Perfect Days è uno dei primi film dell’anno: è uscito nelle sale italiane il 4 gennaio, e da allora ha riscosso un successo inaspettato in termini di pubblico. Il ventiquattresimo lungometraggio di Wim Wenders ha creato intorno a sè una discussione che va oltre l’opera in sè e riguarda un nuovo modo non solo di raccontare le storie, ma di guardarle. Cerchiamo di individuare alcuni possibili motivi del successo di Perfect Days.
Un nuovo sguardo in costruzione
Perfect Days è, prima di ogni cosa, un esercizio di visione: un nuovo modo di rieducare lo sguardo attraverso la ricreazione di uno spazio antico che ritorna con la forza delle cose rimosse, di una dimensione cinematografica in cui possiamo tornare a dimenticarci di tutto il resto per essere assorbiti dal mondo raccontato tra il buio della sala e il fascio di luce del grande schermo. Il film inizia presentandoci il risveglio di Hirayama, il suo sistemare meticolosamente il letto, il suo annaffiare con cura le piantine per poi uscire di casa, prendere la sua lattina di caffè e salire sul furgone per andare a lavoro. Continuiamo a seguirlo nel suo percorso quotidiano, un rituale fatto di piccole scelte che hanno in sè il potere di plasmare qualcosa di più grande come un intero modo di concepire e vivere la vita, una filosofia, una traccia di esistenza.
Com’è ormai noto, Perfect Days non ha una vera e propria trama, come nella tradizione del racconto moderno: ma se da un lato eredita la prassi modernista del racconto che rifiuta la nozione stantia del principio, del proseguio, e del finale, così poco adatta a raccontare la confusione e la precarietà del contemporaneo, dall’altro incarna il fascino ancestrale e inafferrabile delle favole antiche, il tentativo di restituire i colori e i suoni di qualcosa che si crede perso, ma che si può ritrovare anche negli angoli iperindustrializzati della Tokyo degli anni Venti del Duemila. Lo sguardo di Perfect Days è un metodo, una bussola da utilizzare durante la visione, ma è anche un luogo dove immergersi e dove potersi muovere con libertà assoluta.
L’unica imposizione della macchina da presa corrisponde al delimitarci nell’esistenza di Hirayama: non abbiamo altre distrazioni, siamo confinati nelle giornate di questo signore taciturno che pulisce bagni pubblici e ha ottimi gusti in fatto di musica. Il nostro sguardo e il resto dei nostri sensi sono delimitati dalle sue cassette degli Animals e di Patti Smith, dall’obiettivo della sua macchina fotografica analogica Olympus puntata sulle fronde degli alberi, dalle ombre che giocano sulla riva del fiume sotto la luce dei lampioni. I sensi dello spettatore durante la visione di Perfect Days non sono di certo bombardati da una valanga di stimoli diversi sempre più difficili da processare e metabolizzare: quello che offre Wenders è uno spazio reiterato dove è possibile fermarsi, riguardare, abituarsi all’ambiente, agli oggetti, ai volti. Un cinema a misura di persona, che concede e incoraggia la ripetizione, l’abitudine, la distensione.
Oltre le piccole cose quotidiane
Qualcuno potrebbe vedere in Perfect Days un elogio nostalgico e un po’ sentimentale alla retorica delle piccole cose, una celebrazione anacronistica dei semplici piaceri della vita e dei gesti quotidiani, sufficienti per condurre una vita piena e appagante. Ma il film dell’autore di Paris, Texas e Il cielo sopra Berlino è più complesso di così e, nonostante la presenza di cimeli retro come l’analogica e le cassette musicali, è un film profondamente radicato nella contemporaneità. Cosa c’è di più contemporeaneo del desiderio di sfuggire alla freneticità della vita urbana e postindustriale? Cosa c’è di più attuale dell’interrogarsi su come ricostruire degli spazi in cui poter essere noi stessi? L’esperienza di Hirayama non è esente dalla sofferenza: c‘è anche dolore dietro questa quiete così attentamente costruita. Quando tra i suoi rituali si inserisce un’interferenza, quando la vita si insinua tra le crepe del suo mondo, riemerge anche l’inquietudine, la confusione, e le lacrime.
Questo dolore taciuto, proveniente da un passato che non ci viene mai mostrato ma solo suggerito, traspare dalla filigrana dell’immagine filmica stessa, dai sottili cambiamenti che animano le foglie dell’albero soggetto degli scatti di Hirayama, dalla luce che disegna nuove ombre sul terreno, dal traffico sulla strada, dai tramonti che invadono il cielo di Tokyo. Ma emerge anche dalle canzoni ascoltate religiosamente da Hirayama: tra queste The House of the Rising Sun, Redondo Beach, (Sittin’ On) The Dock of The Bay, Pale Blue Eyes, Brown Eyed Girl. Tutte canzoni riconoscibili, entrate a far parte della storie della musica, molte di queste caratterizzate da melodie pacate, ma tutte attraversate da una malinconia struggente.
E poi c’è Perfect Day di Lou Reed, a cui rimanda il titolo stesso del lungometraggio. Una canzone semplice e lineare, che racconta i momenti di una giornata trascorsa con la persona amata, eppure così misteriosa: ancora oggi ci si interroga sul vero significato della canzone, su cosa nascondano i versi di Reed. È una metafora, o è davvero solo il resoconto di una giornata semplice fatta di drink alla sangria e di gite allo zoo Sia la canzone di Lou Reed che il film di Wim Wenders evocano il misticismo insito nelle “piccole cose”, le complessità che si nascondono dietro l’apparente semplicità. Tra musica e cinema, dal racconto di una giornata passata tra il parco e il cinema e quello di una giornata di lavoro pulendo i bagni del Tokyo Toilet Project si arriva a pensare all’unicità dei momenti, alla differenza tra ripetizione e imitazione e a come le cose nel ripetersi non rimangano uguali ma si trasformino, all’importanza di creare ricordi.
Un nuovo personaggio sullo schermo
“Cercare di rompere il processo di identificazione individuale. […] Si è diffusa sempre più la credenza dell’io narrante, la credenza che uno possa comprendere solo entrando dentro una storia e identificandosi con un protagonista, e quindi la maggior parte dei prodotti che i ragazzi consumano chiede loro di essere protagonisti. Sono moltissimi i film in prima persona: dalle grandi produzioni hollywoodiane ai piccoli film indipendenti. Vorrei far capire ai ragazzi che si può anche “guardare” una storia…Possiamo anche metterci di fronte a un’opera, contemplarla, senza per forza esserne i protagonisti. Lazzaro è l’esempio massimo di un personaggio in cui nessuno può identificarsi, ma che tutti possono vedere, di cui tutti possono ricordarsi. È la forza dell’icona bidimensionale, è il santo, l’uomo fuori dal peccato originale. Si assiste alla sua storia, non si partecipa”.
Queste sono le parole di Alice Rohrwacher durante la conversazione con Goffredo Fofi, riportate nel piccolo volume “Dopo il cinema. Le domande di una regista” edito da e/o. La regista di Lazzaro Felice e La chimera parla del cinema da un punto di vista produttivo, economico, sociale e pedagogico, indagando il ruolo dell’autore nella costruzione di nuove forme di narrazione e di sguardo. Le sue parole sulla “trappola del personaggio”, sulla tendenza a prediligere figure con cui identificarsi, si applicano alla novità del personaggio di Hirayama: un protagonista in cui non è necessario riconoscerci, di cui non dobbiamo per forza desiderarne la vita per poterlo apprezzare.
Hirayama non si racconta nè si lascia raccontare: si lascia conoscere attraverso i suoi gesti, dalla cura con cui annaffia le piantine e inserisce le cassette nel mangianastri del furgone. E non c’è nulla di piccolo o insignificante negli atti quotidiani di Hirayama: sono cerimonie che nella loro ripetitività tendono verso qualcosa di più grande. Hirayama è un personaggio il cui passato è importante fino a un certo punto: quel che importa a Wenders è di mostrarci come quest’uomo gestisce il presente, come accoglie giorno dopo giorno tutto quello che gli arriva addosso.
E forse questo piccolo spaccato di una vita in corso, delimitato dall’inquadratura e dalla durata di 123 minuti è qualcosa che il pubblico, senza saperlo, aspettava da tempo: uno spazio calmo, dove il tempo scorre lentamente, dove si può osservare la vita di qualcuno di diverso da noi e scorgere discrepanze, somiglianze e riflessi.
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