Dopo aver fatto parlare di sé al Toronto International Film Festival, His Three Daughters è finalmente arrivato su Netflix. Un’opera di cui si è parlato decisamente troppo poco oltreoceano, ma che rischia seriamente di essere fra i film più potenti e impattanti dell’anno. La pellicola, scritta e diretta da Azazel Jacobs, abbraccia il dramma da più punti di vista, alternando un’impostazione da camera a un approccio squisitamente indipendente che brilla nei contrasti e costruisce scena dopo scena un’esperienza memorabile. Merito del suo autore, ovviamente, ma soprattutto delle tre protagoniste: Carrie Coon, Natasha Lyonne ed Elizabeth Olsen danno vita a un dialogo di corpi assenti e legami spezzati, ma sono soprattutto l’anima di un film sull’incomunicabilità, sulle distanze fra tre figlie che si ritrovano a fare i conti con se stesse mentre la morte aleggia nella stanza accanto.
L’aspetto davvero interessante dell’operazione di Jacobs sta tutto nella gestione delle sue attrici: His Three Daughters presuppone già dal titolo un distacco netto fra le sue colonne portanti, esplorate più nella singolarità che nel collettivo. Da qui l’idea di un dramma che mostri l’incongruenza dei legami familiari, di quelle forze destinate a restare unite anche quando non potrebbero essere più divergenti: Katie (Carrie Coon), Rachel (Natasha Lyonne) e Christina (Elizabeth Olsen) si ritrovano al capezzale del padre morente in un piccolo appartamento di New York, ma non potrebbero essere più distanti. Jacobs sceglie di raccontare così l’intimità del dolore, attingendo al dramma con un approccio quasi teatrale: uno spirito da camera che strizza l’occhio al cinema indipendente e accoglie riferimenti d’ogni sorta per parlare di figlie, più che di sorelle, all’ombra di cose ben più grandi.
Genere: Drammatico
Durata: 101 minuti
Uscita: 20 Settembre 2024 (Streaming)
Cast: Carrie Coon, Natasha Lyonne, Elizabeth Olsen, Jay O. Sanders
Classe d’altri tempi, approccio moderno
His Three Daughters non è The Room Next Door di Pedro Almodovar: si parla di fine vita, si guarda all’essenziale, ma è la prospettiva di chi resta a dominare la scena. Così lo spettro della morte cede il passo a quello della solitudine in un oceano di silenzi che non si fa mai patetico, ma catartico: le sorelle di Jacobs non sono le sorelle di Cechov, ma sono figlie dei drammi di Cassavetes e Bergman, donne che sfiorano l’esistenzialismo alleniano nella New York concreta di Baumbach. Il regista riesce a mescolare i suoi riferimenti per rappresentare il conflitto, interiore ed esteriore, delle sue protagoniste, eppure non è quella la sorpresa più grande: la Coon, la Lyonne e la Olsen sono incredibili anche stavolta, con performance che meriterebbero menzioni di rilievo nella prossima stagione dei premi. A dominare la scena, tenendo incollati allo schermo, è lo studio del contesto.
Il padre delle Tre è una presenza esterna e ingombrante, che aleggia sulle protagoniste dall’inizio alla fine ma che non si vede quasi mai a schermo. Il focus è e deve essere sulle Three Daughters, riunite dal fato in una convivenza obbligata. Noah Baumbach sfrutterebbe questo antefatto per raccontare della crescita e della scoperta delle sue donne; Jacobs, invece, dimostra soprattutto quanto sia difficile scoprirsi (e capirsi) quando il mondo si riduce a quattro mura e i riferimenti donati dalla vita sono più estranei di quanto sembri. La fotografia di Sam Levy, unita alle idee del regista, compie un mezzo miracolo in questo senso: gli spazi della casa in cui si svolgono le vicende compongono, tra luci e movimenti di macchina, le mille sfumature di un’entità a sé stante che prende vita da ogni gesto o parola delle sorelle.
Quello che conta
Pur trattandosi di personaggi dall’animo squisitamente teatrale, la macchina da presa valorizza lo spessore delle interpretazioni e su di esse pone le basi per un approccio potentissimo al tema dell’incomunicabilità. I conflitti sono espressi con un realismo disarmante, senza mai disdegnare del sano sarcasmo o una sottile ironia che permetta alle verità di ciascuna figlia di trovare spazio anche oltre le incomprensioni. Muovendosi su spazi e tempi che prescindono dal reale, il regista abbraccia il potenziale della vulnerabilità per portare su schermo un racconto dal sapore intimo e profondo come pochi, capace nella sua semplicità di stimolare oltre ogni misura. His Three Daughters riesce a scrollarsi di dosso il melò grazie alla sua scrittura, coinvolgente nelle sue dinamiche e abbastanza potente da avvicinarsi a quell’effetto salvifico che ogni storia di dolore può celare oltre la superficie.
Il film di Jacobs guarda a realtà effettive, possibili, angosciosamente vicine. Lo dimostra sin dalle prime scene, in cui le individualità di ciascuna protagonista emergono nei primi piani e il singolo domina la scena. Col passare dei minuti, però, le inquadrature si fanno più ampie, più affollate: tre personaggi in cerca di un legame lasciano cadere l’individualismo a piccoli passi, riuscendo a contrastare persino un realismo imperante come quello di Jacobs. Allo spettro di una separazione si sostituisce, anche solo per un istante, la speranza di un’unione. E questo, nella sua piccola semplicità, basta per fare grande cinema.
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His Three Daughters è un dramma dall'impostazione classica, ma modernissimo nella gestione dei suoi temi. Con una sceneggiatura intelligente e alcune trovate di altissimo livello, Azazel Jacobs ha sfruttato appieno il talento delle sue tre protagoniste per riflettere sul valore della vita attraverso i legami, abbracciando argomenti di portata universale con una maestria quanto mai rara nel cinema di oggi. Una magia che parte dai grandi, ma che brilla grazie al suo spirito indipendente.