Ci sono film che raccontano la storia. Poi ci sono quelli che la fanno respirare, la scolpiscono nei volti, la fanno filtrare tra le pieghe di un abito, nei tremolii di una candela, in uno sguardo trattenuto. Firebrand – L’ultima regina è uno di questi. Diretto da Karim Aïnouz, il film si muove come un sussurro inquieto tra i corridoi umidi della corte di Enrico VIII, mettendo al centro una figura spesso dimenticata o ridotta a nota a margine: Katherine Parr, la sesta e ultima moglie del sovrano.

Ma qui, per la prima volta sul grande schermo, Katherine non è una sopravvissuta per caso: è una donna colta, inquieta, coraggiosa. Ed è in quel coraggio che il film trova la sua voce più potente.

Firebrand – L’ultima regina
Genere: Drammatico
Durata: 120 minuti
Uscita: 29 maggio 2025 (Cinema)
Regia: Karim Aïnouz
Cast: Alicia Vikander, Jude Law

Una regina di carne e ossa

Alicia Vikander in una scena di Firebrand – L’ultima regina @ Brouhaha Entertainment

Se esiste un cuore pulsante in Firebrand – L’ultima regina, questo è senza dubbio rappresentato dall’interpretazione intensa e sfaccettata di Alicia Vikander, che qui veste i panni di Katherine Parr con una sensibilità rara, quasi tattile. Non è la regina che ci si aspetta: non è drammatica, non è trionfante, non è nemmeno eroica nel senso convenzionale del termine. È una donna che vive in uno stato di vigilanza permanente, costantemente consapevole che un solo passo falso (una frase, un’intenzione mal interpretata) potrebbe costarle la vita. La Vikander restituisce tutto questo con una recitazione di estrema finezza: lavora su micro-espressioni, respiri trattenuti, uno sguardo che fugge ma osserva tutto.

La sua Katherine è un personaggio che accumula la tensione dentro di sé e la lascia trapelare solo nei momenti più intimi, in cui il potere patriarcale che la schiaccia sembra allentare la presa. Il risultato è una figura che non viene mai ridotta a vittima o martire, ma si impone come un essere umano completo, sfaccettato, contraddittorio. Accanto a lei, Jude Law interpreta un Enrico VIII che sovverte l’immaginario popolare: il suo non è solo il re tiranno, crudele e assoluto, ma anche un uomo devastato dalla decadenza del proprio corpo, dalla paura della morte, dalla consapevolezza amara di aver perso il controllo su tutto. Perfino su se stesso. Law rende questa figura maestosa e miserabile con un’interpretazione corporea, animalesca, grondante malattia e paranoia. Il rapporto tra i due attori (e quindi tra i loro personaggi) è costruito su un equilibrio sempre instabile: si sfiorano, si scrutano, si accarezzano con sospetto.

Tuttavia, è proprio in questa scelta che il film può risultare sbilanciato: la costruzione così accurata del loro rapporto rischia talvolta di sottrarre spazio narrativo ad altri personaggi, relegati a figure-ombra, pedine nel gioco dei protagonisti. Alcuni ruoli secondari, come quello di Thomas Seymour o delle dame di corte, risultano abbozzati, lasciando l’impressione di una galleria incompleta. La sceneggiatura, firmata da Henrietta e Jessica Ashworth, ha la grande intelligenza di non appiattire mai questo legame su una dimensione prevedibile. Le battute sono cesellate come lettere non spedite, frasi scritte con la paura che qualcuno le possa leggere. E proprio in questo risiede la forza narrativa del film: nella scelta di raccontare il potere non attraverso l’azione, ma attraverso la tensione sottile e continua che si insinua nei dialoghi, negli incontri, negli scontri silenziosi. L’assenza di un climax tradizionale non è una mancanza, ma una dichiarazione d’intenti: Firebrand vuole raccontare la sopravvivenza come forma di eroismo.

In alcuni tratti, però, la sceneggiatura, seppur elegante, indulge in una certa lentezza e in un uso eccessivo della sottrazione: a volte, il non detto è così forte da diventare opaco e lo spettatore rischia di restare fuori, di non cogliere le reali dinamiche fino in fondo. Non un difetto fatale, ma un limite strutturale di una narrazione che, per privilegiare l’intimità e la tensione, si chiude un po’ su sé stessa.

Estetica e atmosfera: la maestria della parte tecnica

Jude Law e Alicia Vikander in una scena di Firebrand – L’ultima regina @ Brouhaha Entertainment

A rendere Firebrand così avvolgente, quasi ipnotico, è anche la sua componente visiva e sonora, che lavora come una seconda pelle del racconto. Non si tratta di semplice ambientazione storica, ma di una vera e propria drammaturgia degli spazi. Ogni stanza del palazzo reale sembra compressa, angusta, come se la pietra stessa fosse stata scolpita per reprimere. Il castello non è un luogo di potere, ma una trappola. E qui entra in gioco l’occhio esperto e visionario di Hélène Louvart, la direttrice della fotografia, che con la luce naturale, i contrasti tenui e le ombre persistenti riesce a costruire una dimensione visiva in cui tutto sembra antico e immobile, come se il tempo si fosse fermato nel momento esatto in cui la paura ha preso il sopravvento. Le scene notturne sono dominate da fiaccole, candele, luce tremolante, mentre quelle diurne hanno una freddezza livida, quasi cimiteriale. È come se la luce stessa fosse sotto sorveglianza.

La regia di Aïnouz si muove con precisione chirurgica dentro questi spazi. Il suo sguardo non è mai invadente: osserva, ascolta, accompagna. A volte si avvicina ai personaggi fino a sfiorarli, altre li guarda da lontano, come se fosse anch’esso una presenza silenziosa a corte. Invisibile ma vigile. La scelta di non indugiare in scene spettacolari, ma di restare costantemente ancorati ai corpi e agli occhi dei protagonisti, crea un effetto di claustrofobia emotiva che si sedimenta lentamente nello spettatore. I costumi di Michael O’Connor, ricercati e filologici, contribuiscono a restituire l’atmosfera del tempo non solo sul piano estetico, ma anche simbolico. Gli abiti non sono solo ornamenti, ma armature, strumenti di potere, dichiarazioni di stato e appartenenza. Ogni piega del tessuto racconta la rigidità di una società fondata sull’apparenza e sulla gerarchia. La colonna sonora di Dickon Hinchliffe, invece, è quasi impercettibile.

Più che musicale, è psicologica. Accompagna, inquieta, suggerisce. È una partitura fatta di tensione trattenuta, un sottofondo nervoso che non esplode mai davvero, ma aleggia ovunque. Insieme, questi elementi tecnici costruiscono un’esperienza, un’immersione visiva ed emotiva in un mondo in cui il terrore non ha bisogno di essere urlato. Tuttavia, c’è anche un rischio formale in questa raffinatezza. A tratti, l’estetica sembra prendere il sopravvento sul ritmo narrativo, e alcune sequenze (per quanto meravigliosamente composte) possono apparire compiaciute, lente, persino decorative. La bellezza visiva, seppur coerente con l’intento del film, talvolta frena la tensione invece di sostenerla. In certi momenti si ha l’impressione che la regia sia più interessata a comporre quadri che a far procedere il racconto.

Anche la colonna sonora, volutamente minimale e sommessa, può rischiare di passare inosservata e lasciare alcune scene prive di una spinta emotiva più marcata. È un equilibrio difficile da mantenere: tra contemplazione e immobilità, tra eleganza e freddezza. Firebrand lo fa nella maggior parte dei casi, ma non sempre riesce a scuotere emotivamente come potrebbe. Alcuni spettatori potrebbero avvertire una certa distanza, una barriera formale che rallenta l’identificazione.

Katherine Parr: un ritratto storico dirompente

Alicia Vikander in una scena di Firebrand – L’ultima regina @ Brouhaha Entertainment

La più grande ambizione di Firebrand non è cinematografica: è storica. Anzi, storiografica. Perché questo film non si limita a raccontare un episodio del passato, ma riscrive la narrazione ufficiale restituendo centralità a una figura femminile sistematicamente marginalizzata. Katherine Parr è stata descritta per secoli come la moglie che “sopravvisse”, l’unica che non fu giustiziata o ripudiata. Una sopravvissuta. E nulla più. Ma chi era davvero? Il film ci risponde senza retorica: era una scrittrice, una pensatrice, una teologa, una donna dotata di una cultura rara per il suo tempo, e soprattutto di una volontà politica lucida. Katherine non fu solo una regina consorte: fu una riformista, una figura centrale del dibattito religioso dell’epoca, una protettrice degli intellettuali protestanti e una promotrice dell’educazione femminile. Pubblicò testi religiosi firmandoli con il proprio nome, un atto rivoluzionario in una società che considerava l’alfabetizzazione femminile sospetta già di per sé.

Questa potente rilettura femminile non è immune da qualche omissione storica. Il film, nel suo intento di restituire dignità alla protagonista, tende a semplificare alcuni aspetti del contesto politico e religioso in cui Katherine si muove. Le sue posizioni teologiche, ad esempio, vengono appena accennate. Il conflitto interno alla corte, tra fazioni cattoliche e riformiste, resta sullo sfondo e non viene mai del tutto sviluppato. Questa può quasi apparire come un’occasione mancata: approfondire il contesto avrebbe rafforzato il senso della minaccia, l’urgenza delle scelte, la portata del rischio. In parte è una scelta stilistica, in parte una limitazione: per concentrarsi sull’intimità, Firebrand rinuncia a una cornice più ampia, lasciando fuori dallo sguardo molte dinamiche storiche fondamentali.

È un film che guarda alla microstoria più che alla macro, e nel farlo sceglie di perdere complessità politica in favore della tensione interiore. Una scelta legittima, ma che può lasciare insoddisfatti gli spettatori più attenti agli snodi storiografici. Tuttavia il film ci mostra questa dimensione con delicatezza e rigore, inserendo dettagli che rivelano il peso delle azioni della nostra protagonista: la cura con cui sceglie le parole nei suoi scritti, la paura con cui custodisce libri proibiti, l’ambivalenza dei rapporti con le dame di compagnia, l’impossibilità di fidarsi di chiunque. Katherine è una donna che cammina su un crinale strettissimo. È troppo intelligente per essere inoffensiva, troppo prudente per essere immediatamente attaccabile.

È una ribelle che si muove nell’ombra, un’intellettuale che ha appreso il prezzo del pensiero libero. Ed è proprio questo che fa di Firebrand non solo un film storico, ma un atto politico. Perché mette in discussione la narrazione dominante e rivendica il valore del pensiero femminile come forma di resistenza. In un tempo in cui la storia viene ancora troppo spesso scritta dai vincitori (e i vincitori, sappiamo, sono quasi sempre uomini), questo film è un gesto necessario di contro-storia. Una presa di parola in nome di chi ha rischiato tutto per poter semplicemente leggere, scrivere, credere.

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🇮🇹/🇺🇸 Classe 2005, nata tra i templi di Paestum ma con origini statunitensi, cinefila compulsiva. Sono redattrice di ScreenWorld.it dal gennaio 2025 e Content creator per la pagina Ilmiocinemaofficial (22.5k su Instagram). Scrivo perché non so farne a meno. Ironia inclusa.