Sono passati quasi cinquant’anni dal primo film del franchise di The Omen – Il presagio. Era il 1976 e Richard Donner aveva diretto il capostipite di una saga che con i suoi successivi sequel non avrebbe riscosso il successo sperato. Per non parlare del suo remake del 2006, una pellicola di per sé scialba, che riprende shot-for-shot l’opera originale. Dopo quest’operazione ritorna al cinema The Omen, con la regia di Arkasha Stevenson, al suo esordio alla regia, nello specifico all’interno di un franchise, trattandosi di un prequel in cui si va scavare le basi che hanno dato vita alla nascita dell’anticristo Damien nel 1976. Con la recensione di The Omen – L’origine del presagio esploriamo un’opera che, nonostante le convenzionalità dell’horror contemporaneo, è riuscito a elevarsi rispetto ai suoi predecessori.
Genere: Horror
Durata: 120 minuti
Uscita: 4 aprile 2024 (Cinema)
Cast: Nell Tiger Free, Sônia Braga, Maria Caballero, Ralph Ineson, Tawfeek Barhom
Una Roma tra luci ed ombre
Come già il titolo avverte, si parla dell’origine del celebre presagio, dell’anticristo che abbiamo già conosciuto dal 1976 in poi. Ma com’è nato quel bambino? Chi è la madre trovata dall’ambasciatore americano durante gli eventi del primo film? Quello che mette in mostra The Omen – Il primo presagio è questo. Trattasi di un prequel che indaga le origini, dunque a dove è partito il tutto: Roma, 1971. È un periodo difficile per la Chiesa cattolica e la politica italiana: la prima perde le sue pecorelle smarrite, non riesce nel suo essere buon pastore, incapace di gestire il potere millenario che l’ha caratterizzata da anni, mentre dall’altra parte le rivolte operaie mettono tumulto in città, seppur durante la visione ne abbiamo solo un assaggio.
In questo contesto viene inserita Margaret, una giovane novizia che, una volta giunta dagli Stati Uniti tramite l’invito del cardinale Lawrence, si troverà in servizio in un orfanotrofio in attesa di diventare suora. Farà conoscenza di un microcosmo rigido che non ammette scrupoli di fronte alle persone considerate “cattive” dalla badessa e le sue consorelle. Farà conoscenza di Carlitas, la quale ha un trattamento diverso rispetto alle altre bambine. Una serie di situazioni inquietanti e l’incontro con un prete scomunicato la porteranno a dubitare della sua stessa fede e non fidarsi delle suore a capo della struttura.
Un prequel solido
Appurato che alla base del lungometraggio ci siano una serie di situazioni che nel vasto mondo del genere horror è materiale già visto ed abusato, l’esordio di Arkasha Stevenson è alquanto sorprendente. Le premesse non erano delle migliori, poiché coloro che conosco le vicende della pellicola originale capiscono già dove l’opera voglia andare a parare. Per non parlare poi di come a livello cinematografico la moda dei remake, prequel, sequel e spin-off abbia presentato prodotti alquanto scadenti. Ma Stevenson riesce a prendere sulle spalle una sceneggiatura quasi prevedibile per confezionare una pellicola diretta con cura, dove la presenza di quei pochi jumpscares è gestita maniera intelligente, puntando soprattutto sull’atmosfera e gli elementi a suo favore, tra le architetture romane, i dipinti murari e gli stessi corpi dei personaggi, chiusi in abiti, ma aperti nel segno del sangue.
Un mondo religioso che si macchia e sorprende lo spettatore con sequenze angoscianti che toccano il body horror, mostrando più che narrando. Non c’è spazio per il didascalismo, perché l’opera di Arkasha Stevenson tende a prediligere un ritmo che si prende i suoi tempi e con una storia dozzinale si permette di staccarsi dalla banale paura con una cupa messa in scena e l’utilizzo della fotografia che omaggia Dario Argento in più sequenze. Inoltre, si cita, in modo anche più cruento, un’iconica scena del primo film (e anche del remake, in questo caso), con il pregio, dunque, di sapersi un attimo reinventare e gettare un’ombra di più violenta in una saga che fatto della dipartita dei suoi personaggi un marchio di fabbrica.
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La recensione in breve
Nonostante la sceneggiatura prevedibile e dozzinale, Arkasha Stevenson riesce a dirigere una pellicola cupa, violenta e angosciante, grazie a sequenze ben gestite in maniera intelligente. Una piccola perla nel panorama horror dell'ultimo periodo.
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Voto Screenworld