La recensione di Outer Range (per l’esattezza dei primi quattro episodi, su otto complessivi) non può non tenere conto di quella che, da qualche anno a questa parte, è la volontà di reinventarsi da parte delle piattaforme streaming. Per circa cinque anni, da quando Netflix è arrivato in massa sul piano europeo, la norma è stata quella del bingewatching, con la stagione intera in un’unica botta (al massimo divisa in due blocchi con qualche mese di intervallo, come accaduto in alcuni casi). Poi sono arrivati Disney+ e Apple TV+, che privilegiano il modello classico settimanale. Una tattica utile per mantenere le serie in vita a livello di conversazione, di puntata in puntata.
Da un po’ anche Amazon Prime Video ci si è messo, non senza polemiche (non sono mancate le lamentele da parte dei fan di The Boys quando la seconda stagione, su richiesta dello showrunner, ha seguito lo schema distributivo tradizionale). Di questo costante bisogno di reinventarsi fa parte anche Outer Range, che fa sua una strategia ibrida: formula settimanale, ma con due episodi alla volta. Il giusto per mantenere l’attenzione del pubblico, senza rinunciare in toto alla molteplicità che ha agevolato l’avvento delle piattaforme.
Un ranch ai confini della realtà
Al centro di Outer Range c’è Royal Abbott (Josh Brolin), rancher che vive nel Wyoming con la moglie Cecilia (Lili Taylor), i due figli Rhett e Perry (Lewis Pullman e Tom Pelphrey) e la nipotina Amy. Il ranch è della famiglia di Cecilia da sempre, ma ciò non impedisce ai Tillerson, capitanati dal patriarca Wayne (Will Patton) di cercare di impossessarsene, con ogni mezzo necessario. E come se non bastasse, gli Abbott hanno altri problemi: la polizia è pronta a sospendere le indagini sulla misteriosa sparizione di Rebecca, moglie di Perry, e nei pressi della proprietà fa capolino tale Autumn (Imogen Poots), una vagabonda in qualche modo legata alla famiglia. E poi c’è quel misterioso buco che Royal scopre una notte, un buco che sembra legare il nostro mondo a qualcosa di strano e inspiegabile che non fa parte della realtà che conosciamo.
Chi va piano va sano e va lontano
Alla luce dei primi quattro episodi, e senza aver visto i quattro rimanenti, viene spontaneo dire che anche Amazon, come Netflix e a volte anche Disney+, cede agli impulsi “algoritmici” nelle scelte di programmazione: Outer Range è infatti un titolo perfettamente preconfezionato, con la commistione di generi e l’appiglio ulteriore di un protagonista che si dà (nuovamente) al piccolo schermo dopo anni di onorata carriera cinematografica (e la scelta di Josh Brolin va anche di pari passo con l’elemento fantascientifico, forse nel tentativo di attirare gli spettatori giovani che lo conoscono solo come Thanos e Cable). Una sorta di Cowboys & Aliens (fatte le dovute distinzioni a livello di trama) più serioso e ambientato nel presente, dove tutto è costruito in base al meccanismo del cliffhanger, con sporadiche immagini forti che svelano gradualmente i pezzi del puzzle. Questo soprattutto nei due capitoli introduttivi, che vantano in cabina di regia il talentuoso cineasta messicano Alonso Ruizpalacios, già alla corte di Netflix per Narcos: Mexico.
È un gioco al mistero, elementare ma efficace, che si regge soprattutto sulle suggestive location (come nell’altra, ben più riuscita saga famigliare su sfondo western che è Yellowstone) e sulla performance stoica di Brolin, il cui charme granitico è perfetto come principale punto di riferimento umano. E con la suspense che aumenta gradualmente, due episodi alla volta, l’incentivo per rimanere sintonizzati fino alla fine c’è, soprattutto in quello che è un po’ un periodo di magra per Prime Video, quasi una fase di transizione fra due pezzi da novanta (prima la quarta stagione di Mrs. Maisel, e prossimamente la terza di The Boys). Sostanzialmente, la serie colma un vuoto, sperando solo che quel vuoto non abbia gli stessi effetti di quello che fa parte della trama dello show.
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Conclusioni
Come abbiamo spiegato nella nostra recensione, Outer Range diverte il giusto ma non riesce mai a staccarsi del tutto di dosso l'impressione che tutto sia stato organizzato con criteri da algoritmo anziché in base a veri istinti creativi.
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Voto ScreenWorld