vera. Quante volte ci è capitato di leggere queste parole, quasi come fossero un mantra che racchiude in sé il senso più intrinseco della settima arte. Perché cos’altro fa il cinema se non plasmare la realtà che ci circonda, manipolandola e modellandola a proprio uso e consumo? La stessa cosa che fa Linklater: prendere spunto dalla verità (un articolo del 2001 pubblicato sul Texas Monthly) per trasformarla in una splendida finzione cinematografica, dove il sicario sarà anche finto ma le risate sono verissime.
Hit Man narra la storia quasi vera di un professore di filosofia tanto mite quanto anonimo, che, come lavoro extra, collabora con la polizia di New Orleans, fingendosi un killer a pagamento per incastrare i potenziali mandanti di omicidio. Difatti l’uomo di nome Gary si traveste, manipola la sua personalità e la modella a proprio uso e consumo per recitare un ruolo che si adatti perfettamente alla circostanza e alla persona che lo ha ingaggiato. Ciò che accade al cinema.
Hit Man è una commedia incentrata sull’identità e le maschere, elementi insiti nella vita di un attore, che in egual modo si specchiano con le diverse rappresentazioni del nostro io che esterniamo quotidianamente. Persona e personaggio, verità e finzione, due facce della stessa medaglia che si fondono e confondono, delineando il contraltare di cinema e realtà. Non si sa più dove finisce l’uno e inizia l’altro. Esattamente come il protagonista, interpretato da Glen Powell, Hit Man si manifesta come un ibrido indefinito, capace di mutare continuamente genere e registro narrativo. Commedia, thriller, crime, melò, noir. C’è tutto e il contrario di tutto. Linklater e lo stesso Powell firmano una sceneggiatura brillante e stratificata che indaga in quel complesso groviglio che è la psiche umana, per scrutare in tutti gli angoli più oscuri dove plasmiamo e ridefiniamo le nostre cangianti identità.
17. Dune: Parte 2

Cos’è un credo? Cos’è una profezia? Cos’è un profeta? Come possiamo discernere la verità quando ci troviamo innanzi a domande prive di risposta. Come possiamo comprendere se una profezia è reale oppure se è il profeta stesso a renderla tale attraverso le sue azioni. Difficile appurare la verità. L’unica certezza è custodita nella circostanza che la religione, le credenze e la fede sono da sempre uno strumento del potere sfruttato per dominare, condizionare, obnubilare, accecare e accendere le coscienze delle masse.
Il concetto di fede è lo spunto tematico dal quale si diramano le suggestive riflessioni suggerite da Denis Villeneuve con Dune: Parte 2, il secondo capitolo dell’epopea tratta dall’affascinante universo letterario plasmato dalla mente geniale di Frank Herbert. Tutto ruota ancora intorno alla figura di Paul Atraides, il protagonista interpretato da Timothée Chalamet che il credo dei Fremen configura come il Mahdi, il messia annunciato dalla profezia e lungamente atteso dal popolo del deserto per liberarli dalla tirannia imperiale.
Dune: Parte 2 si conferma, al pari del primo capitolo, un prodotto necessario per il cinema. Un blockbuster ambizioso di pura perfezione estetica, ove, infatti, la forma si impone sulla sostanza. Il regista canadese mette in scena uno spettacolo visivo magniloquente e ammaliante, nel quale la potenza dell’immagine emerge preponderante su tutto e a prescindere da tutto, prevalendo specialmente rispetto ad una componente narrativa non egualmente appagante. Ad ogni modo vi sono pochi dubbi sul fatto che con Dune: Parte 2 Denis Villeneuve abbia firmato un’opera affascinante capace di mescolare perfettamente intrattenimento e autorialità, come pochi altri cineasti sono in grado di fare al giorno d’oggi.
18. Parthenope

Paolo Sorrentino firma un’opera poetica e struggente dedicata all’eterna bellezza della sua Napoli. Edificato sul perpetuo specchiarsi l’una nell’altra, Parthenope, il decimo lungometraggio diretto dal cineasta napoletano, mostra sin dalle prime sequenze la duplicità della sua anima. Infatti, la parabola esistenziale della protagonista vive in parallelo con lo sguardo intimo che il regista offre sulla città che gli ha donato i natali.
Bellissima e sensuale, odiosa e arrogante, fragile e ribelle, incantevole e maledetta, Parthenope, interpretata dalla magnetica esordiente Celeste Dalla Porta, incarna simbolicamente le suggestioni più contrastanti di una Napoli al femminile. La pura essenza di una città inafferrabile e dannata, tanto magnifica quanto tragica. Un luogo nostalgico di misteri e truffe che mescola sacro e profano. Una terra della bellezza, della dolcezza e del dolore fatta di acqua e sale, proprio come il mare. Amaro, romantico e malinconico come solo il cinema di Paolo Sorrentino sa essere.
19. Flow – Un mondo da salvare

In un mondo ove l’umanità è scomparsa, probabilmente estinta a causa di una condotta scellerata perpetrata troppo a lungo, ciò che rimane sono solo pallide impronte del nostro passaggio, i resti, le rovine e i relitti di una civilizzazione che non esiste più. A vagare in questa terra governata dalle pure leggi di una natura selvaggia, imponente ed incontrastata che continuamente si rinnova, troviamo esclusivamente animali liberi e indipendenti. Sono loro gli unici esseri viventi sopravvissuti al cambiamento, ad un ipotetico sconvolgimento climatico globale che ha cancellato la nostra civiltà. È questo lo scenario naturalistico, a tratti distopico, a tratti fiabesco, di Flow, il secondo lungometraggio d’animazione scritto e diretto da Gints Zilbalodis.
Nel mondo plasmato dal cineasta lettone gli esseri umani non ci sono più, per questo ci troviamo a seguire le avventure di un gatto nero scaltro, solitario e coraggioso. Un caparbio esploratore del mondo che dovrà cercare di sopravvivere alle ineluttabili insidie di una terra sommersa dalle acque. Lavorando esclusivamente in sottrazione ed esprimendosi solo attraverso i silenzi, i rumori della natura e i versi degli animali, Gints Zilbalodis riesce a infondere potenza espressiva ad un’opera poetica e struggente dalla forte impronta ecologista. Una pellicola essenziale colma di meraviglia, ammantata di profonde atmosfere malinconicamente laconiche.
Per questo nel mondo post apocalittico di Flow non serve alcuna parola per narrare. Sono, infatti, solo le suggestive immagini e gli ancestrali suoni del mondo a esprimere sentimenti ed enfatizzare l’emotività di una pellicola che ricorda e rinnova il fondamentale valore di quel senso di comunità capace di superare contrasti e disuguaglianze, differenze e diversità. Più che un insegnamento, un fatale monito per la nostra povera ignara umanità. Un gioiello imperdibile.
20. The Holdovers

Alexander Payne firma un’ottima commedia drammatica dalle tenui sfumature agrodolci, che scava nelle profondità più oscure dell’animo umano, per mettere in scena la storia di tre solitudini diverse che forse proprio grazie a questa breve, improbabile e forzata unione saranno capaci di colmare un vuoto doloroso e soprattutto saranno in grado di trovare lo spiraglio di una salvezza che donerà loro la forza per poter andare avanti con la loro vita. The Holdovers è una pellicola essenziale che parla di malinconia e solitudine, di trauma e depressione, di sconfitta ed elaborazione del lutto.
In questo senso l’ambientazione desolata della Barton Academy, durante la pausa dalle lezioni per le festività natalizie del 1970, diviene la cornice ideale per narrare questo tipo di storia. L’austero collegio maschile, un microcosmo freddo e isolato dal resto del mondo, quasi estraneo dal tempo e dello spazio, si trasforma nel perfetto teatro ove mettere in scena questo brillante racconto di formazione esistenziale dalle tinte nostalgiche e classiche. Nella pellicola di Payne non c’è buonismo melenso e non ci sono sdolcinatezze fuori posto, c’è semplicemente una storia autentica e sincera di struggente umanità, capace di far sorridere, commuovere e riflettere. The Holdovers è un’agrodolce lezione di vita.
21. Wicked – Parte 1

Adattamento del musical tratto dal romanzo di Gregory Maguire intitolato Strega – Cronache dal Regno di Oz in rivolta, quest’ultimo a sua volta prequel revisionista di Il Meraviglioso Mago di Oz, Wicked: Parte 1 è il primo capitolo di un dittico incentrato su Elphaba, la perfida Strega dell’Ovest, villain del racconto di L. Frank Baum. Seguendo una tendenza molto in voga nella narrazione moderna, il musical di Jon M. Chu si propone di donare tridimensionalità alla malvagia cattiva della storia originale, espandendo al contempo l’universo narrativo di Oz. Attraverso una rilettura che abbraccia la contemporaneità, assistiamo a un sovvertimento dei ruoli e al ribaltamento della prospettiva che per certi versi decostruisce la mitologia di una storia dall’impianto classico, fondata sulla netta dicotomia tra bene e male.
Wicked: Parte 1, il film dell’anno per il National Board of Review, si configura come il tipico blockbuster per tutta la famiglia che punta le sue fiches sull’intrattenimento e lo spettacolo, rivelandosi, sotto questo punto di vista, un prodotto commerciale assolutamente efficace. Il cardine discorsivo del musical di Jon M. Chu ruota intorno a tematiche attuali, affrontate, trattandosi di una pellicola rivolta al grande pubblico, in modo semplice e diretto. Si parla di razzismo, discriminazione e diversità, ma anche di argomenti legati al potere e alla politica come la propaganda, la censura e il controllo delle masse.
Il cuore pulsante di Wicked è custodito dalle sue protagoniste, Cynthia Erivo e Ariana Grande, nei panni rispettivamente di Elphaba e Glinda. Le attrici, assolutamente convincenti nell’interpretare due ruoli posti agli antipodi, funzionano sia individualmente, sorprendente in particolare la pop star che dimostra uno spiccato talento per la commedia, che soprattutto in coppia, nella loro dinamica amiche/nemiche. Nella sua evidente incompletezza, in pratica è solo il primo tempo di un lunghissimo film, Wicked: Parte 1 può considerarsi un prodotto riuscito. Per questo adesso non resta che attendere il secondo e conclusivo atto della storia.
22. MaXXXine

Quant’è confortante restare spiazzati? Quanto può esser stimolante vedere le nostre aspettative ribaltate? Il cinema di Ti West è in perpetuo movimento. Il cineasta americano continua a rileggere e reinterpretare in modo del tutto coraggioso il registro narrativo della sua Sexy Horror Trilogy. Infatti, Ti West di film in film declina la componente horror, la costante stilistica che fa da cornice alla saga, in maniera diversa. Perché se X – A Sexy Horror Story era strutturato come uno slasher che guardava alle pellicole di genere degli anni ’70 come riferimenti da citare e omaggiare, mentre Pearl si delineava come un drama introspettivo grottesco che indagava nel profondo della psiche della protagonista, MaXXXine si presenta come un noir thriller ispirato ai grandi classici (anche italiani) degli anni ’80.
In questo senso convince l’ambientazione di una Hollywood dall’aura infernale, un luogo oscuro di corruzione sinonimo di perdizione e perversione, che ben si adatta con l’atmosfera tensiva che vuole restituire il film. Come avveniva anche nelle precedenti pellicole, la trama crime del terzo capitolo si rivela un mero pretesto mettere in scena gli stimolanti spunti di riflessione proposti da Ti West. Il film si apre con una frase di Bette Davis, una citazione che rappresenta il manifesto non solo di MaXXXine, ma dell’intera Sexy Horror Trilogy: “In questo mestiere finché non sei conosciuto come mostro, non sei una star.”
Ti West attraverso una storia di mostri, sangue e violenza che parla di sogni e ambizioni, riflette sugli Stati Uniti d’America. Infatti, l’opposta parabola esistenziale delle due protagoniste, entrambe interpretate magistralmente da Mia Goth, è solo lo spunto per scrutare le promesse infrante, tradite e spezzate del sogno americano. Una chimera seduttiva che non fa altro che generare mostri. Maxine e Pearl non sono altro che due facce della stessa medaglia. Per questo il viaggio nell’intimo della loro contorta e corrotta psiche, altro non è che un viaggio nelle profondità più oscure dell’America.
23. Tatami – Una donna in lotta per la libertà

Vincere per sé stessa, per la famiglia, per la squadra, per il paese, per l’Iran. È questo ciò che motiva Leila Hosseini, la judoka persiana, interpretata da Arienne Mandi, protagonista di Tatami, pellicola diretta a quattro mani da Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi, la grande attrice iraniana voce di un popolo che grida libertà, che nel film recita anche la parte di Maryam, l’allenatrice della Hosseini.
I due registi mettono in scena, attraverso una storia di finzione liberamente ispirata a fatti realmente accaduti, uno splendido noir thriller politico, ambientato in un palazzetto dello sport a Tblisi in Georgia, durante i mondiali femminili di judo. La pellicola, girata in un bianco e nero che spegne i colori e inghiotte la luce, restituisce un senso di soffocante claustrofobia, trasformando il quadrato del tatami, uno spazio di libertà espressiva ove dar sfogo a passione e talento, in una prigione dell’anima. Infatti, quel tappeto diviene un mondo dove non si lotta solo contro un avversario per la medaglia, ma si combatte per non soccombere al regime, non abbassare la testa e dimostrare che un futuro migliore è possibile. Un futuro per sé stessi, per la famiglia, per la squadra, per il paese, per l’Iran.
24. Il mio amico Robot

Non è per niente un caso che il regista spagnolo Pablo Berger scelga di ambientare Il mio amico Robot, il suo primo lungometraggio d’animazione, proprio nella New York dei primi anni ’80, in una Grande Mela ove si scorge in lontananza l’immagine laconica delle Torri Gemelle, simbolo, quest’ultimo, di qualcosa che non c’è più. Un’istantanea che restituisce ancora a distanza di anni, a chi ha vissuto quei momenti, un senso di dolorosa tristezza. La stessa nutrita anche da DOG e ROBOT, i protagonisti di questa toccante storia di anime solitarie che, esattamente come quelle torri gemelle, si trovano così vicine, ma allo stesso tempo così crudelmente lontane.
Adattamento di Robot Dreams, graphic novel di Sara Varon, Il mio amico Robot è una delicata favola sulle strade della nostra esistenza, sui sentieri che percorriamo e abbandoniamo, sugli intrecci del destino che casualmente ci uniscono e allo stesso modo ineluttabilmente ci separano. Pablo Berger firma un racconto dolce e amaro di mancanza e distanza, di solitudine e abbandono, che riflette in maniera pura ed essenziale su rapporti universali, e soprattutto rivela quanto possano essere dolorosamente fragili, ma ugualmente necessarie, le relazioni della nostra vita.
Nel mondo animato di Berger, popolato da simpatici animali antropomorfi ognuno dei quali configura uno specifico archetipo socioculturale, non servono parole per narrare. Il regista spagnolo sfrutta il silenzio per raccontare la storia di DOG e ROBOT, enfatizzando l’emotività e i sentimenti dei suoi personaggi attraverso tutto ciò che li circonda: i rumori degli oggetti, i suoni cittadini, la musica, l’espressività e gli sguardi teneri e comunicativi. In questo senso New York, una metropoli che tratteggia un immenso melting pot culturale ed al contempo un malinconico universo di solitudini, è il teatro ideale ove rappresentare questa commovente fiaba intimista che danza leggera al ritmo della splendida September degli Earth, Wind & Fire. Già settembre, non un mese a qualunque per quelle solitarie Torri Gemelle.
25. Vermiglio

Quante volte il paesaggio circostante si riflette con lo spirito di chi abita quegli stessi luoghi, quasi come se si instaurasse una specie di simbiosi emotiva e sensoriale tra l’uomo e la terra, una sorta di legame inscindibile. È il quadro di un mondo antico, per certi versi ancestrale, quello dipinto da Maura Delpero in Vermiglio, il suo secondo lungometraggio da regista, vincitore alla 81ª Mostra del Cinema di Venezia del Leone d’argento. Il quadro di un mondo gelido, freddo e arroccato che restituisce un senso di rigida austerità. La medesima irremovibile austerità che appartiene all’animo della gente che popola quei luoghi bianchi e silenziosi dalle sembianze così eterne ed immanenti. L’influenza reciproca tra la natura e l’essere umano.
Per questo il ritratto messo in scena da Maura Delpero, che tratteggia gli stessi luoghi ove la famiglia di suo padre ha avuto origine, pare quello di un mondo che costituisce un universo a sé stante, estraneo ed estraniato da tutto. Fatti, eventi e notizie paiono solo lontani e sbiaditi richiami provenienti da terre irraggiungibili, separati proprio dal crinale di quelle catene montuose, delle barriere tanto fisiche quanto emotive. Vermiglio è la storia di una famiglia ove il riverbero della natura si fonde in un tutt’uno indefinito con le esistenze delle persone che popolano quelle vette impenetrabili.
Maura Delpero punta la sua lente d’ingrandimento proprio sulle donne di una di quelle famiglie della montagna austera. Sono loro, infatti, il reale motore narrativo, ma soprattutto emotivo di un racconto di passioni, desideri e aspirazioni. Donne anziane, adulte, giovani o ancora fanciulle che devono combattere, soffrire e resistere per cercare di far sentire la propria voce e provare a trovare il proprio posto nel mondo. Sono proprio queste donne, le donne di Vermiglio, ritratte dalla Delpero con cura, eleganza e sobrietà, ad infondere forza ad un’opera struggente dotata di sensibile autenticità.
26. Il gusto delle cose

Un’opera ricolma di poesia, classe ed eleganza nella quale il cibo è sinonimo di vita e di pulsante vitalità, poiché si delinea come quella pura metafora estetica, sensoriale ed emotiva capace di generare sensazioni estremamente vibranti e veicolare sentimenti profondamente viscerali. Il gusto delle cose, settimo lungometraggio da regista di Tran Anh Hùng, liberamente tratto dal romanzo La vie et la passion de Dodin-Bouffant scritto da Marcell Rouff, è una inebriante storia romantica di complicità e armonia, di gioia e bellezza, di sensualità ed erotismo, di passione e amore.
Il cineasta vietnamita naturalizzato francese plasma il cardine dell’intenso e struggente rapporto tra i due protagonisti, interpretati in maniera sublime da Benoît Magimel e Juliette Binoche, attorno all’universo enogastronomico, edificando la relazione dei due amanti attraverso le goduriose atmosfere culinarie legate all’estetica del cibo, al seduttivo atto di cucinare e alla cucina, quest’ultima intesa sia come spazio fisico, che come luogo dell’anima. Tran Anh Hùng è maestro nel mettere in scena un penetrante melò fatto di tenerezza e carnalità, un racconto voluttuoso esaltato dalla grazia della natura e dai suoni libidinosi della cucina, dai silenzi infiniti e dalle attese eterne, dagli sguardi delicati e dai gesti meticolosi, che solleticano i sensi, stimolando tanto il corpo quanto lo spirito.
D’altronde tutto nell’avvolgente cucina di Monsieur Dodin Bouffant appare come un vivido richiamo all’esistenza. Ogni oggetto, utensile, ingrediente, ripiano, angolo o spazio si configura come parte integrante, inalienabile e fondamentale di una realtà-altra, di un microcosmo estraneo e quasi estrapolato dal nostro mondo, ma contemporaneamente in grado di rappresentarne una sintesi primordiale. Il regista francovietnamita firma una poesia raffinata, magnetica e sensuale nella quale sapori, profumi e aromi esplodono in un tripudio di estasi visiva che si fa grande cinema.
27. La sala professori

Sovente nel cinema si suole muoversi entro spazi circoscritti e delimitati. Confini precisi che definiscono un unico ambiente chiuso e isolato che configurano un micro-mondo che appare avulso da quello circostante per rappresentare una specifica macro-realtà. È questo ciò che fa İlker Çatak con La sala professori, il suo quarto stimolante lungometraggio. Il regista tedesco di origini turche ci proietta nel suo archetipo di microcosmo, una scuola media tedesca d’eccellenza fatta di aule moderne, ordinate e confortevoli, spazi curati e all’avanguardia, un luogo che pare essere l’ambiente ideale nel quale studiare, crescere e socializzare.
Tutt’a un tratto però il ritratto di quest’esemplare ecosistema esteriormente perfetto imploderà su sé stesso, sconvolto da una serie di piccoli misteriosi furti, che mineranno i labili e delicati equilibri sociali e gerarchici della comunità scolastica. La maschera dello school-drama serve a Çatak per esplorare territori più vasti e complessi. Infatti, la metafora della sua scuola-mondo viene sfruttata per delineare una puntuale critica sul fallimento del nostro sistema comunitario, generazionale e istituzionale.
Lo sguardo attento del cineasta muove la macchina da presa esclusivamente all’interno degli spazi scolastici. In questo modo le aule, i corridoi, le palestre, gli uffici e la sala professori divengono lo specchio incrinato di una realtà frantumata nella quale si riflette l’immagine scomposta della nostra disgregata e decadente società. Çatak danza sicuro lungo i confini del thriller noir, grazie ad una sceneggiatura chirurgica dove nessun dettaglio è lasciato al caso, nessun elemento fuori posto. La sala professori è una pellicola in grado di coinvolgere e sconvolgere, di farci riflettere sul significato che diamo alla verità e sul prezzo che siamo disposti a pagare pur di conoscerla, arrivando infine a mettere in discussione persino le nostre più ferree certezze.
28. Longlegs

Oz Perkins firma un thriller psicologico a tinte horror, con protagonisti la splendida Maika Monroe e un inquietante Nicolas Cage, nel quale i toni del noir investigativo incontrano quelli violenti e disturbanti delle storie di satanismo. Il sottotesto tematico di Longlegs è chiaro: la vittima sacrificale verso la quale viene puntato il dito è la famiglia borghese americana, con il suo stile di vita ipocrita e preconfezionato, moralista e opprimente. Una istituzione fondata su valori cosiddetti tradizionali divorata dall’interno dal male più puro. Un male oscuro probabilmente autogenerato proprio da quelle stesse credenze borghesi sulle quali la famiglia occidentale si basa.
La messa in scena di Oz Perkins, nella quale forma e sostanza riescono a coabitare perfettamente, è la chiave di volta di una pellicola in grado di giocare in maniera intelligente e stimolante con la paura, la tensione, l’ansia e l’angoscia. Un senso di oppressiva e disarmante inquietudine che perdura anche una volta finita la visione di Longlegs, in particolar modo grazie alla potenza visiva delle numerose sequenze macabre capaci di lasciare il segno. Un grande thriller horror d’atmosfera.
29. A Quiet Place: Giorno 1

Spin off del dittico post apocalittico scritto e diretto (nel caso del primo capitolo anche interpretato) da John Krasinski, A Quiet Place: Giorno 1 riporta l’orologio della narrazione indietro nel tempo, per mostrare il giorno in cui l’umanità dovette rimanere in silenzio. Il rumore medio che quotidianamente accompagna New York è pari a 90 decibel. È di tale intensità la frastornante colonna sonora di una metropoli che pare avvolta da un urlo perenne e incessante. Quale miglior location, dunque, per narrare le origini di un’apocalisse nella quale il filo sottile che separa la vita dalla morte è tracciato sul non emettere il minimo rumore?
A Quiet Place: Giorno 1 non è un racconto di resistenza, ma una storia esistenziale ambientata nel momento in cui la civiltà sta per estinguersi. Per questo la protagonista, una donna malata terminale di cancro, a differenza di tutti gli altri non cerca tanto di sopravvivere, quanto più di provare a riassaporare la vita, seppur per un breve attimo, tornando nei luoghi della sua memoria, in quei posti dove un tempo si è sentita viva. Sono questi i sentimenti che muovono Sam, il personaggio interpretato da Lupita Nyong’o, lungo le strade devastata di una Grande Mela sprofondata nell’oblio del silenzio.
Giorno 1 è il terzo capitolo di una saga che sembra aver esaurito il fascino di quell’innesco narrativo così caratteristico. Infatti sebbene resti ancora forte il fattore immedesimazione, collegato all’assenza narrativa di rumori che si riflette con il silenzio della visione cinematografica, è innegabile constatare che l’elemento sorpresa, associato alle violentissime creature, sia ormai del tutto disinnescato. Tuttavia lo spin off di Michael Sarnoski è da considerarsi un ottimo prodotto proprio grazie alla sua anima intima ed essenziale legata ai personaggi, un elemento che condivide con il primo film. I due protagonisti, la già citata Sam, accompagnata dall’inseparabile splendido gatto Frodo (nomen omen) e il giovane Eric, interpretato da Joseph Quinn rappresentano il cuore e l’anima della pellicola. Si espandono gli orizzonti della saga, sempre in rigoroso silenzio.
30. La stanza accanto

Una riflessione sulla morte, sulla vita e sulla memoria. Quest’ultima raffigurazione del ponte che fatalmente tiene unite quelle due costanti dell’esistenza umana. Sono questi i pilatri tematici attorno ai quali è edificato La stanza accanto, il 24° lungometraggio diretto da Pedro Almodóvar, vincitore del Leone d’Oro all’81 a Mostra del Cinema di Venezia, che si segnala principalmente per esser il suo primo film in lingua inglese.
Libero adattamento di una delle vicende di cui si compone il romanzo di Sigrid Nunez intitolato Attraverso la vita, The room next door pone al centro della narrazione il rapporto tra due amiche di vecchia data, ritrovatesi dopo diversi anni proprio quando la vita di una di esse sta giungendo al capolinea a causa di un’incurabile malattia. Nell’ottica del cineasta madrileno l’incontro tra le due donne, interpretate dalle eteree Tilda Swinton e Julianne Moore, rappresenta il momento per focalizzarsi sul diario del proprio vissuto e sulla memoria e l’eredità che lasciamo ai posteri, fotografando con malinconica lucidità gli attimi, i rimpianti, i rimorsi e i ricordi che hanno costellato una vita che si accinge ad imboccare l’ultima inesorabile curva dell’esistenza terrena.
Tenendo ben presenti molte riflessioni incardinate nella sua irripetibile cinematografia, Almodóvar pone l’accento sul tema dell’eutanasia, delineando, attraverso il poetico concetto della dolce morte, un discorso quantomai attuale strettamente connesso al corpo, alla coscienza, al libero arbitrio e all’autodeterminazione del sé. Perché in questa riflessione agrodolce dalle sfumature personali e intime, tenui e soffuse, la morte è vista da Almodóvar come un fatto naturale. Ella non è una nemica da evitare ed esorcizzare, ma un’amica da accettare con consapevolezza e abbracciare senza paura, poiché rappresenta, al pari della vita, l’emblema totalizzante dell’esistenza di ognuno di noi.
31. Il Robot Selvaggio

Un angolo di mondo sperduto e isolato circondato dal verde e popolato solo da animali. Un ecosistema incontaminato e inospitale, regolato esclusivamente dalle leggi della natura, che appare come una realtà-aliena in una terra del domani ormai sconvolta dalla scellerata mano dell’uomo. È questo lo scacchiere narrativo che fa da cornice alle avventure soffuse di Il Robot Selvaggio, il quinto lungometraggio diretto da Chris Sanders. L’intrusione in questo territorio dal profumo ancestrale, definito e circoscritto, dell’unità ROZZOM 7134, il robot ipertecnologico protagonista della pellicola, che dopo aver familiarizzato con la fauna locale cambierà il suo nome nel più gentile Roz, si rivelerà la scintilla narrativa della toccante storia tratta dal primo dei tre omonimi romanzi illustrati di Peter Brown.
Sebbene sia incentrato principalmente sul tema della genitorialità, Il Robot Selvaggio mostra numerosi sottotesti stimolanti, legati alla solitudine, alla discriminazione, all’accettazione del diverso, alla ricerca dell’identità, alla famiglia, alla morte, alla vita. In questo modo il film di Sanders riesce a tratteggiare un affresco esistenziale composito dalle sfumature universali. Un discorso tematico arricchito anche dall’attuale, e quantomai necessaria, metafora ambientalista che fa da sfondo all’intera vicenda. Una commovente fiaba umanista per tutta la famiglia.
32. Alien: Romulus

Spin off inserito cronologicamente tra il primo capitolo di Ridley Scott e il sequel di James Cameron, Alien: Romulus è il settimo film ambientato nel franchise dello xenomorfo. La saga di Alien non è mai stata caratterizzata da un vero e proprio canone, tipico di un universo narrativo condiviso, per questo ogni regista che si è approcciato allo xenomorfo ha avuto modo di rileggere e reinterpretare, reinventare e rinnovare la materia, imprimendo la propria impronta personale sull’opera.
Dopo aver diretto nel 2013 il poco convincete remake de La Casa, Fede Àlvarez mette le mani su un altro mostro sacro della storia del cinema. Il regista uruguaiano però, a differenza di quanto fatto con il cult di Sam Raimi, si è dimostrato calibrato e consapevole nel saper rispettare la mitologia di una saga tanto importante come quella di Alien. Rifacendosi per estetica, ambientazioni e toni ai primi due capitoli, il film si propone di omaggiare la storia del franchise, attraverso citazione e riferimenti che abbracciano i sei film precedenti. Edificato intorno ad un intreccio convenzionale per gli standard della saga, Alien: Romulus è un discreto fantahorror, capace di costruire, intorno all’unico ambiente claustrofobico della stazione spaziale, un’atmosfera ansiogena di tensione pulsante.
Àlvarez offre spunti di riflessione allineati alla contemporaneità. Il regista si interroga sul significato e sul senso di umanità: cosa definisce un’esistenza? Cosa renda una vita reale e cosa no. È solo l’essere umano in quanto tale a provare sentimenti, a esser dotato di umanità? Quesiti esistenziali ben connotati nel franchise dello xenomorfo, che tuttavia nulla aggiungono alle stimolanti suggestioni suggerite da chi ha preceduto il regista nato a Montevideo. Senza volersi gravare dell’opprimente fardello di cercare di raggiungere le vette più elevate della saga, Alien: Romulus si rivela un prodotto riuscito nella forma, forse meno nella sostanza. Ad ogni modo un blockbuster assolutamente godibile.
33. Enea

Enea potrebbe esser superficialmente licenziato come l’arrogante affresco di una generazione di viziati e insoddisfatti privilegiati. Invece, il secondo lungometraggio scritto, diretto e interpretato Pietro Castellitto, delinea lo specchio di una società frustante e frustrata, perdente e perduta, decadente e decaduta, che riverbera il proprio opaco riflesso nel nostro mondo. Un riflesso nichilista che viene proiettato attraverso le storie di vita, morte, amore e passione dei suoi tragici personaggi.
Il figlio di Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini firma una commedia nera, ricca di momenti iperbolicamente grotteschi, ma allo stesso tempo fortemente radicata nella nostra contemporaneità sociale. Enea è un dramma familiare senza dinamiche familiari (nonostante siano puramente tangibili nel film i legami e le reali dinamiche claniche dei e tra i Castellitto), è un gangster movie senza gangster, è un racconto generazionale senza generazioni, è una critica sociale senza società, è una grande storia d’amore senza passione, senza baci.
Quello che Pietro Castellitto dipinge innanzi i nostri occhi è il ritratto di una realtà disgraziata fatta di personaggi che, protetti sotto la loro fragile campana di vetro, cercano qualcosa di sfuggente, un’inafferrabile chimera che forse potranno mai ottenere. È il ritratto di una realtà romanticamente tragica fatta di perdenti insoddisfatti, mossi dalla brama di sentirsi vivi, dalla costante ricerca di vitalità, spinti da un’incessante voglia di felicità e desiderosi di riuscire a vivere in un mondo dove possano tornare ad esistere i baci.
34. Inside Out 2

Sequel del capolavoro Pixar del 2015 capace di rivoluzionare l’animazione occidentale, Inside Out 2 riparte da quegli stessi punti fermi vincenti che avevano reso iconico il primo capitolo, per portare avanti il percorso di crescita emozionale della piccola Riley Andersen. Ancora una volta, a prender per mano accompagnando passo passo la tredicenne protagonista nel suo sviluppo emotivo, troviamo le cinque emozioni base, Gioia, Paura, Disgusto, Rabbia e Tristezza. Quest’ultime però, arrivati sulla soglia della pubertà, dal momento in cui la nostra vita altro non è che un’indecifrabile, continuo e complesso processo evolutivo, dovranno interagire con nuovi ingombranti inquilini della psiche di Riley: Ansia, Imbarazzo, Invidia e Noia.
Kelsey Mann, nel raccogliere il testimone ereditato da Pete Docter (e del suo co-regista Ronnie del Carmen), firma un sequel edificato intorno al medesimo canovaccio narrativo del capostipite, che, come vuole la regola, seppur nulla di nuovo reinventa a livello strutturale, prova ad aumentare la posta in palio della storia. Per questo motivo, Inside Out 2, nonostante non possieda la dirompenza e l’incisività del predecessore e conseguentemente non riesca nemmeno ad avvicinarsi alle elevatissime vette del primo capitolo, ne rappresenta una valida e degna prosecuzione.
Se Inside Out si concentrava sull’infanzia e su tutte quelle dinamiche primordiali verso cui ci affacciamo da bambini, questo sequel accoglie la pubertà, una fase di sviluppo più complessa e delicata, iniziando così a delinearsi come il secondo tassello di un’interessante saga orientata ad abbracciare il percorso di crescita dei suoi giovani spettatori. Per questa ragione non v’è dubbio che il franchise plasmato nel 2015 sia sempre più indirizzato a rappresentare il romanzo di formazione per eccellenza di casa Pixar.
35. Estranei

Il più delle volte siamo soliti associare il concetto di fantasma ad un contesto orrorifico, ad un immaginario spaventoso che scatena le nostre paure più recondite. In realtà le storie di fantasmi possono essere anche molto altro, possono rappresentare la metafora di un profondo ed inscindibile legame verso un passato irrisolto o incompiuto, fatto di traumi e tragedie, di rimorsi e rimpianti che ci tolgono il sonno, palesando nella nostra mente gli spettri della coscienza provenienti da un tempo lontano, ma impossibile da dimenticare.
È di questo che parla Andrew Haigh in All of Us Strangers (in italiano adattato con il titolo Estranei), il suo ultimo lungometraggio liberamente ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore giapponese Taichi Yamada. Estranei ci proietta nella realtà surreale di una Londra onirica, laconica e malinconica, che somiglia ad una sorta di purgatorio alienante e alienato, ad un universo di solitudine cristallizzato nel tempo, tra presente e passato, nel quale tutti paiono essere fantasmi che vagano come estranei in un mondo che non appartiene loro.
Andrew Haigh firma una toccante ghost story che spezza il cuore sul peso dei ricordi e sul fardello della memoria, sui sensi di colpa e sulle questioni irrisolte, sull’elaborazione del lutto e sull’accettazione di sé, su tutte quelle ferite lancinanti del passato che lacerano il presente, che squarciano il cuore, affogando la nostra anima nell’oblio di un insormontabile dolore interiore che non ci consente di vivere. All of Us Strangers è un intenso viaggio metafisico capace di danzare sinuosamente tra realtà e immaginazione, di muoversi tra le pieghe più personali, impenetrabili ed inaccessibili della nostra coscienza, di navigare in quei luoghi intimi, profondi e tormentati dove tutti noi ci sentiamo un po’ estranei.
36. Deadpool & Wolverine

La prime significativa sequenza che apre Deadpool & Wolverine, il 34° lungometraggio del Marvel Cinematic Universe, ritrae il protagonista, interpretato da Ryan Reynods, intendo a dissotterrare per provare a rianimare i resti del cadavere dell’artigliato canadese, l’eroe mutante reso celebre al cinema da Hugh Jackman. Una rappresentazione piuttosto emblematica che sintetizza il senso intero del cinecomic diretto da Shawn Levy.
Chi segue il Marvel Cinematic Universe lo sa bene, la fase post-Endgame si è rivelata sotto il profilo qualitativo piuttosto altalenante, poiché caratterizzata da molti bassi e pochi, sporadici picchi, probabilmente uno solo: l’elegia spaziale di Guardiani della Galassia Vol. 3. Per questo è facile intuire quanto fosse arduo il compito di Deadpool & Wolverine.
Il cinefumetto diretto da Shawn Levy è edificato intorno a una trama che si palesa un mero pretesto per mettere in scena una sequela di gag divertenti, situazioni improbabili, sequenze comiche e scene demenziali. Deadpool & Wolverine è un buddy movie violento, volgare e romantico che affronta la crisi Marvel con onesta ruffianeria. Continui sfondamenti della quarta parete, ironia volgare e dissacrante, parolacce e allusioni sessuali più o meno velate (un unicum non sempre calibrato e piuttosto fine a sé stesso in un MCU family friendly) la fanno da padrona nella pellicola che ha rigenerato l’universo narrativo degli Avengers.
37. Conclave

Si apre con l’evocativa inquadratura dell’anello papale, Conclave, il quinto lungometraggio diretto da Edward Berger, basato sull’omonimo romanzo scritto da Robert Harris. Nel corso della pellicola, infatti, più volte la macchina da presa del regista tedesco premio Oscar si ritrova ad indugiare sugli anelli dei personaggi, del papa defunto prima, dei cardinali poi. Piccoli oggetti preziosi simbolo religioso del potere temporale della chiesa vaticana. Un Papa è morto, il trono è vacante, il mondo intero è in attesa della fumata bianca, mentre osserviamo riuniti tutti quegli ambiziosi signori degli anelli che nell’ombra bramano di conquistare il potere pontificio. D’altronde quella in atto è una vera e propria guerra politica.
Conclave è un thriller politico intenso e sorprendente, ambientato interamente nell’ovattata realtà del Vaticano. Proprio questo spazio circoscritto, alieno rispetto al resto del mondo, rappresenta l’aspetto più interessante della pellicola, dal punto di vista narrativo per infondere pathos e fascino ad una storia ricca di tensione permeata sul complotto e l’intrigo; dal punto di vista cinematografico, invece, per mostrare la solenne sacralità di un procedimento secolare da sempre misterioso. Edward Berger decide di edificare l’elezione del nuovo Santo Padre come un machiavellico gioco di potere ove proliferano inganni e bugie, sospetti e macchinazioni, ricatti e strategie politiche, riuscendo così a delineare un ambiguo viaggio all’interno degli inaccessibili saloni vaticani al fine di definire un microcosmo che tanto riflette i propri vizi e i propri peccati con il controverso e contraddittorio mondo che lo circonda.
38. Drive-Away Dolls

Primo lungometraggio da solista per Ethan Coen, il minore dei fratelli registi premio Oscar, Drive-Away Dolls è un’irresistibile noir comedy scritta a quattro mani insieme alla moglie Tricia Cooke. Muovendosi a metà strada tra la buddy crime-comedy e il road movie, la pellicola di Ethan Coen, sotto molti punti di vista, può esser definita una vera e propria coming of age story. Infatti, la coppia di giovani protagoniste, interpretate dalle irresistibili Margaret Qualley e Geraldine Viswanathan, sono due amiche lesbiche agli antipodi: una è uno spirito libero, l’altra è introversa e pudica Le due si ritroveranno, un po’ per caso, un po’ per gioco, a intraprendere un viaggio in macchina direzione Tallahassee (Florida). Quello delle ragazze però si rivelerà un viaggio tanto fisico quanto spirituale, proprio perché riusciranno a raggiungere ed abbracciare sarà qualcosa di più personale, intimo e profondo.
Attraverso lo sguardo di un’America di fine millennio, come sempre scissa tra l’ipocrisia del conservatorismo repubblicano e la dissolutezza del progressismo democratico, Drive-Away Dolls riflette su innumerevoli tematiche, sia personali che politiche, come l’omosessualità e l’accettazione di sé, l’infelicità e la solitudine, la mascolinità tossica e fallocrazia del potere. E lo fa con un tono divertente e divertito che non si prende sul serio. In mezzo a tutto ciò ovviamente, Ethan Coen non dimentica le sue radici, infatti mette in scena una storia psichedelica arricchita da folli elementi pulp, black humor scorretto, comicità sboccata, sfacciata ed irriverente, momenti sopra le righe e quel pizzico spregiudicato di cinismo che ha da sempre definito il suo modo di intendere il gangster movie, ma più in generale il cinema. Un gioiellino imperdibile.
39. Amore a Mumbai – All We Imagine as Light

Tre distanti stagioni della vita che si riflettono l’una nell’altra, mostrando il riverbero di un destino esistenziale che appare già segnato. Un destino esistenziale che a sua volta pone il suo sguardo proprio nel luogo ove queste storie di donne prendono forma, Mumbai, una metropoli notturna, ammaliante e corrompente, specchio riflettente di tutte queste vite private di un futuro. La vergogna per esser stata abbandonata, le ingiustizie sociali dopo una vita di sacrifici, la giovane rincorsa di un amore impossibile. Con il suo secondo film, ma primo lungometraggio di finzione, Payal Kapadia propone il ritratto dolce, amaro e malinconico di tre donne diverse, accomunate da sofferenze differenti ma unite dalla medesima solitudine.
Amore a Mumbai dà forma a un ritratto intimista che delinea, attraverso le sue protagoniste, un’ideale sovrapposizione identitaria di tre modelli femminili in uno solo, proprio per denunciare una condizione quasi inevitabile, determinata da un modello di vita impostato, predisposto e prestabilito dalla società a cui queste donne appartengono. Una società opprimente che non sente la loro voce. La trentottenne regista indiana firma un’opera intensa e delicata, sociale e profonda, gentile e struggente, edificata intorno ad atmosfere intime e soffuse, fatte di sguardi e di silenzi, di lacrime e di dolore, di momenti di solitaria introspezione che fanno da contraltare al caos dirompente che avvolge costantemente l’immensa metropoli indiana. All We imagine as light è una pellicola di sogni e desideri.
Sogni e desideri che probabilmente iniziano a prendere forma proprio quando, nella seconda parte del film, le tre protagoniste si allontanano dalla tumultuosa metropoli, e di conseguenza dai suoi retaggi culturali e sociali, per abbracciare la realtà della natura più ancestrale, nel villaggio in riva al mare dove la più anziana di loro ha deciso di tornare a vivere dopo aver perso la propria casa a Mumbai. Un nuovo spazio esistenziale riconciliante nel quale acquisire consapevolezza dei propri vuoti interiori, per riuscire forse ad afferrare quel desiderio di libertà tanto agognato.
40. Stranger Eyes – Sguardi nascosti

Com’è facilmente intuibile dal titolo, Stranger Eyes, il terzo lungometraggio scritto e diretto da Yeo Siew Hua, configura una stimolante riflessione sull’atto del vedere, mettendo in scena un discorso sullo sguardo, certamente non originale, proprio perché insito nell’essenza stessa della settima arte, che ad ogni modo il cineasta singaporiano riesce a rinnovare, declinandolo nell’ottica della società contemporanea, proprio attraverso l’alienante e isolata realtà-mondo di Singapore, una Metropoli-Stato insulare ove pare esser svanito il senso più puro di intimità.
Tramite un giallo thriller dalle sfumature noir, Yeo Siew Hua delinea una riflessione sul concetto di privacy che si muove su un doppio binario argomentativo. Da un lato si analizza il regime pubblico di sorveglianza sempre più sistemico e pervasivo che controlla le nostre vite; dall’altro si descrive la pratica morbosamente privata di un mondo schiavo di un bisogno voyeuristico divenuto, a causa della diffusione dei social media, sempre più ossessivo. Infatti, la vicenda drammatica al centro del film, che intreccia le vite dei vari protagonisti, rappresenta solo una miccia narrativa accesa per innescare un discorso sociopolitico edificato intorno alla dialettica tra il vedere e l’esser visti. Un perpetuo, circolare e ciclico gioco di specchi e di riflessi nel quale osservare ed essere osservati è una pratica che rende la vita, sia la nostra che quella degli altri, un inquietante spettacolo quotidiano. Perché appunto l’occhio rimane lo strumento sensoriale più significativo di un’epoca governata dalla dittatura dello sguardo, completamente assorbita ed ossessionata dall’insaziabile necessità di un consumo visivo bulimico che sembra ormai implacabile.