Potremmo sfruttare l’occasione della nuova edizione denominata Master Collection Vol.1 per ribadire l’ovvio, ovvero quanto Metal Gear Solid, l’iconica saga videoludica ideata da Hideo Kojima, sia riuscita non solo a rivoluzionare il settore, ma a evolverlo gradualmente.
Potremmo, certo, ma troviamo più esaltante e interessante provare a raccontare ed evidenziare il rapporto estremamente personale che questa saga è riuscita a instaurare con l’utente finale. Dunque lunga vita a Metal Gear, franchise che, nonostante gli anni, sembra non essere scalfito minimamente dallo scorrere del tempo, con quella patina di polvere che viene spazzata via appena pensiamo a un qualunque capitolo della saga.
Le origini di Metal Gear
Hideo Kojima è una vera e propria rockstar del mondo videoludico, inutile provare a confutare questa ovvia verità. Vero autore sopraffino, sceneggiatore attento alle dinamiche narrative come della società in cui vive e in cui ambienta le sue storie, negli anni si è costruito una schiera di appassionati che letteralmente vivono ogni singolo titolo da lui sviluppato come un vero evento. Un’esperienza collettiva che si nutre delle emozioni e relativo entusiasmo dietro la promessa di un prodotto non solo divertente, ma profondo, ricco di emozioni e di spunti di riflessione.
Eppure, al di fuori dei proclami, Hideo Kojima ha avuto un’infanzia non particolarmente esaltante: il game director in giovane età perde improvvisamente il padre per via di un’emorragia celebrale. Questo evento lo segnerà profondamente, cercando conforto nel cinema – specialmente quello occidentale – i libri e la musica. Finita la scuola, con l’impossibilità di studiare cinema negli istituti più prestigiosi, Kojima rimane affascinato dalle possibilità che il settore dei videogiochi sembra proporre.
Bisogna ben delineare alcuni concetti e pregiudizi riguardo chiunque si approcciasse professionalmente al settore dei videogiochi. Questi venivano visti come dei reietti, persone con forti passioni su musica, scrittura, illustrazione, regia, che non erano riusciti a trovare uno spazio nel settore di riferimento, declinando dunque questi sforzi in un settore “di serie B” che di certo non veniva rispettato. Anzi, lavorare nei videogiochi era un po’ sinonimo di precarietà assoluta.
I primi due Metal Gear datati 1987 e 1990 sono un po’ il frutto di questo incontro di artisti che provano a raccogliersi attorno la figura di Hideo Kojima, che entra in Konami giovanissimo pur non sapendo assolutamente nulla di programmazione, ma che si fa subito ben notare dalla compagnia grazie alle sue idee e consigli di sviluppo. Il giovane Kojima si dimostra sin da subito una mente brillante, capace di travalicare il semplice concetto di intrattenimento per abbracciare un livello superiore di esperienza collettiva. Il videogioco poteva e doveva essere di più e il legame con il videogiocatore diventa perno centrale di ogni produzione che porta la sua firma. Un legame che Kojima cerca di recuperare sin dalla tenera età, per esorcizzare la perdita del padre e recuperare tutto quello che non è mai riuscito a dirgli.
Un’esperienza “Solida”
Per chi ha familiarità con le sfide, l’arrivo della prima PlayStation e della modellazione di poligoni in ambiente tridimensionale non deve certo essere stato un ostacolo, bensì un nuovo livello di consapevolezza del medium da sfruttare. E per tale motivo bisogna spremerlo quanto più possibile.
Le idee attorno Metal Gear Solid sono delle più forti: uno sviluppo supportato da un budget considerevole, una cura e una dedizione al tessuto narrativo impagabili e la possibilità di evolvere il già citato legame con il videogiocatore con trovate brillanti capaci di rompere la quarta parete, ma anche attraverso l’immersione nei confronti di una narrativa all’interno di un contesto conosciuto e silenzioso.
Sembra quasi paradossale che sia servito un film come Oppenheimer di Christopher Nolan per risvegliare il timore nucleare in ognuno di noi. Lo abbiamo vissuto sempre per osmosi, per sentito dire, letto nei libri di storia o visto nei film, ma oggi che percepiamo come concreto il pericolo atomico è concreto, il contesto in cui è ambientato Metal Gear Solid appare premonitore. Come esperimento potente.
Metal Gear Solid non sottolinea solo gli stilemi che contribuiranno alla costruzione della lore della saga, ma colpisce anche come monito: la guerra non è bella, sconfiggere o uccidere un ammasso di pixel su schermo crea delle conseguenze e, infine, il contesto nucleare assolutamente tossico diventa la minaccia finale. Non a caso, alla fine di ogni capitolo di Metal Gear Solid, ci ritroviamo a sconfiggere, appunto, un Metal Gear, macchina corazzata tecnologica capace di trasportare e lanciare con estrema semplicità testate nucleari, tenuta sempre sotto controllo da terroristi o gruppi rivoltosi. Il male da sconfiggere.
Nella realizzazione di Metal Gear Solid però Kojima non scorda il primo amore, il cinema: Snake e tutto il resto del cast di personaggi viene costruito con stilemi degni da film hollywoodiano sceneggiato dalla migliore delle penne in circolazione. Stampe di divi e attori girano facilmente negli studi di Konami, da Mel Gibson a Christopher Walken, fino a Kurt Russell. La profonda cultura in campo cinematografico si mescola alla necessità di creare un’esperienza più fruibile e intelligente possibile, quindi recuperando qualche video o foto del periodo di lavorazione del gioco. Kojima e il suo team studiano la costruzione delle mappe di gioco, in immensi set LEGO e da qui avviene la magia: la posizione della telecamera, come dei nemici, degli oggetti, come si deve muovere, lo studio della regia virtuale in tutte le cutscene. Tutto passa da qui.
Alla sua uscita, Metal Gear Solid si rivelò qualcosa di fresco, nuovo, rivoluzionario, impossibile da etichettare. Tra chi elogiò l’interattività che il gioco aveva con il videogiocatore (tutto lo scontro con Psycho Mantis, la ricerca della frequenza Codec di Meryl e altre chicche simili) ad altri che non potevano che sottolineare quanto l’intera opera fosse narrativamente coinvolgente. Un’esperienza totalmente inedita nel mondo dei videogiochi. Visto il successo, Hideo Kojima cominciò a diventare un nome di punta nel settore.
Una rivoluzione silenziosa
Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty è il capitolo meno apprezzato del franchise, ma non per demeriti intrinsechi dell’opera, anzi. Il titolo mette in atto una gloriosa e silenziosa rivoluzione. Il protagonista, per buonissima parte dell’avventura, non sarà l’amatissimo Solid Snake, bensì Raiden, giovane di bell’aspetto che si inserisce come spalla di Snake nella classica missione di infiltrazione.
Il pubblico rimase sconvolto e anche un po’ frustrato: contenti ed entusiasti dell’annuncio di un secondo capitolo, la “sorpresa” che Kojima confezionò per il pubblico provocò un piccolo terremoto nella solida struttura che gli appassionati si erano costruiti giocando e rigiocando Metal Gear Solid. Inoltre la stessa impostazione narrativa del gioco, che per buona parte sembra ricalcare fedelmente gli eventi del capitolo precedente, scoraggiò gli utenti più pigri a proseguire, bollando il titolo come una riproposizione pedissequa di qualcosa di già visto.
Il titolo però esplode nel secondo atto con un twist importante che mostra tutte le idee originali del gioco, dando a Hideo Kojima la possibilità di poter comunicare ancora le sue idee tramite e attraverso il medium. Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty è un gioco che anticipa alcuni temi al limite della profezia: la manipolazione della realtà e dei media, la stessa natura e il concetto di libertà di ogni essere vivente, civile o militare che sia. Per Kojima i personaggi sono importanti quanto la narrazione che li vede protagonisti, più di un semplice ammasso di pixel rappresentati su un televisore: sono una storia, un dolore, una speranza per il futuro tanto forte quanto vana, sono voci e volti che, anche a console spenta, continuano ad abitare nella nostra memoria e nella nostra fantasia.
Il passato del serpente
Come si può ben capire dalla personalità, Hideo Kojima è un autore fuori dagli schemi. Non folle e scellerato, certo, ma capace di superare la classica barriera di confort zone per andare oltre, proporre soluzioni di gioco come narrative sempre peculiari, brillanti, mai banali. Dopo il successo dei due precedenti capitoli, Kojima avverte subito un sintomo di stanchezza. Mentre i fan, ormai affezionati a Solid Snake, vogliono nuove avventure a lui dedicate, Kojima cerca di allontanarsi sempre più dal personaggio, con la consapevolezza di aver detto tutto su di lui.
In questo clima, mentre nessuno se la sente di prendere il suo posto alla guida del franchise, con un team di sviluppo che lo vede sempre più come unico oratore possibile di questa saga complessa e raffinata, Hideo Kojima partorisce quello che è considerato a mani basse il miglior capitolo della saga, ovvero Metal Gear Solid 3: Snake Eater.
Un tuffo nel passato per una Guerra Fredda mai davvero finita, dove si pone al centro di tutto Big Boss, personaggio già presente nei precedenti giochi, visto sempre come antagonista o spietato fantasma di un passato tenebroso, e che ora diventa l’eroe di un titolo brillante e delicato. L’amore per la vita e il cinismo della guerra che si amalgamano per dare vita ad una storia tra le più belle e tragiche mai viste sul medium, costruite attorno alle potenzialità di un hardware spinto al massimo.
Kojima dona allo spettatore la possibilità di affezionarsi ad un personaggio riconosciuto come negativo scavando però nelle sue origini, nei suoi traumi, sottolineando la più classica delle analisi, ovvero che non esistono persone cattive, ma traumi che non sono stati superati. Cicatrici grandi e invisibili che ci portiamo dietro e che segnano il nostro futuro. Nello scontro finale di Metal Gear Solid 3 c’è tutto l’addio possibile, anche prima di Death Stranding, che Kojima dedica al padre assieme alla solita critica alla guerra, passata, presente e futura, con una metafora costruita su un campo di battaglia colorato da fiori bianchi, mentre un soldato muore per la patria, senza che la storia lo possa ricordare per i meriti. “In memoria di un patriota che ha salvato il mondo”.
La chiusura del cerchio
Arriva un momento in cui è ora di cambiare pagina, di lavorare ad altro, ma staccarsi dalle proprie creazioni è molto difficile. Specie quando non è per volontà propria, ma per responso che viene dall’esterno.
La genesi di Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots e Metal Gear Solid 5: The Phantom Pain nasce sotto questi aspetti che ne hanno influenzato parecchio il processo creativo quanto di sviluppo. Con MGS4: Guns of the Patriots, Kojima ripesca dal cilindro Solid Snake, questa volta invecchiato, stanco, un guerriero al tramonto della sua vita, donandogli la vera ultima missione. Come lui anche tutti gli altri personaggi visti nei titoli precedenti in un gioco che si prefigge di chiudere il cerchio. La densità narrativa è necessaria. Ore e ore di cutscene, momenti toccanti, i corpi martoriati di due uomini rivali, fratelli che ripercorrono decenni di sfide, battaglie e guerre, mentre sul viso e sulla pelle rimangono i segni di ogni scontro. MGS4: Guns of the Patriots è il corpo della saga, tanto stanco quanto emozionante nella chiusura del cerchio.
Non finisce qui, perché ormai interessato alla gesta del passato, Kojima con Metal Gear Solid 5: The Phantom Pain ci regala l’ultima incursione storica, seguendo lo sfizio di creare un Metal Gear in un contesto open world, cosa che avrebbe voluto realizzare già con il quarto capitolo, ma impossibile nell’applicazione durante lo sviluppo.
MGS5 come ben sappiamo è davvero l’opera incompleta per antonomasia: mentre Hideo Kojima si dedica allo sviluppo, cercando di spingere al massimo ogni tipo di meccanica di gioco, Konami comincia a spazientirsi per l’aumento di budget richiesto e i lunghi tempi di sviluppo. L’azienda muoverà i primi passi verso una riorganizzazione generale interna che per anni ha favorito la concentrazione gaming ai giochi mobile e ai pachinko (particolari video slot di giochi d’azzardo tipiche in Giappone) e il primo mattone posato è proprio l’allontanamento di Hideo Kojima dalla compagnia e relativa distribuzione di MGS5 omettendo il nome del suo autore in ogni modo.
Inutile sottolineare quanto questa azione fece arrabbiare i fan, che si ritrovarono di fatto un gioco con delle gravi mancanza narrative proprio nelle fasi finali, senza una vera chiusura del cerchio narrativo e altri contesti lasciati un po’ al caso. Difetti che un perfezionista come Hideo Kojima non avrebbe mai lasciato incompleti.
L’eredità di Metal Gear Solid
Metal Gear Solid ha da sempre parlato della guerra, criticandola nel corso degli anni e dei contesti sociali e politici che l’hanno attraversata e costruendo la complessità dei suoi personaggi proprio dietro quelle cicatrici che il conflitto ha causato loro. Dal controllo della politica a quello dei media stessi, approfondendo anche temi quali manipolazione genetica, intelligenze artificiali e il concetto di libertà, ogni virgola narrativa di Metal Gear Solid è inserita in una frase che ha nella guerra e nel conflitto tra nazioni il suo fulcro centrale.
In contesti e stilemi così ricchi, Metal Gear Solid ha mostrato la reale possibilità del medium di saper comunicare una storia ricca, piena di eventi, personaggi e veicolare emozioni in modo cristallino. L’eredità di Metal Gear Solid è tutta lì, nello storytelling portato avanti da un Autore che non ha mai fatto alcun passo indietro, che ha preso ogni capitolo come una sfida personale inserendo tutto sé stesso, cercando quell’abbraccio e quel legame con ogni videogiocatore nel mondo, per curare una cicatrice, un dolore originatosi nel passato. Nella perdita di un padre che è stato anche il carburante per alimentare questa storia epica.
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