Si sente un latrato nella notte, simile a un pianto umano. Succede quando la tua unica compagnia è quella degli animali, quando il confine tra uomo e cane si fa sempre più sottile, quando il senso stesso dell’esistenza si riassume in poche parole, definite in anni di vita sempre uguale e inamovibili: essere un randagio.
Questo è Douglas, un uomo sulla sedia a rotelle, arrestato dalla polizia locale. Nel posto dove abita, un diroccato e fatiscente palazzo, i cadaveri di alcuni uomini. Lui, truccato e vestito come Marilyn Monroe, fuma una sigaretta. È sconvolto e ferito. Verrà portato in una cella, dove ad attenderlo c’è la psichiatra d’ufficio, pronta ad ascoltare la sua storia.
Ed è questo racconto il fulcro del nuovo film di Luc Besson, presentato in concorso al Festival di Venezia 2023, di cui vi parleremo nella nostra recensione di Dogman, un film che gioca con i generi, sfuggendo a una singola definizione, e si concentra sulla sentita performance di un magnetico Caleb Landry Jones. Perché la storia di Douglas è una storia che proviene dal dolore interiore, che si svela in uno sguardo da cane ferito. Un animale che avrebbe solo bisogno di un po’ di affetto, alla stregua di un cucciolo.
Genere: Drammatico
Durata: 114 minuti
Uscita: 31 agosto 2023 (Festival di Venezia), 28 settembre 2023 (Cinema)
Cast: Caleb Landry Jones, Jojo T. Gibbs, Christopher Denham
Cani e padroni di cani
La trama di Dogman è un lungo racconto che ripercorre le vicende del povero Douglas (Caleb Landry Jones), narrate in prima persona, evidenziato alcuni degli episodi chiave della sua vita. Inizia da una giovinezza passata in una famiglia problematica, abusato dal fratello maggiore e dal padre perché più interessato agli animali che a loro, abbandonato dalla madre. Rinchiuso a lungo (forse anni) nella gabbia dei cani in cortile, con poco cibo a disposizione, il giovane comincerà a instaurare un forte legame con gli animali. Una volta riuscito a sfuggire dalla prigionia per Douglas, in compagnia dei suoi fidati randagi, si aprirà un mondo libero, forse però non adatto ad accoglierlo. D’altronde quale potrebbe essere il posto di una persona che non ha mai avuto l’affetto di nessuno, che non sa relazionarsi, che non può stare in piedi?
Douglas è più padre che padrone dei cani (“Sono i miei bambini“), ma è al tempo stesso uno di loro. Un uomo che vive secondo regole più pure e senza sfumature. Le stesse che hanno i cani. Con loro ne condivide l’animo istintivo, quel senso – anche distorto – dell’affetto possessivo, pur quando non ricambiato. La sua è una vita breve, ma intensa, alla ricerca di una propria identità che va via via costruendosi.
Un attore di razza
Identità fortissima quella di Caleb Landry Jones, attore che si porta sulle spalle l’intero peso del film. Jones riesce a caratterizzare Douglas in maniera tutt’altro che superficiale, riuscendo nel difficile equilibrio di mostrarsi fragile e duro, perverso e gentile. Per tutte le due ore di durata del film, come spettatori potremmo avere tutte le ragioni per odiare il protagonista, ma questo sentimento non ci colpisce mai. E se risulta veramente difficile poter tifare per lui (anche se in certe occasioni l’empatia si fa più forte), non manca mai quella sensazione di comprensione della persona, essenziale per la riuscita del film.
Ma è soprattutto nel modo in cui parla, specie con gli occhi, che Jones primeggia. Capace di cambiare il tono del film nel giro di un’inquadratura, in un sorriso malizioso, nel modo in cui osserva ciò che sta intorno a lui, lasciando trasparire rabbia, rassegnazione e rancore, il suo Douglas è uno dei personaggi più forti visti finora al Festival di Venezia 2023. Tanto che, nonostante un finale in cui si tenta un’emozione maggiore, troppo ricercata per poter colpire con forte sincerità, adombra tutto il resto del cast, davvero troppo anonimo. Ad eccezione dei numerosi cani che riempiono la storia, capaci di colorare non solo l’esistenza del protagonista, ma parecchie scene del film. Anche in questo caso il rapporto tra l’uomo e l’animale regala una particolare alchimia che eleva il film.
Incrocio di generi
Che poi, paradossalmente, è il vero grande problema del film di Luc Besson. Concentrandosi troppo su Douglas, il film perde di vista la propria identità. A cavallo tra commedia, thriller e dramma, Dogman sembra mutare come il suo protagonista, ma senza dare il giusto peso a questi cambiamenti. Il risultato è un film che incrocia i generi senza fare in modo di definirsi davvero, con episodi della vita di Douglas che si aprono e si chiudono senza soluzione di continuità, come parentesi che mutano il tono (si passa da una storia romantica all’heist movie, dal musical nel mondo degli spettacoli di drag queen al puro action in stile Besson) senza che queste possano evidenziare le emozioni della storia.
Il risultato è un film che abbaia, ma non morde, dove il problema, oltre che la somiglianza in molti aspetti con il film Joker è l’uso di immaginari troppo stereotipati e ormai fuori tempo massimo, a volte davvero stranianti e che donano uno spiacevole senso di déjà-vu. E se Dogman, in qualche modo, intrattiene quel tanto che basta per far passare un paio d’ore scomposte, ma con all’interno alcuni momenti davvero buoni, non possiamo domandarci, in questa occasione, se la selezione all’interno del Concorso di Venezia80 non sia stato un gesto sin troppo generoso.
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La recensione in breve
Dogman è un film che sa intrattenere, ma ricerca emozioni troppo forti rispetto a quello che ha da offrire, a causa anche di un eccessivo effetto di déjà-vu. Ottima l'interpretazione di Caleb Landry Jones, capace di reggere da solo tutto il film.
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Voto ScreenWorld