La notizia della morte di Maurizio Costanzo ha colpito come il proverbiale fulmine a ciel sereno: sebbene da tempo ormai si inseguissero notizie sulla malattia del giornalista che si è spento a Roma all’età di ottantaquattro anni, la sua dipartita è arrivata comunque in parte inaspettata. Punto fermo della televisione italiana, applaudito e compianto da moltissimi colleghi, sposato dal 1995 con Maria De Filippi, Maurizio Costanzo è stato un vero e proprio stakanovista, un lavoratore indefesso che ha continuato a lavorare quasi fino alla fine, come se in lui niente fosse più importante di quel suo bisogno primordiale di parlare direttamente con il suo pubblico. D’altra parte, senza un amore e una dedizione come quelli che hanno caratterizzato tutta la sua carriera, Maurizio Costanzo non sarebbe mai riuscito a fare quello che ha fatto: rivoluzionare la tv italiana.
L’amore per il giornalismo
Quando si parla di grandi personaggi capaci di lasciare la traccia del proprio passaggio nell’immaginario collettivo sembra quasi naturale parlare di una sorta di predestinazione. Quando si parla di grandi figure del bagaglio culturale collettivo quello che appare con maggiore costanza è la capacità di prendere una passione e trasformarla in un’ossessione capace di dettare ogni scelta di vita.
Per Maurizio Costanzo è lo stesso. Il sogno di diventare giornalista ha caratterizzato la sua vita prima ancora che si aprissero le porte del salotto del Teatro Parioli. Maurizio Costanzo ha sempre sentito una forte spinta a comunicare, a raccontare il mondo che lo circondava con ogni mezzo che aveva a disposizione.
Inizia a 18 anni la sua corsa al giornalismo professionista, quando approda alla redazione di Paese Sera: la sua firma è sempre diretta e asciutta e la sua capacità di narrare la realtà filtrandola attraverso uno spirito critico cristallino gli permette di fare presto carriera. A soli ventidue anni – a un’età a cui oggi, in ambito giornalistico, di solito si inizia la gavetta – aveva già intervistato Totò per la rivista TV Sorrisi e Canzoni.
Sin dall’infanzia Maurizio Costanzo ha sempre avuto chiara la strada da intraprendere: non sapeva cosa volesse diventare. Ha sempre saputo chi era già. Costanzo non era un uomo che voleva diventare un giornalista: era un ragazzo che sapeva che sarebbe diventato un giornalista. Al di là della facile narrativa del “volere è potere”, che soprattutto negli ultimi anni ha mostrato la sua fallacia e la sua tossicità in una generazione sempre più rassegnata, la carriera di Costanzo è stata costellata dalla possibilità del giornalista di non avere e di non volere un piano B. Maurizio Costanzo era un giornalista ancor prima che l’Ordine registrasse il suo nominativo: era un giornalista perché il suo talento era proprio quello di giocare con le parole, di metterle in ordine per cercare di scardinare il caos di un’Italia piena di personaggi che, di lì a poco, avrebbero riscritto il concetto di divismo nostrano.
Se telefonando e il cinema: la comunicazione con ogni mezzo
A ben vedere la spinta al giornalismo di Maurizio Costanzo aveva molto a che fare proprio con la necessità di comunicare, di creare una conversazione con un pubblico che non si limitava alla lista di lettori di un outlet come Grazia – testata di cui divenne caporedattore – o agli ascoltatori che si lasciavano irretire da un accento apertamente romano, ma che abbracciava la musica e il cinema.
Da una parte è stato paroliere di Se Telefonando, il brano che porta anche la firma di Ennio Morricone e che è stato portato al successo di Mina. Un brano che, a leggerne il testo, torna sul tema della comunicazione e sulla sua impossibilità, che sottolinea la difficoltà di usare le parole per dire la verità contro una sorta di ansia sociale, che spinge ad avere paura dei propri sentimenti. Di fatto, Maurizio Costanzo stava parlando di nuovo del suo tema preferito.
La scrittura, dunque, è sempre stato uno dei “superpoteri” del giornalista. Scrivere sempre, per qualsiasi media, cercando di raccontare quante più storie possibili, tanto reali quanto fittizie. Maurizio Costanzo ha firmato la sceneggiatura di film come La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati e Melodrammore, di cui firmò anche la regia. Ideò il personaggio di Fracchia, portato alla ribalta da Paolo Villaggio e non si fece mancare nemmeno la scrittura come pura arte, come forma di racconto non per forza legato al giornalismo e alla cronaca. Comunicare, comunicare, comunicare: ecco la vera missione di Maurizio Costanzo. La sua, appunto, predestinazione.
Il Maurizio Costanzo Show e la rivoluzione in TV
Naturalmente una delle “creature” principali della carriera di Maurizio Costanzo è il Maurizio Costanzo Show, un programma che – che piaccia o no – ha rivoluzionato il modo di fare tv e, in un certo senso, ha portato a quello che Umberto Eco definisce Neotelevisione.
Prima di approdare al Teatro Parioli di Roma – di cui divenne poi anche direttore artistico tra il 1988 e il 2011 – Maurizio Costanzo aveva avuto modo di gettare il seme della sua idea di giornalismo televisivo con Bontà Loro, dove per la prima volta personaggi pubblici si trovavano a portare in scena anche vicende molto personali, a cui il pubblico non era abituato e a cui rispose con una curiosità inaspettata. Dopo essersi fatto le ossa anche con altri programmi come Acquario, Grand’Italia e Fascination, Costanzo trovò la propria formula e nel 1982 debuttò con un salotto televisivo che portava il suo nome.
Un salotto pieno di ospiti, in cui il pubblico sulle iconiche poltrone rosse si piegava in avanti, curioso per le “confessioni” dei personaggi pubblici, ma anche sedotti da un giornalista che rivoluzionò l’idea di giornalista televisivo. Un giornalista che stava seduto insieme alle persone di cui parlava, con una postura non più sinonimo di rigidità. In qualche modo Maurizio Costanzo riuscì a rivoluzionare la televisione presentandosi in modo anti-televisivo.
Il suo modo di raccontare non era una cronaca asettica di vite ed eventi: al contrario era una conversazione di cui lui era al timone e che si basava molto sul non detto. Come nei film horror il non visto porta a un più forte senso di orrore, allo stesso modo le interviste di Maurizio Costanzo si basavano sui silenzi del giornalista, su quelle parole lasciate quasi a metà per permettere ai suoi ospiti di rispondere a domande che Costanzo non faceva mai del tutto. Il suo stile non era quello quasi investigativo dei salotti di oggi: non insisteva con le domande, né tallonava da vicino i suoi ospiti, quasi a prenderli in contropiede. Era più che altro una forma di giornalismo basato sull’allusione, sull’insinuare qualcosa prima che gli ospiti lo confermassero. Tutto questo, unito proprio alla voglia di raccontare il privato – ma mai così privato come avviene oggi – di personaggi pubblici rese il Maurizio Costanzo Show non solo un prodotto rivoluzionario, ma anche un pezzo della storia della televisione. Il programma contò quarantadue edizioni e, ancora oggi, è il talk show più longevo della TV italiana.
Cercare di riassumere tutta la carriera di Maurizio Costanzo, passando da Buona Domenica fino alle piéce teatrali da lui firmate, rischierebbe di trasformarsi in un elenco pedissequo di titoli. Perché il punto non è tanto quanto ha fatto Maurizio Costanzo, ma quello che ha fatto, il modo in cui il suo essere “predestinato” si è trasformato in un modo di intendere la televisione e l’intrattenimento da talk show. In questo senso è emblematica la frase che ha detto Vittorio Sgarbi in diretta quando è stato raggiunto dalla notizia della morte del giornalista che lo ha presentato al pubblico televisivo: “È morto nostro padre”.