Prima o poi arriva, in una grande serie televisiva, quell’episodio per cui sceglieremo di ricordarla anche a distanza di diversi anni. È successo con Lost, con Game of Thrones, con Breaking Bad e la lista sarebbe ancora lunga: adesso è il turno di The Last of Us, che nel terzo episodio della sua prima stagione, “Long Long Time”, espande finalmente gli orizzonti del proprio universo per restituirci non più solo un’esperienza funzionale alla verosimiglianza dello scenario post-apocalittico e distopico, bensì un’incursione nel privato di due personaggi laterali, tutt’altro che centrali, e allo stesso tempo fondamentali per comprendere il senso profondo dell’operazione attuata dagli autori sulla trasposizione di uno dei videogiochi più amati di sempre.
Alla ricerca di un’umanità perduta
Dopo i primi due episodi introduttivi, in cui sono state chiarificate le regole e i meccanismi di funzionamento degli infetti e del virus di cui sono portatori, The Last of Us interrompe la formula del prologo sull’origine della pandemia e lascia che siano Ellie e Joel a condurci in un’altra dimensione del passato. I due protagonisti si trovano a 10 miglia dalla città di Boston: l’evento più significativo nei primi quindici minuti dell’episodio è il ritrovamento, da parte di Ellie, di un uomo infetto e imprigionato fra blocchi di cemento che ne impediscono il movimento. Questo è il primo contatto della giovane protagonista con le creature del virus senza che vi sia la supervisione di Joel. L’approccio registico con cui s’inquadra il momento avrebbe potuto essere convenzionale, invece è del tutto peculiare: ciò che è visibile nella pelle tagliata dell’infetto non è solo il fungo, che ne ha invaso ogni organo vitale, bensì lo sgorgare di un sangue che ne suggerisce un’umanità preesistente, malgrado sia perduta.
Prima dell’esecuzione con cui l’adolescente lo grazia dal suo crudele destino, togliendogli ciò che resta della sua vita, Ellie lo osserva cercando di stabilire un contatto con l’uomo che fu: è lo stesso atteggiamento che manterrà ogni volta che rivolgerà a Joel domande sulla civiltà che non ha mai visto, sul mondo che non c’è più, cercando di carpire quante più informazioni possibili su una realtà che non conoscerà mai, nemmeno con l’insegnamento parziale che la scuola FEDRA le propone sulla storia recente. Le informazioni che questo terzo episodio dissemina nei suoi minuti riguardano principalmente quella che i personaggi definiscono “pessima gestione del governo”, in relazione al propagarsi della piaga virale: sul loro cammino, Ellie e Joel s’imbattono in una fossa comune che ancora accoglie i resti ossei di innocenti giustiziati dai militari per ovviare alla mancanza di spazio nelle zone di quarantena adibite all’accoglimento dei superstiti, oppure semplicemente per timore di una possibile infezione.
Bill e Frank, gli ultimi uomini della Terra
L’ellissi narrativa che da questo momento si apre ci trasporta in un altro luogo, in un altro tempo: è il 2003 e, con gran sorpresa dello spettatore, Craig Mazin non ci porta indietro per permetterci di assistere impotenti allo sterminio che ebbe luogo, bensì nella dimora di un sopravvissuto che non si piegherà al volere dei militari.
Bill, interpretato da Nick Offerman, non ha alcuna intenzione di dirigersi verso la zona di quarantena e lasciare il suo quartiere: dopo essersi nascosto, anzi, emerge da un bunker, costruito sotto casa sua, in cui risorse e armi di ogni tipo sono state impilate in vista della preparazione ad anni di solitudine e sopravvivenza. Come l’Omega Man di Charlton Heston, Bill saccheggia Home Depot, la stazione di servizio e raccoglie tutto ciò che può permettergli di vivere adeguatamente e di proteggersi da eventuali attacchi di infetti, arrivando persino a sequestrare la barca dei vicini. La classica e ormai consolidata routine dell’ “ultimo uomo della Terra” – facile ritrovarvi più di un’ispirazione a certo cinema post-apocalittico – viene bruscamente spezzata da un evento inaspettato: alla sua porta si presenta Frank (Murray Bartlett), che in realtà ha la sfortuna di cadere in una delle trappole sistemate per fronteggiare eventuali incursioni indesiderate. Diffidente, Bill cede alle richieste dello sconosciuto: gli consente non solo di mangiare con lui, ma anche di usare la sua doccia e di suonare al pianoforte gli spartiti dei brani di Linda Ronstadt.
Una delle più belle storie d’amore televisive
Sulle note di Long Long Time s’innesta l’inizio di una delle più belle storie d’amore viste sul piccolo schermo nei tempi recenti: Bill e Frank comprendono di poter e voler condividere molto più che una cena e qualche parola e The Last of Us regala ai suoi spettatori un momento di tregua dalla violenza e dall’angoscia della solitudine per raccontare la bellezza e il bisogno umano della condivisione. La scelta di Mazin di deviare dalla storia preesistente nel videogioco (in cui a Bill e Frank è dedicata una sorte ben più cinica) è una delle più coraggiose e intelligenti che si potessero fare per inserire un elemento di novità in un universo ancora estremamente fedele a quello videoludico, cui si aderisce fino alla fine nello spirito, nelle atmosfere e nella costruzione della macrostoria. L’amore di Bill e Frank attraversa gli anni nell’immobilità di un mondo che sembra fermo al giorno del disastro e lo fa con una sensibilità inedita, e un’attenzione particolare, nei confronti del fattore umano su cui tutta la serie s’interroga e s’impernia. I due personaggi, insieme, scoprono il significato di un sentimento che si fonda sulla reciproca comprensione, sulla mutua assistenza, sul bisogno di cambiare per l’altro (e di farsi cambiare dall’altro), sulla promessa di esserci. Esserci sempre, al di là delle divergenze, per un piano più grande del singolo. Amare diviene come sopravvivere: curare l’altro per curare se stessi, un atto incondizionato perché ci sia un bene condiviso e che vada oltre il proprio benessere. La sopravvivenza come scopo vitale diventa per Bill solo un mezzo per raggiungere il nuovo obiettivo, che si esprime ed esaurisce ora totalmente nel sentimento per Frank.
I guardiani del focolare domestico
Quando Ellie e Joel giungono nella dimora in cui i due compagni hanno deciso di terminare insieme e consapevolmente le proprie vite (da sottolineare l’estrema eleganza registica di Peter Hoar nel non esibirne i corpi putrefatti con uno stratagemma brillante), la ragazza rimane sbalordita dalla bellezza e dalla cura con cui è stata preservata quella casa. La polvere e il cibo malandato, ancora sulla tavola, rivelano il suo abbandono precoce, ma tra le sue mura ridipinte e il giardino meticolosamente ordinato si può respirare ancora il frutto di quell’amore: il desiderio di proteggere e conservare, con pazienza e ostinazione, il conforto della quotidianità, della pace, dell’umanità che ci contraddistingue. Bill e Frank sono stati gli ultimi guardiani del focolare domestico in un universo in cui l’esistenza è stata ridotta a mero istinto.
Come se le peggiori pagine della storia dell’uomo avessero avuto modo di riunirsi, in The Last of Us, con quelle più recenti della contemporaneità, fra olocausti e traumi individuali post-pandemici, il percorso di Ellie e Joel non è solo perlustrazione del territorio e ricerca di sopravvissuti come loro: è anche, e specialmente, il disperato bisogno di sapere che il contagio non ha ancora annientato quello che rende un essere umano tale. Fosse anche la felicità di poter di nuovo ascoltare un brano di Linda Ronstadt.
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