Partiamo subito con una domanda provocatoria: e se la miglior cosa capitata ad Alien dopo i primi due film di Alien non fosse un film di Alien? Domanda contorta dalla risposta semplice. Perché la risposta è quel piccolo capolavoro di Alien Isolation. Uno splendido videogioco uscito ormai 10 anni fa, che è riuscito a fare una cosa difficilissima: carpire lo spirito originale del primo Alien di Ridley Scott targato 1979 e trapiantarlo dentro un videogioco sequel, ambientato 15 anni dopo quel film cult. Un’operazione chirurgica delicata che, come tutte le operazioni chirurgiche, ha lasciato un segno indelebile dentro chiunque ci abbia mai giocato. Perché il ricordo di Alien Isolation non solo ci angoscia ancora per tutto quel terrore provato nell’oscurità, ma fa venire a galla tutti i meriti di un’opera che ha davvero saputo portare avanti l’eredità del franchise.
Ve ne parliamo oggi perché in questi giorni, complice l’uscita in sala del discreto Alien Romulus e di qualche ottimo sconto negli store on line, la splendida creatura di Creative Assembly è tornata a far parlare di sé. Infatti tanta gente lo sta giocando o rigiocando così tanto da farlo salire del 320% nelle statistiche in game di Steam. Un piccolo ritorno di fiamma che ci serve come assist perfetto per analizzare i meriti di uno dei nostri videogiochi preferiti. Quell’Alien Isolation che non ha solo ispirato l’ultimo Alien Romulus (fateci caso, i telefoni presenti nel film richiamano quelli dei punti di salvataggio del gioco), ma che sembra davvero figlio, o meglio figlia, del mitico, primo Alien. E allora, a piccoli silenziosi passi, torniamo negli anfratti più oscuri della Savastapol a caccia di tre cose che rendono Alien Isolation un piccolo capolavoro.
Un urlo nel silenzio
Prima, però, partiamo dal contesto in cui è nato il gioco. Anno 2014. Nello spazio nessuno può sentirti urlare perché il clamore attorno ad Alien si è parecchio spento. Due anni prima è uscito il controverso Prometheus, che negli anni è stato in parte rivalutato da molti, ma che al tempo raccoglie più dissensi che favori. Sul fronte videoludico siamo reduci da due titoli non proprio memorabili come Alien Infestation e Alien colonial marines. Due titoli che si ispirano più ad aliens di cameron che ad alien di scott col loro piglio più action e avventuroso. In questo silenzio totale ecco arrivare Alien Isolation, partito a fari spenti per poi diventare crearsi una sua nicchia di fan che lo amano alla follia. Sì, perché nonostante sia tutt’ora un ottimo gioco molto amato dalla critica e da buona parte del pubblico, Isolation non è un successo commerciale travolgente. Forse per la sua estrema difficoltà, forse per il suo essere frustrante, forse per il masochismo con cui annichilisce e terrorizza il giocatore. Non è un caso, infatti, che tanti Alien Isolation non lo abbiano giocato ma lo abbiano visto giocare su youtube, come se fosse un film. Perché quella tensione per molti è insostenibile e spaventa. Altro motivo del suo non successo commerciale? La scelta coraggiosa di un survival horror in prima persona. Una scelta che fece storcere il naso all’utenza ma che si è rivelata fondamentale per la riuscita del gioco. E qui arriviamo al primo grande merito di Isolation. Aver avuto il coraggio di difendere un’ottima idea.
Orrore in soggettiva
Durante la fase di produzione c’erano grandi dubbi sul realizzare il gioco in soggettiva. Il publisher Sega spingeva per un survival horror in terza persona, come andava di moda all’epoca. Pensiamo alla svolta di Resident Evil 4, al franchise di Silenti Hill o al sottovalutato The Evil Within. Tutti titoli dove l’orrore era vissuto in terza persona appunto. All’interno di Creative Assembly però difendono l’idea iniziale. Alien Isolation non poteva essere snaturato. Doveva essere un gioco in prima persona. Una scelta fondamentale per rendere isolation la perla che è. Lo spunto è semplice quanto geniale. Un grane Alien lo abbiamo già visto, ma come sarebbe viverlo? Per legarsi al primo alien, che di fatto è un horror travestito da fantascienza, il team fa una scelta metanarrativa perfetta: se il gioco è figlio di alien, anche la protagonista dovrà esserlo. E infatti eccoci nei panni di Amanda Ripley, la figlia dell’iconica Ellen Ripley di Sgourney weaver. Figlia citata in una scena poi tagliata di Aliens, presente nella director’s cut del film di Cameron. Attraverso Amanda non faremo altro che rivivere il disastro della nostromo alla ricerca della sua scatola nera. E rieccoci così spettatori di un nuovo, vecchio orrore. Ancora una volta prede di quel famelico xenomorfo imbattibile che abbiamo ancora nelle orecchie e soprattutto negli occhi di un gioco che non poteva che essere in prima persona.
L’impotenza
Giocare Isolation in soggettiva restituisce una sensazione ben precisa. Non ti senti mai padrone degli spazi in cui ti muovi, ma un ospite indesiderato che subisce quello che avviene attorno a te. Una percezione di totale impotenza fondamentale per rendere questo Alien un survival horror tanto sofisticato quanto efficace. Perché la tensione del gioco è costruita con sapienza e pazienza, senza cercare la via più facile del jump scare fine a se stesso. Non poter uccidere lo xenomorfo e aver evitato il classico scontro fisico con le armi da fuoco ha reso Alien un gioco dove la sopravvivenza te la guadagni a fatica con piccole ma fondamentali accortezze: armadietti lasciati chiusi, passi soppesati, rumori evitati, giuste strategie di movimento e grande studio dell’ambienta circostante. Senza questa sensazione di debolezza nostre e di Amanda e senza l’aura di totale invincibilità dello xenomorfo, che di fatto è ineluttabile che thanos scansati proprio, Alien Isolation forse si sarebbe sabotato da solo.
L’atmosfera
Alien Isolation trasuda amore per Alien da ogni poro, anfratto e oggetto di scena. Non c’è un corridoio, uno schermo o una porta che non richiami la Nostromo del primo film. Questo perché creative assemby ha avuto accesso a una marea di studi di materiale di art design messi a disposizione dalla 20th Century Fox. Dall’aspetto dello xenomorfo, leggermente cambiato nelle movenze e nelle articolazioni fino alle tute, passando per scrivanie e pannelli di controllo, ogni cosa sembra davvero provenire da quell’orrore profondo visto al cinema nel 1979 e vissuto davvero solo grazie a Isolation dal 2014 in poi. Un gioco che ha fatto un’altra grande, scelta. Sposare la filosofia del “less is more”. Quella in cui l’orrore arriva da quello che non vedi, ma riesci solo a percepire, sfiorare, sentire appena. Una presenza assenza fondamentale. Così come nel film di scott lo xenomorfo appariva su schermo soltanto 3 minuti, anche nel gioco la tensione arriva dal suo incombere più che dalla sua presenza effettiva. Dopotutto la paura più ancestrale è questa: quello che possiamo solo immaginare che cresce nella nostra testa. Diventando spesso mostruosa.
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