I film di Natale sono un mondo a parte e rispondono a regole proprie. Gli stilemi del genere, i dettami del linguaggio cinematografico e persino le nostre aspettative sono elementi che decadono o, meglio, si trasformano, quando abbiamo a che fare con i film di Natale. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di lungometraggi che non hanno chissà quale velleità o ambizione artistica, storie di cui indoviniamo lo sviluppo e il finale in una manciata di secondi.
Pellicole che, in altri momenti o in altri contesti, forse disprezzeremmo e che invece diventano quasi una necessità quando, per parafrasare il film d’animazione Anastasia, arriva dicembre. Ma perché c’è questa sorta di eccezionalità nei film di Natale? Perché continuiamo a guardare film che si somigliano e che, spesso, annegano in una dolcezza eccessiva e nauseante? Perché abbiamo bisogno di questi cliché così scontati, di immergerci in storie che conosciamo già a memoria?
Il rifugio della familiarità
Dicembre è un mese complicato. Arriva alla fine di un anno spesso fatto di problemi, ansie, villain di uffici burocratici da sconfiggere e noie che si insinuano come serpenti nella vita di tutti i giorni. Le piccole insidie quotidiane si affollano sulle nostre spalle e ci fanno arrivare alla fine dell’anno con un tale stato di spossatezza fisico e mentale che a volte l’unica cosa che vogliamo è spegnere il cervello, alienarci dalla nostra realtà e trovare qualcosa che ci distragga. I cliché dei film di Natale rappresentano proprio questo: una distrazione che non richiede nessuna call-to-action.
Ci sediamo sul divano e lasciamo che sia la familiarità di certe situazioni a cullarci, come una dolce ninna-nanna che anestetizza tutto ciò che non è necessario a seguire, per esempio, un gruppo di londinesi alle prese con le settimane che precedono il Natale. Sappiamo che il ricco cittadino rimarrà nella cittadina per coronare il suo sogno di vero amore. Sappiamo che Babbo Natale salverà i giocattoli da una banda di malintenzionati. Sappiamo che George Bailey non si suiciderà e scoprirà che la vita sa essere davvero meravigliosa.
Se ci fermiamo a vedere film di cui conosciamo già la storia – nel caso dei tanti rewatch che caratterizzano il periodo natalizio – o di cui possiamo indovinare lo svolgimento, mettiamo noi stessi nella condizione di poterci rilassare, di allentare le briglie dell’ansia. Sappiamo già quello che sta per accadere, conosciamo le svolte narrative, non c’è nessuna brutta sorpresa che ci aspetta o che possa rovinarci una serata in cui l’unica cosa che volevamo era staccare la spina. Ecco cosa sono i cliché nei film natalizi: sono una panacea contro la vita adulta, sono una coperta in cui ci avvolgiamo come bozzoli per sentire calore e rassicurazioni.
Non sempre vogliamo essere dei Grinch
“È opinione generale che ormai viviamo in un mondo fatto di odio e avidità“: queste sono le parole con cui la voice over apre Love Actually. Una frase che ben rispecchia lo sviluppo della nostra società sempre più cinica e capitalista, in cui l’odio sui social è secondo solo all’indifferenza che dilaga un po’ ovunque. Che ne siamo consapevoli o meno, questo periodo storico è un contesto culturale in cui siamo portati sempre più a ritirarci, a non voler stare con le altre persone. Ci nascondiamo negli angoli delle nostre grandi metropoli e affermiamo di essere contenti nel passare il minor tempo possibile con i nostri simili.
Si tratta, forse, di una forma di difesa, una specie di armatura che indossiamo. Siamo diventati cinici non per cattiveria, ma per mera sopravvivenza e per salvaguardare la nostra salute mentale. Ma a volte abbiamo bisogno di far cadere questa maschera. A volte abbiamo bisogno di lasciarci alle spalle la quotidianità e di immergerci con tutto il corpo in un universo dove la magia è ancora possibile, dove può avvenire ancora l’impossibile. Ecco perché vediamo un film in cui un bambino riesce da solo ad arrestare dei ladri o perché crediamo che a due persone basti una settimana per innamorarsi. Vedere film di Natale è qualcosa che non serve ad arricchire la nostra conoscenza cinefila, né ad affinare il nostro spirito critico. Vediamo film di Natale per stare bene, per provare sensazioni che esulano dalla realtà e che sono sogni ad occhi aperti, favole di cui non ci stanchiamo mai.
A volte siamo così stanchi di recitare sempre la parte del Grinch che l’unica cosa che può salvarci è l’ennesimo film su un manager di città che trova il vero amore in un piccolo centro abitato ricoperto di neve. I cliché ci rassicurano, ci danno dei punti di riferimento, sono la nostra ancora nel mare tempestoso della vita. Basti pensare a quanto è facile, durante l’anno, cercare rassicurazione nel nostro show preferito. Facciamo rewatch non per spirito edonistico, ma perché è rassicurante tornare nei luoghi in cui siamo stati bene. E per i cliché dei film di Natale funziona più o meno nello stesso modo.
Il ritorno all’infanzia
Dicembre è un mese difficile non solo perché arriva alla fine dell’anno e porta con sé le ultime tribolazioni. Spesso è un mese difficile perché rende più evidenti le assenze, sottolinea i posti vuoti nelle nostre vite, mette in mostra quello che abbiamo perso, che sia per colpa nostra o per il mero capriccio del destino. Con le sue luci e le sue canzoni allegre, il Natale è un periodo profondamente malinconico e nostalgico. In un contesto come questo è facile tornare sui soliti cliché e i soliti film di Natale: attraverso questo tipo di fruizione cerchiamo di replicare i giorni dorati dell’infanzia, i ricordi di un tempo che pensiamo essere migliore del presente.
Riviviamo quei momenti in cui credevamo davvero senza sforzo alla magia, in cui le sedie ai nostri tavoli erano tutte occupate. Coi film di Natale torniamo ad essere bambini, torniamo ad essere quelle creature che non hanno preoccupazioni, che non hanno alcun pensiero se non quello di scaldarsi una cioccolata e aspettare che arrivi la mattina di Natale (o la notte della Vigilia) per aprire i nostri regali. E accettare i cliché di Natale è il nostro disperato ma affettuoso tentativo di far rivivere ciò che sappiamo non potrà più tornare.
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