Il 22 marzo in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW arriva la seconda stagione di Call my agent, la serie diretta da Luca Ribuoli tratta dalla serie francese Dix pour cent disponibile su Netflix. In questa seconda stagione il pubblico riprenderà le fila da dove la serie si era interrotta l’anno scorso: la CMA è ancora sul mercato e le azioni di Claudio possono essere comprate da chiunque. Intanto gli agenti dell’agenzia sono alle prese con numerose nuove sfide: nuovi contratti da far firmare, nuovi capricci da star per alcuni assistiti e il Festival di Venezia che si fa sempre più vicino. Il tutto mentre ognuno dei personaggi cerca di tenere insieme anche i pezzi della propria esistenza, proprio quando tutto sembra dover colare a picco.
Con un parterre di guest star davvero d’altissimo livello, la seconda stagione di Call my agent – composta da sei episodi – si mostra superiore alla prima, soprattutto per quanto riguarda il coinvolgimento del pubblico che, avendo ormai imparato a conoscere i personaggi, può entrare ancora più in empatia con loro e con le loro vicissitudini. Inoltre questa seconda stagione funziona soprattutto perché riesce a ridere del cinema italiano, dei suoi limiti e dei suoi difetti, con un’ironia davvero irresistibile. Per questo, dunque, abbiamo stilato una piccola lista di insegnamenti che il nostro cinema dovrebbe imparare da questo gioiello del piccolo schermo.
Ridere di se stessi
Uno dei punti di forza di Call my agent è, senza dubbio, la presenza di forti guest star che fanno parte del panorama del cinema italiano e hanno accettato di partecipare nel ruolo di se stessi come “clienti” dell’agenzia romana. Questo fa sì che gli attori possano giocare molto su se stessi, la propria immagine e la percezione che i non addetti ai lavori hanno di loro. Senza voler entrare nello specifico con il rischio di fare spoiler, in questa seconda stagione ci troviamo davanti a Claudio Santamaria che è disposto a tutto (giustamente?) pur di ottenere un ruolo per Nolan o Gabriele Muccino che non si preoccupa di portare sul piccolo schermo tutte quelle fissazioni personali o quei difetti che il pubblico gli ha sempre attaccato addosso: le manie di grandezza per aver girato a Hollywood o i toni a volte bellicosi che ha sui social media.
Il tutto è realizzato con un chiaro intento parodistico che porta lo spettatore a ridere, a sorridere perché forse quello che vede è finzione ma in parte è anche realtà e va bene così. E questa è forse la lezione più importante che il cinema italiano dovrebbe imparare: ridere di se stessi. Nell’immaginario collettivo, infatti, l’industria cinematografica del nostro Paese sembra essere tenuta in pugno da un nugolo di intellettuali che vivono il cinema solo come forma altissima d’arte, che deve essere chiusa in messaggi ermetici. Non sempre questo corrisponde a verità, ma l’idea comune è proprio quella di un cinema chiuso in se stesso. Call my agent, invece, ci ricorda l’importanza e la bellezza di non prendersi troppo sul serio, di ridere delle nostre stesse idiosincrasie. Di essere più liberi, senza il peso di dover sempre portare in sala il grande capolavoro.
Puntare sull’internazionalità
Durante la scorsa Mostra del Cinema d’Arte Cinematografica di Venezia – in cui, tra l’altro, Call my agent ha girato alcune scene – ha fatto scalpore la “polemica” perpetrata da Pierfrancesco Favino dopo la presentazione di Ferrari, il film di Michael Mann con protagonista Adam Driver. In quell’occasione, Favino lamentava una certa tendenza americana a realizzare film su personaggi italiani senza però chiamare attori italiani. Senza entrare nel merito di questa situazione specifica, però, è vero che c’è una tendenza del cinema italiana a parlarsi spesso addosso, senza guardare fuori, senza guardare al di là dei nostri confini. In Call my agent, invece, gli artisti spingono per ottenere ruoli fuori dal Paese: che sia Claudio Santamaria che fa di tutto per quello che considera essere il ruolo della vita o Sabrina Impacciatore che ormai è bilingue e vive tra New York, Los Angeles e l’Italia. Un invito, dunque, a non avere paura a fare il salto nel vuoto, a mettersi in gioco, rendendosi appetibili anche per il mercato internazionale.
Il marketing e le “supercazzole”
Il cinema è una creatura vive, che respira e si muove secondo leggi che non sempre sono comprensibili a priori. A volte un film che si credeva un capolavoro finisce col diventare un fiasco. Altre, un film che si credeva destinato all’oblio diventa un caso di mercato. Sin dalla prima stagione, Call my agent, ha messo i suoi agenti davanti al poster dell’occasione persa, Perfetti sconosciuti, dimostrando come a volte l’esperienza non basti a riconoscere un capolavoro e si può rischiare di farsi sfuggire via dalle mani un vero e proprio film evento. Allo stesso modo, però, può capitare – e questo gli intellettuali del nostro cinema sono alquanto restii ad ammetterlo – che basti leggere un grande nome sul frontespizio di una sceneggiatura per dare per scontato che quel film sarà un successo. quando magari non andrà affatto così.
Elementi, questi, che in Call my agent trovano due esempi specifici, sui quali non ci attardiamo per non rovinare la visione di questa seconda stagione che va gustata sapendo il meno possibile. Il punto, però, è che la serie tv di Sky ci invita proprio a questo: a non farci “fregare” dai grandi autori, dai nomi altisonanti, ma a lasciarci guidare dalla storia, da come viene raccontata e dall’impatto che ha su di noi. E, soprattutto, uno degli insegnamenti più banali ma anche più importanti che dà la serie è il fatto che senza una buona sceneggiatura non si va da nessuna parte, a prescindere dalla campagna di marketing, dall’hype generato o dai nomi che appaiono nel cast.
Capitolo bonus: il ritmo
Se fino ad ora abbiamo elencato le “lezioni astratte” che il cinema italiano potrebbe prendere da questo prodotto metalinguistico e metanarrativo, Call my agent ha anche qualcosa di “tecnico” da ricordare al cinema in generale. In un’epoca in cui il montaggio interviene sempre con meno frequenza, quasi si avesse paura di fare editing, e i film hanno una durata media sempre più lunga, sarebbe utile guardare a un prodotto come la seconda stagione di Call my agent e vedere come tutto sia a disposizione della costruzione del ritmo. La macchina da presa non si guarda mai addosso, non c’è nessuna personalità registica che si mette in mezzo chiedendo attenzione o riconoscimento. Call my agent racconta una storia e lo fa in modo che sia accattivante per il pubblico, senza mezzi termini in mezzo. Ecco, forse la lezione più importante che ci dà questa seconda stagione è ricordare che ogni forma di intrattenimento non esisterebbe senza pubblico e che è il pubblico a dover essere il destinatario principale di un’opera. Sempre.
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