Barnaby è un falco pellegrino. Il suo volo squarcia un’atmosfera nebulosa e si apre alla vastità del cielo quando una figura eterea, enigmatica e seducente lo libera dalla sua gabbia e lo lascia filare via. Qualche istante dopo è notte, della donna misteriosa abbiamo conosciuto il nome e un’aura nient’affatto rassicurante: Michaela quel rapace l’ha curato, riabilitato e apparentemente liberato. Eppure Barnaby all’improvviso torna indietro, si schianta contro una finestra e muore atrocemente nelle mani della sua salvatrice. La durata di un singolo episodio è sufficiente a polverizzare l’incanto messo in piedi da Michaela, ponendoci di fronte all’unica domanda che si annida nella tela di questa serie: chi è davvero l’animale in gabbia?
Verrebbe da dire noi, gli spettatori inconsapevoli di questo pastiche di appaganti sfoggi estetici e stentati sviluppi espressivi: Sirens esonda su Netflix disvelando una filigrana mitologica che monta, smonta e ribalta un intreccio privo di una reale direzione d’insieme. La miniserie creata da Molly Smith Metzler (già conosciuta per Maid) vanta un cast di pregio che come può la tiene a galla, ma soffre di un’inconsistenza che ne mortifica qualsiasi progressione narrativa. Peccato, perché Sirens ventila premesse accattivanti e a tratti le fa anche risaltare, ma il più delle volte procede scattosa, esaurendo con appena qualche cenno l’intero potenziale della suadente ambiguità con cui prova a dialogare di femminilità, potere e letale lotta di classe.
Una dark comedy ermetica che si perde nei suoi vezzi e nella grana grossa di simbolismi dall’incerta valenza narrativa: Sirens ammicca a un racconto di donne incantatrici vittime e artefici di un’ipocrisia sotterranea, endemica e quasi inestirpabile. Con la sua satira sociale vorrebbe volare alto, deviare molto lontano – ma a conti fatti, purtroppo, riesce solo a schiantarsi su se stessa.
Genere: Drammatico, Comedy
Durata: 5 Episodi/55 minuti ca.
Uscita: 22 Maggio 2025 (Netflix)
Cast: Julianne Moore, Milly Alcock, Kevin Bacon
Di cosa parla Sirens?

Bella domanda. Chiaro è che le incantevoli protagoniste di questa storia intonano melodiosi canti di fascinazione su uomini insicuri, irrisolti e in costante ricerca di validazione. Michaela/Kiki (Julianne Moore) e Simone (Molly Alcock) sono le sirene che cantilenano le sinfonie di questa serie, le due anomalie dell’alta società. Provengono da un passato lontanissimo di povertà e dolorosi avvenimenti, ma della sofferenza marginalizzante dell’infanzia ne hanno fatto strategia – opportunità per reinventarsi. Dentro Sirens ci si smarca dal racconto oscurante della femminilità con i soli due strumenti dell’autodistruzione o della vicendevole sopraffazione: Kiki e Simone lo hanno imparato molto bene, Devon (Meghann Fahy) ne sta ancora soppesando i contraccolpi.
Ma torniamo un attimo indietro: di cosa parla davvero Sirens? In primis della preoccupazione di Devon per il rapporto simbiotico e morboso tra la sorella Simone e la sua superiore Michaela. Del bizzarro weekend trascorso dalla ragazza presso la sontuosa villa sul mare di Michaela e Peter Kell (Kevin Bacon) e del tentativo di salvare Simone da quella fatiscente commistione di attivismo e fanatismo mondano. Ma potrebbe anche parlare di stress post-traumatico e dei complessi meccanismi di difesa e compensazione del dolore. Potrebbe parlare di identità e immoralità, di privilegi, dipendenze emotive e disperata ricerca di solidarietà. Potrebbe, perché in fondo Sirens parla di tutto e poi non conclude bene niente.
Uno scenario umano desolante

La serie, in verità, mette al centro anime perdute e personaggi detestabili ossessionati dal controllo dei sentimenti e delle esistenze altrui. Chi all’inizio ci viene presentato come preda (Peter) lentamente deraglia verso un ritratto di egoismo e infantile prevaricazione. Con i presunti villains (l’indecifrabile Michaela/Kiki) socializziamo invece in un clima di sospetto, salvo poi invertirne punti di vista e sovrabbondanti evoluzioni di senso.
A scanso di equivoci, però, dell’umanità di Sirens non si salva quasi niente. Quella descritta dalla miniserie è una grettezza trasversale, quasi universale, eccezion fatta per lo staff della tenuta e una manciata di personaggi provenienti da più modeste estrazioni sociali. Sembrerebbe chiaro dove la critica punti a parare, eppure ben presto Sirens sterza, traballa e distorce tutti i rapporti di forza: l’operazione di per sé è pure interessante, il problema è che la struttura narrativa fatica puntualmente ad accompagnare le sue svolte.
Sirens trova allora i suoi momenti migliori quando si svincola dalla volontà di sembrare quello che non è. Quando, come nel quarto episodio, mette da parte le suggestioni e stempera i temi caldi della fragilità umana attraverso convincenti momenti comici o l’avvicinamento garbato alla vulnerabile psicologia dei suoi personaggi. Perché, a ben vedere, l’opera di Smith Metzler è centrifugata dal retaggio psicologico di donne recluse e non ancora cresciute – congestionate nel dolorosissimo strappo di un’infanzia altamente traumatizzante.
Devon e Simone: due facce di un solo dolore

Nei suoi slanci più riusciti, Sirens si stringe con sensibilità attorno alla confessione di un dolore faticosissimo da superare: il lutto della madre. Le sorelle avevano età diverse al momento della sua morte, bagagli emotivi differenti per provare a contenerla e a immagazzinarla: Sirens ne esplora in parte le complessità, convogliandone molteplici strategie di elaborazione.
Se per Simone il lavoro rappresenta la via di fuga centralizzante entro cui annullare se stessa, per Devon la vita non è che una reiterata espiazione di colpa e responsabilità: Devon si immola per gli altri, fronteggia gli errori commessi reprimendo la propria individualità o sublimando nelle dipendenze una radicale mancanza di amore. Simone, invece, trasferisce le sue assenze affettive sul fondo di legami disfunzionali, regolarizzati dentro una narrazione di sé estetizzata e mistificante degli aspetti più oscuri del proprio vissuto.
Le loro caratterizzazioni sono distinte, bilanciate da un’estetica antitetica, continuamente messe a confronto con una figura paterna negligente, depressa e ora anche malata di demenza senile. Entrambe, in un modo o nell’altro, sono bloccate alle sé bambine.
Nei pressi del loro battibeccare si avvicendano personaggi più o meno importanti, perlustrati con sottotrame (romantiche e non) dalla dubbia incisività narrativa o da allusioni prima marcate e poi abbandonate con fare elusivo. Gli snodi della seconda metà di Sirens annullano quanto venuto prima, compresa la complessità appena accennata, compromettendone il senso e privilegiando prevedibili colpi di scena. Così, con repentini cambi di tono e cumulative soluzioni creative, Sirens da thriller finisce per riscoprirsi dramma e infine macchiettistica favola nera.
Eva contro Eva

E poi c’è Kiki. Magnetismo e straordinaria inclinazione ammaliatrice l’hanno condotta sulla cima della sua personale scalata sociale: ex avvocata e ora filantropa, Michaela Kell è la seconda moglie di un ricchissimo rampollo apparentemente di buon cuore. Sul suo conto circolano voci inquietanti, non poco spietate, eppure la facoltosa élite che le vortica attorno la venera come il leader di un’insolita setta di volontariato animalista.
Simone è l’assistente personale di Michaela, la chiama Kiki perché la donna le ha concesso quel particolare privilegio – a sostegno di un rapporto edificato su fondamenta ambigue e confini sistematicamente superati. Simone dorme con Kiki, fa sexting per Kiki ed è, gradualmente, diventata Kiki: l’una vede nel suo capo il sostituto di una sembianza materna, l’altra ha atteggiamenti decentrati e sintomatici di una pericolosa manipolazione affettiva.
Eppure la disturbante e squilibrata dipendenza del loro legame si nasconde sempre dietro un velo di vicendevole riconoscimento: Simone, Kiki (e anche Devon) sono donne spezzate da dolori e da mancanze; le uniche figure capaci, in fin dei conti, di ascoltarsi e tentare di capirsi in mezzo a quel mondo contagiato da uomini indolenti e incuranti delle loro controparti. Le triangolazioni psicologiche delle protagoniste mutano incessantemente, si moltiplicano in rifrazioni respingenti che trasformano la rivalità tra Simone e Kiki nel calco grossolano di un rudimentale duello alla Eva contro Eva: nello scontro improvviso e invelenito di un femmineo che si affanna per la sua sopravvivenza.
Sirens, o un fallace fuoco di paglia

In questo scenario desolante e logorato da una vorace umanità, il finale corre speditissimo verso una sensazionalistica deflagrazione: alla fine del quinto episodio di Sirens ci si sente intontiti, frastornati, profondamente narcotizzati dall’andatura di una serie che ha l’unica costanza di anteporre l’apparenza alla sostanza. Sirens arroventa l’aria di onirismo e impalpabile mistero, arreda il racconto di satirici spunti critici e poi di colpo cambia faccia, capitolando per esuberanza di eventi ingenui e poco significativi.
Tante idee mal dirette pregiudicano la compianta compostezza che caratterizzava il lavoro precedentemente fatto in Maid: qui, al contrario, l’accumulo di formalismi visivi e narrativi si squaglia in una resa d’insieme dozzinale, prevalendo su una storia patinata ma infelicemente trascurata. Ingabbiata: come l’abnegazione performante delle donne di cui parla o il volo circolare di un rapace incapace di trovare libertà.
Conclusioni
È eccessivamente confusa questa idea di serialità. Il cast esperto e i manierismi creativi non sono sufficienti a tenere a galla un racconto pieno di idee mal sviluppate. Sirens si inebria di tensione e della sua stessa sofisticatezza, ma l’apparenza non inganna e la sua voce, certamente, non incanta.
Pro
- Il carisma interpretativo di Julianne Moore e Meghann Fahy
- La critica sociale all’affascinante e disturbante relazione tra donne, potere e privilegio
- Le sfumature psicologiche (appena accennate) con cui tenta di parlare delle strategie difensive di gestione del dolore
Contro
- Lo sfoggio estetico vanifica lo sviluppo narrativo
- Troppa carne al fuoco priva di una coerente direzione d'insieme
- I colpi di scena prevedibili, accessori e mai all’altezza della densità del mistero suggerito
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Voto ScreenWorld