Dopo tanta attesa, nei giorni scorsi su Netflix è finalmente uscita 1899, la nuova serie tv creata da Baran bo Odar e Jantje Friese, reduci dal successo internazionale di Dark.
Il telefilm ha riscosso un verdetto positivo dalla maggioranza della critica, e anche il parere del pubblico sembra per ora premiare il nuovo “rompicapo a puntate” congegnato dal duo di autori tedeschi.
Qualcosa, però, è cambiato rispetto all’epoca di Dark: la nuova serie ad oggi non ha riscosso il medesimo entusiasmo che aveva accompagnato il suo predecessore, e sta ancora muovendo i suoi primi, timidi passi alla ricerca di una platea di riferimento.
Nessun fenomeno virale, nessuna ossessione collettiva, nessuna folla di appassionati intenti a vivisezionare fotogramma per fotogramma alla ricerca di indizi.
È vero, siamo ancora agli inizi, e con ogni probabilità è soltanto questione di tempo.
Resta il fatto che, almeno nei primi giorni, la risposta del pubblico non è stata così calorosa come quella che, in passato, aveva accompagnato altre serie tv circondate dal medesimo alone di enigma, complessità e mistero.
Per alcune testate cinematografiche, sono 1899 e l’equipaggio della nave Kerberos a non possedere la stessa “scintilla di magia” che aveva animato Dark e gli oscuri misteri della città di Winden.
In realtà, come si è detto nella nostra recensione di 1899, la nuova serie Netflix è un ottimo prodotto, che riesce ad affascinare, suggestionare e inquietare lo spettatore nel migliore dei modi.
Ma allora, cos’è cambiato? Forse la risposta non si nasconde tra le pieghe della serie tv, bensì al di qua dello schermo, nell’immaginario collettivo di chi la guarda.
E se fossimo proprio noi spettatori a non avere più voglia di serie tv complicate? Per rispondere, proviamo a ripercorrere la storia del filone.
Le origini, da Twin Peaks all’isola di Lost
Tutto ha avuto inizio alle undici e mezza del 24 febbraio 1989.
Era quello il momento, immortalato da una celebre telefonata alla fidata Diane, in cui l’agente speciale Dale Cooper faceva il suo ingresso nella tranquilla cittadina americana di Twin Peaks, nel tentativo di scoprire chi fosse stato a uccidere la giovane Laura Palmer.
Al di qua dello schermo, correva l’anno 1990: la geniale serie tv nata dal genio di David Lynch e Mark Frost faceva il suo approdo su ABC, e conquistava platee di spettatori con i suoi enigmi soprannaturali e i suoi misteri sempre più fitti.
Con il passare degli episodi, il giallo investigativo aveva finito per lasciare il posto a un racconto intricato, complesso e difficile da decifrare, e proprio questa natura aveva finito per sancire il successo del telefilm, che divenne un autentico tormentone su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Un successo inaspettato e mal compreso dagli stessi executive dell’emittente, che si scontrarono a più riprese con la direzione creativa di Lynch, fino alla drastica cancellazione della serie.
Nel 2004, sempre sull’emittente americana ABC, fu Lost a far riemergere dall’oblio il fascino per gli “enigmi a puntate”.
Il clamoroso successo della serie creata da J. J. Abrams, David Lindelof e Jeffrey Lieber, che raccontava le avventure dei superstiti del disastro aereo dell’Oceanic 815 su un’isola del Pacifico, sancì un autentico punto di svolta nella storia del piccolo schermo, e segnò l’inizio di una nuova era della serialità.
L’impatto fu epocale, e aprì la prima breccia nella barriera che aveva sempre separato la tv dalla sala cinematografica.
A tutti gli effetti, Lost divenne un fenomeno virale prima ancora del diffondersi dei social network: proliferarono le teorie, le ipotesi e le discussioni, e gli appassionati divennero milioni.
Il vantaggio dei pionieri
Se si osserva con obiettività, Twin Peaks (1990-1991) e Lost (2004-2010) sono prodotti seriali tutt’altro che perfetti.
La seconda, ipertrofica stagione di Twin Peaks smarrisce ben presto la bussola del racconto in un turbine di dinamiche da soap opera, per poi recuperare smalto solo in prossimità del memorabile finale, nelle oscure profondità della Loggia Nera.
Parimenti, anche le ultime stagioni di Lost risentono della mancanza di una solida pianificazione narrativa, e si precipitano a rispondere alla maggior parte delle domande rimaste in sospeso a ridosso del finale con escamotage decisamente poco ispirati.
Twin Peaks e Lost, tuttavia, con i loro “labirinti imperfetti” sono riuscite a conquistarsi un posto d’onore nell’Olimpo delle serie tv, e hanno gettato le fondamenta di un nuovo genere, che fa dell’enigmaticità e della complessità il proprio tratto distintivo.
Non si tratta del semplice tema del mistero, già presente anche in altri grandi classici televisivi (si pensi a X-Files), bensì dell’ambiziosa costruzione di veri e propri grovigli di indizi, enigmi e domande irrisolte.
Fino a quel momento, la serialità viveva perlopiù di racconti estemporanei, spesso concepiti per una fruizione distratta e occasionale, che non richiedeva allo spettatore di immergersi nel racconto con lo stesso livello di attenzione di un film.
Al momento del loro debutto, le due serie furono così le prime a intercettare l’esigenza di una sfida cerebrale, capace di mantenere gli spettatori incollati allo schermo, puntata dopo puntata e stagione dopo stagione.
Con Twin Peaks e Lost, l’effetto-novità vinse su tutto, anche sulla mancanza di una meticolosa pianificazione dell’enigma e dell’architettura del racconto, e fu grazie a questa innovazione che i due telefilm riuscirono a beneficiare del cosiddetto “vantaggio del first mover”.
Trovandosi nella condizione dei pionieri, i loro autori riuscirono a lasciare un solco indelebile nelle menti e nei cuori degli appassionati.
Il boom del 2016-2017: labirinti, enigmi e misteri
Dopo l’avvento dello streaming, e la nascita di nuove modalità di fruizione rispetto alla tv ordinaria, è soprattutto il biennio 2016-2017 a rappresentare l’età dell’oro delle “serie-rompicapo”.
A ottobre 2016, su HBO debutta la prima stagione di Westworld, con la sua cupa odissea nella coscienza dei robot, articolata su linee temporali intersecate, labirinti – nel senso letterale del termine! – indizi, enigmi e rivelazioni.
La serie trasforma Il mondo dei robot (1973) di Michael Crichton in un’esperienza di incredibile complessità, che utilizza la psicanalisi e le teorie di Julian Jaynes sulla mente bicamerale per dare vita a un nuovo, suggestivo concetto di intelligenza artificiale.
A dicembre Netflix risponde con The OA, serie intrisa di spiritualità ed esoterismo che racconta le avventure di Prairie, una giovane donna cieca che riemerge dall’oblio, dopo sette anni di sparizione, con la vista completamente risanata.
Anche qui, tra mondi paralleli, entità metafisiche e rituali sciamanici, la complessità e le congetture sono all’ordine del giorno.
A febbraio 2017, l’ossessione per le serie rompicapo contagia anche il mondo dei cinecomic: su FX debutta Legion di Noah Hawley, che propone una rilettura intricata, allucinata e visionaria delle avventure del mutante David Haller nel mondo dell’incoscio, attingendo a piene mani ai capolavori cinematografici di David Lynch.
I tempi sono maturi: dopo un’attesa estenuante, a maggio 2017, a oltre 25 anni dal cliffhanger che aveva concluso la seconda stagione, è lo stesso Lynch a fare ritorno sul piccolo schermo con Twin Peaks – The Return, che si rivela nettamente superiore alla serie originale, anche grazie alle maggiori libertà creative concesse dall’emittente Showtime.
Sulla cresta dell’onda, a ottobre 2017, arriva anche Dark, con i misteri della cittadina di Winden e le intricatissime evoluzioni di un loop temporale senza inizio e senza fine.
Il plebiscito di consensi è assicurato.
Qualcosa si è spezzato?
Nel mondo contemporaneo i cambiamenti improvvisi sono all’ordine del giorno, e il mondo della serialità non fa certo eccezione.
Dopo l’euforia di cinque anni fa, la marea è bruscamente mutata, e il caso 1899 è soltanto l’ultima di una lunga lista di avvisaglie.
Già le sorti di alcune delle grandi serie-rompicapo menzionate poco fa sembravano farlo presagire: nel 2019 The OA, malgrado l’entusiasmo un vivace zoccolo duro di appassionati, non è riuscita a replicare il successo della prima stagione, ed è andata incontro alla cancellazione anticipata.
L’anno successivo Westworld ha abbandonato il filone e ha proposto un terzo ciclo di episodi lineare, privo di enigmi e intrecci complicati, svoltando repentinamente verso la fantascienza tradizionale.
La magia iniziale era ormai svanita, e anche il parziale ritorno alle origini rappresentato dalla quarta stagione non ha restituito smalto alla serie, che è stata mestamente cancellata poche settimane fa.
Sempre in casa HBO, la scure si è abbattuta anche sulla maestosa Raised by Wolves – Una Nuova Umanità di Ridley Scott e Aaron Guzikowski, che faceva incontrare i grandi temi sci-fi con il mito e la storia delle religioni, in una foresta di simboli, allusioni e misteri.
Un prodotto decisamente suggestivo, curato e promettente, che tuttavia non è mai riuscito a entrare in sintonia con il grande pubblico e affermarsi su scala mondiale.
La battuta d’arresto si è fatta sentire anche al cinema, e non ha risparmiato neppure un regista del calibro di Christopher Nolan: nel 2020 il cervellotico Tenet, con i suoi viaggi a ritroso nel tempo e la sua architettura iper-articolata, ha ricevuto un’accoglienza molto tiepida da critica e pubblico, e l’autore ha dovuto rapidamente svoltare su un nuovo lungometraggio ben più convenzionale, l’imminente Oppenheimer (2023).
È impossibile negarlo: l’idillio tra il pubblico e i prodotti complessi si è davvero incrinato.
Il grande ritorno della narrazione lineare
I segnali sono chiari: da Bridgerton a The Boys, da Squid Game a House of the Dragon, senza dimenticare Cobra Kai e Yellowstone, tutti i nuovi fenomeni televisivi sembrano privilegiare una narrazione asciutta, lineare e priva di allusioni enigmatiche e domande irrisolte.
Anche il franchise di Star Trek, con l’ottimo Strange New Worlds, ha svoltato verso strutture più semplici e tradizionali, abbandonando i complessi esperimenti narrativi visti nelle prime due stagioni di Discovery.
Allo stesso modo, pure nel campo dei telefilm fumettistici prodotti come Legion di FX e il più recente WandaVision su Disney+ hanno ceduto il passo a serie maggiormente convenzionali, quali Hawkeye, Moon Knight, Ms. Marvel e She Hulk.
La tendenza è generalizzata e, salvo alcune eccezioni, stiamo assistendo a un netto cambio di paradigma per tutti i prodotti commerciali di successo.
Tutto può ancora cambiare, ma, allo stato attuale, 1899 approda in uno scenario molto diverso rispetto a quello che aveva accompagnato il trionfo di Dark, e si trova costretta a doversi ricostruire da zero una platea di riferimento.
Casi fortuiti o tendenza generale?
Rieccoci così alla domanda iniziale: che cosa è cambiato? E soprattutto, perché? Trattandosi di un fenomeno in continua evoluzione, è difficile rispondere in maniera univoca.
A pesare, ovviamente, sono anche alcuni fattori estemporanei, legati alla produzione delle singole serie tv e alla linea politica delle piattaforme di riferimento.
È difficile negare, ad esempio, che sulle sorti di Raised by Wolves e Westworld abbia pesato più di ogni altra cosa la recente rivoluzione societaria ai vertici di Warner Bros, così come Tenet è stato ampiamente influenzato dalla stagione pandemica.
Il fenomeno, però, è troppo diffuso e generalizzato per essere derubricato a una somma di singole circostanze e casi fortuiti.
Non si può aggirare il problema: le serie tv complicate stanno perdendo mordente nei confronti del pubblico di riferimento, e anche le (discutibilissime) scelte messe in atto dal management Warner-Discovery sono soltanto la conseguenza di una tendenza che, prima di tutto, è figlia del cambiamento dei gusti del pubblico.
La trappola del cannibalismo
Ma allora, come nasce quest’improvviso cambiamento? Una delle cause risiede indubbiamente nel mutato scenario socio-culturale di riferimento.
La continua pioggia di brutte notizie, iniziata con la pandemia, e proseguita con la crisi economica, la guerra alle porte dell’Europa e mille altre incertezze politiche, ha risvegliato negli spettatori il bisogno di pura evasione, e la necessità di storie leggere e meno impegnative.
In quest’ottica, non è casuale l’attuale ritorno in auge del genere fantasy che, con The Sandman, House of the Dragon e The Rings of Power, ha conosciuto una nuova fioritura televisiva.
Un altro fattore chiave è stata la proliferazione dell’offerta televisiva: con la rapida moltiplicazione delle piattaforme streaming e la “corsa al piccolo schermo” delle case di produzione, il numero dei titoli si è impennato vertiginosamente.
In uno scenario del genere, anche il numero medio dei prodotti consumati dal singolo spettatore si è innalzato: di conseguenza, a calare è stata la “qualità della visione”, con un forte indebolimento del grado di coinvolgimento, fedeltà e attenzione ai dettagli.
Se tra una stagione e l’altra di Lost gli spettatori si precipitavano sui forum a dissezionarne i misteri, ora trovano invece rifugio in un altro telefilm, e poi in un altro ancora: viene così minata alla base quella “suggestione ossessiva” che è alla base di ogni rompicapo a puntate che si rispetti.
Ma, soprattutto, sono state le stesse “serie tv complicate” a cannibalizzarsi a vicenda.
All’uscita di Twin Peaks e Lost, i due titoli brillavano per unicità, e per quanto lo spettatore si affannasse a cercare una serie analoga, capace di placare la sua sete di sfide cerebrali, l’indagine era destinata a rivelarsi infruttuosa.
Dal 2016, invece, le alternative hanno iniziato ad abbondare, e ciò ha frammentato l’attenzione dello spettatore su più fronti, fino alla sazietà e all’inevitabile stanchezza…
E la qualità?
La momentanea scomparsa dalle scene dei “telefilm complicati”, in definitiva, è anche e soprattutto un’involontaria conseguenza della “fruizione bulimica” del grande pubblico.
Ciò significa che anche la qualità delle serie tv si è abbassata? La risposta è inevitabilmente molto soggettiva, ma è senz’altro legittimo osservare come la complessità di un racconto non sia per forza sinonimo di qualità, né tantomeno di autorialità.
Malgrado un diffuso pregiudizio, non occorre essere “complicati” per fregiarsi del titolo di “autore”.
Il vero auctor, secondo l’etimologia stessa del termine, è colui che “aumenta” e “fa crescere” interiormente il proprio pubblico, e non è per forza un raffinato demiurgo che si dedica alla costruzione di labirinti, enigmi, e colpi di scena sempre più elaborati.
Capolavori di linearità quali le serie di Vince Gilligan, padre di Breaking Bad e Better Call Saul, dimostrano in maniera piuttosto inequivocabile, e senza bisogno di ulteriori argomentazioni, come la tv di qualità non abbia bisogno di ricercare la complessità ad ogni costo.
Certo, la temporanea scomparsa delle serie rompicapo lascia un vuoto doloroso nel cuore degli appassionati, che dovrà prima o poi essere riempito dall’arrivo di qualche novità, ma spiana anche il campo a una nuova generazione di prodotti realmente innovativi, quale potrebbe essere – come no – proprio la serie 1899.
Lo scopriremo nelle prossime stagioni. Nel frattempo, possiamo sempre esplorare un altro tipo di serialità e riscoprire i piaceri della narrazione lineare, che è stata capace di regalarci, fin dai tempi di Omero, alcuni tra i più grandi capolavori della storia.
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