Le serie true crime, che siano prodotti di fiction o documentari, oltre alle vicende di cronaca nera che raccontano, riescono il più delle volte a catturare e rievocare lo spirito di un’epoca intera. Soprattutto, poi, se ambientate in quella che è stata definita come “la golden age dei serial killer”, ossia quel periodo che si estende più o meno dagli anni Settanta alla fine degli anni Novanta e che registra negli Stati Uniti il numero più alto di assassini seriali della Storia. Le ragioni sociali e culturali del fenomeno sono tante, ma a caratterizzare l’operato dei killer di quel periodo era il fatto che per lo più “andassero a caccia” in zone malfamate di grandi metropoli, cercando le proprie vittime in quegli strati della società in cui, se avveniva un omicidio, richiamavano meno l’attenzione delle autorità: prostitute, omosessuali, persone indigenti, spesso nere. Si tratta delle cosiddette “vittime di serie b”, ossia quelle persone la cui sparizione o morte non rappresentava un’immediata priorità per le forze dell’ordine.
Uno dei killer che più ha sconvolto l’opinione pubblica nella seconda metà del secolo scorso, operando dal 1978 al 1991, è certamente Jeffrey Dahmer, conosciuto anche come il cannibale di Milwaukee. L’uomo ha ucciso diciassette persone, tutti giovani omosessuali che irretiva, drogava e poi massacrava (e di cui in certe occasioni si nutriva). Come vedremo in questa recensione di Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer, tra gli obiettivi più evidenti della serie Netflix scritta da Ryan Murphy, c’è sia narrare la vicenda – dando particolarmente risalto al punto di vista delle vittime – sia puntare il dito su un contesto socio-culturale che ha in qualche modo permesso a un killer prolifico e spietato come lui di agire praticamente indisturbato.
Prima di essere preso, Dahmer è stato fermato e arrestato dalla polizia più e più volte, ma se l’è sempre cavata con facilità e senza che i mostruosi delitti che aveva compiuto venissero scoperti. Come è possibile? Si trattava di un ragazzo bianco, di famiglia piccolo borghese, e a scomparire attorno a lui erano ragazzi neri, immigrati asiatici o ispanici, omosessuali.
“Credete più a un bianco dalla fedina penale sporca, che a un nero che ce l’ha pulita“, dirà a un certo punto una delle sue vittime, miracolosamente sfuggitagli. E non c’è chiave di lettura più chiara per l’intera serie, ossia la volontà di attribuire la colpa delle sue azioni al “mostro”, ma anche alla società che non l’ha fermato.
Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer
Genere: Horror
Durata: 50 minuti ca./10 episodi
Uscita: 21 settembre 2022 (Netflix)
Cast: Evan Peters, Richard Jenkins, Molly Ringwald, Michael Learned, Niecy Nash
La trama: partiamo dalla cattura
La serie si apre con gli eventi che precedono la cattura di Dahmer, una serata da incubo che coinvolge quella che sarebbe dovuta essere la sua ennesima vittima, Tracy Edwards. Il ragazzo riesce a liberarsi prima di essere ucciso e avvisa le autorità, che, ispezionando la casa, scopriranno i resti dei ragazzi che ha ucciso nel corso degli anni (addirittura troveranno una testa nel frigo).
La cattura darà il via a una serie di interrogatori, sia a suo padre che allo stesso Dahmer. Seguendo il filo del racconto tracciato da Dahmer, ci ritroviamo catapultati prima nella sua infanzia, segnata dalla presenza di una madre con evidenti problemi mentali e in cui sviluppa il primo macabro interesse per la morte (insieme al padre aveva l’hobby della tassidermia), poi nella sua adolescenza, momento in cui scopre un interesse sessuale per i suoi coetanei maschi, ma anche una malata attrazione per le carcasse di animali.
In un montaggio che non segue una cronologia lineare, ci viene raccontato il mediocre percorso scolastico di Dahmer, che durerà un semestre all’Università dell’Ohio e che in seguito verrà cacciato dall’esercito e da diversi lavori. Dal suo primo omicidio, che avviene nell’estate dopo la fine del liceo, fino alla follia omicida degli anni tra il 1978 e il 1991. Più e più volte Dahmer rischia di essere scoperto: in un’occasione viene addirittura arrestato e condannato a un anno di prigione per molestie a un giovane di quattordici anni, ma il giudice gli ridurrà notevolmente la pena vedendo in lui la buona volontà di rifarsi una vita.
Qualche anno dopo Dahmer ne ucciderà brutalmente il fratello, Konerak, dopo che questi gli era quasi sfuggito e una sua vicina di casa aveva cercato di aiutarlo. Il giovane, minorenne e di origini asiatiche, scappa da casa del suo aggressore in stato confusionale dopo essere stato drogato, e la polizia – dopo essersi fatta rassicurare da Dahmer sul fatto che fosse semplicemente ubriaco (e che abbia più anni di quelli che effettivamente ha), lo riconduce nell’appartamento del killer, sotto lo sguardo incredulo della donna che aveva cercato di salvarlo, Glenda Cleveland. La prospettiva di Glenda risulterà particolarmente importante per diversi episodi: sarà infatti proprio la donna – e i suoi innumerevoli tentativi di richiamare l’attenzione della polizia su Dahmer – a mettere in luce l’incompetenza dei rappresentati della giustizia. Il colore della pelle è stato purtroppo un elemento a sfavore tanto delle vittime come dei numerosi testimoni, che hanno cercato senza successo di farlo incastrare.
Il privilegio di essere bianco
Perché Jeffrey Dahmer non è stato arrestato prima? Quante delle sue vittime si sarebbero potute salvare?
Un momento davvero emblematico è quello in cui la coppia di poliziotti riconduce il giovane Konerak, evidentemente sotto l’effetto di sostanze, nell’appartamento del killer, dopo che lui li ha tranquillizzati dicendogli che si tratta del suo ragazzo, maggiorenne, e che ha semplicemente bevuto troppo.
“Le cose spesso si fanno piccanti“, dice Dahmer, raccontando ai due poliziotti il rapporto, a detta sua un po’ focoso, con Konerak.
“Piccanti perché è asiatico?” chiede ridendo uno dei due, prima di lasciare l’appartamento, dove di lì a poco il ragazzo verrà ucciso e dove si trova già un altro cadavere, seminascosto ai piedi del letto.
La serie riesce particolarmente bene a esprimere l’enorme svantaggio sociale che queste fasce della popolazione – i neri, gli immigrati, gli omosessuali – vivono giorno per giorno. Da una parte abbiamo Dahmer che essendo bianco riesce a sfuggire ai controlli e viene sempre lasciato andare con poco più che un’ammonimento, dall’altra le sue vittime, i testimoni, che non fanno altro che attirare l’attenzione su di lui ma che non vengono ascoltati. Come dicevamo in apertura, un tratto distintivo dei serial killer che “operavano” negli Stati Uniti nello stesso periodo di Dahmer, è il fatto che si concentrassero sulle stesse categorie di persone – estremamente indigenti, prostitute – proprio perché sapevano di poter agire quasi indisturbati, e questo ci fa capire come gran parte del problema risiedesse in un sistema incapace di proteggerli. Il richiamo all’attualità – specialmente per quanto riguarda le difficoltà delle vittime di colore di essere ascoltate da parte delle autorità bianche – non passa certamente inosservato.
Quando la famiglia non può aiutarti
Un altro discorso interessante fatto dalla serie è quello relativo alla famiglia di Dahmer, che a sua volta – pur rendendosi conto delle stranezze del ragazzo, e intuendo dove potessero spingersi le sue pulsioni – non ha mai fatto nulla per fermarlo. Il padre, che è quello che maggiormente si prende cura di lui durante la sua infanzia e la sua giovinezza, non ha gli strumenti adeguati per capirlo e per farlo aiutare. La scena in cui lui prova a confessare il suo primo omicidio e il padre, imbarazzato, cambia discorso spaventato che Jeffrey dovesse parlargli della sua omosessualità, colpisce e lascia lo spettatore con un grande senso di frustrazione. Le più grandi difficoltà di suo padre, ma anche della religiosissima nonna, sono legate alla scoperta che sia omosessuale, non cercando nemmeno di capire se ci fosse altro.
Una sceneggiatura altalenante
La storia è sviluppata in maniera particolarmente intrigante, le varie fasi dell'”educazione criminale” di Dahmer si susseguono e si incastrano infatti in modo piuttosto ingegnoso. Il passaggio da una prospettiva all’altra permette alla storia di essere narrata nella maniera più ampia e completa possibile: a colpire il fatto che Dahmer non venga mai reso affascinante, come spesso accade in storie di questo tipo in cui il protagonista è un personaggio estremamente negativo. Qui ad essere centrali sono sempre le vittime e lo spettatore non empatizza mai con il killer, ma sempre e solo con le persone che ha ucciso. In un determinato episodio in particolare, seguiamo da vicino una delle sue diciassette vittime, Tony, un ragazzo nero e sordo, con cui Dahmer instaurerà un rapporto d’amicizia e sentimentale ma che non avrà, purtroppo, un destino diverso da quello degli altri.
Se gli anni “educativi” di Dahmer, in cui impara come fare il serial killer, sono utili per conoscere la vicenda e, in particolare, per empatizzare con le sue vittime, gli episodi centrali della serie risultano particolarmente diluiti e trascinati. Certe parti ci sono sembrate inutilmente ripetitive: comprensibile l’intento di completezza, ma il rischio è quello di annoiare lo spettatore più che di coinvolgerlo. Siamo certi che, anche comprimendo fatti ed eventi, la narrazione sarebbe potuta risultare comunque d’impatto.
Il cast: Evan Peters sconvolge come Dahmer
Il cuore del racconto è il Jeffrey Dahmer di Evan Peters, quasi camaleontico nell’immergersi nella parte e capace di dare vita a un personaggio per cui, come dicevamo, non riusciamo mai a parteggiare. Anche nei suoi momenti di maggiore debolezza, quando dimostra un minimo di rimorso per quello che ha fatto, c’è sempre qualcosa in lui a renderlo respingente, incapace di creare un vero legame, tanto con chi lo circonda che con lo spettatore che segue la vicenda.
Il cast di contorno risulta convincente, anche se in ruoli con meno spazio rispetto a quello principale: in particolare colpisce Richard Jenkins nel ruolo di suo padre – che vorrebbe stargli vicino ma che prova quasi un senso di repulsione per lui -, Shaun Brown in quello della sua ultima vittima, attorno a cui ruota gran parte del primo episodio (decisamente tra i meglio riusciti dell’intera serie), e Niecy Nash in quello di Glenda Cleveland.
L’attenzione resta comunque per la gran parte del tempo focalizzata su Dahmer e sulle sue macabre azioni. Va sottolineato, anche se non si indugia mai sui dettagli più macabri, che non si tratta di una serie per tutti; i momenti di forte disagio e disgusto non mancano: il caso di Jeffrey Dahmer, quando venne catturato nel 1991, sconvolse l’America e il mondo intero, e la serie cerca di scatenare le stesse emozioni nello spettatore di oggi, che ritrova sullo schermo il risultato delle incontrollabili pulsioni del killer.
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La recensione in breve
Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer è una serie che riesce nel suo intento di raccontare la storia di un serial killer come quella del un contesto socio-culturale che non è stato capace di fermarlo, puntando il dito sulla disparità tra vittime di serie A e di serie B. Una narrazione, però, che si trascina nella parte centrale, risultando in certi casi più tediosa che coinvolgente.
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Voto ScreenWorld