Il count down per Halloween è ufficialmente iniziato. Avete già deciso come passerete la notte più terrificante dell’anno? Ma, soprattutto, in che modo “festeggerete” questo conto alla rovescia? Netflix quest’anno ha pensato a qualcosa di molto interessante, che lascia crescere il brivido di paura lungo la schiena per tutta la settimana che ci accompagna verso Halloween.
Guillermo Del Toro, grande amante dei mondi stregati, gotici e suggestivi, non è solo uno dei registi più amati (e simpatici), ma anche un grande appassionato e conoscitore del genere horror. Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities, in arrivo dal 25 ottobre su Netflix con un rilascio giornaliero di due episodi autoconclusivi fino al giorno 28 (per un totale di otto “mini film”), rappresenta un po’ la summa massima della sua passione. La rappresentazione su schermo dei suoi incubi che tiene ben custoditi nella sua stanza delle meraviglie di Los Angeles, un appartamento adibito a studio/museo che sembra davvero la dimora dei più grandi incubi di tutti i tempi.
Quello di Del Toro è un un esperimento antologico che strizza l’occhio ai Racconti della Cripta e al cinema di Alfred Hitchcock; il regista introduce infatti personalmente ogni episodio, lasciandoci addentrare in questa enorme scatola dove ogni pulsante nascosto contiene un raccapricciante segreto. Un vero e proprio viaggio durante il quale veniamo accompagnati nelle sfumature del genere, dalla ghost story al gotico, passando per il sci-fi fino ad arrivare al body horror.
Otto racconti diversi, ispirati a storie differenti – due delle quali scritte dallo stesso Guillermo Del Toro – sceneggiate e dirette da diversi sceneggiatori, sceneggiatrici, registi e registe. Dall’adattamento dei classici, come per esempio due racconti di Lovecraft (fra gli episodi più suggestivi), a racconti completamente inediti, volti a estremizzare, enfatizzare, giocare con quelli che sono i concetti legati alla paura, alla mortalità, ai vizi e alle virtù. Ognuno con una rappresentazione differente, da quelle più storiche a quelle più attuali, giocando anche con alcuni modelli più moderni come la percezione del proprio aspetto o della bellezza, oppure con concetti più arcaici come la mitologia legata al divino e al mostruoso.
Operazione perfetta per quanto riguarda il periodo, questo è indubbio. Se ricordate, nel 2020 e nel 2021 ci aveva provato anche Jason Blum su Prime Video con il suo Welcome to the Blumhouse, quattro film a “stagione” che oscillavano tra racconti creepypasta, ghoststory, leggende folkloristiche e rivisitazioni. Un peccato che nessuno degli otto film in totale colpisse davvero o, quanto meno, riuscisse a spaventare. Certo, alcune eccezioni erano salvabili anche solo per lo stile registico, ma la maggior parte rasentava la mediocrità.
Per quanto riguarda Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities, invece, la maggior parte degli episodi sono particolarmente soddisfacenti. Nessuno arriva mai a picchi di horror veri e propri, ma mentre alcuni episodi sono in grado di suggestionare particolarmente lo spettatore, altri sono al limite del disturbante, altri ancora giocano più con un mood spooky per chi ama i “piccoli brividi”; alcuni, infine, arrivano addirittura a commuovere.
L’obiettivo è quindi quello di sviscerare l’orrore in ogni sua forma e sfumatura, analizzando il concetto di paura attraverso differenti punti di vista, facendo sicuramente leva sull’emotività, empatia e soggettività dello spettatore. Non a caso, ogni personalità coinvolta nel progetto è perfettamente inserita all’interno della storia che gli è stata associata, cercando proprio di giocare con i punti di forza della loro stessa filmografia.
Certo, non sempre il risultato è ottimale e, come vedremo lungo questa recensione di Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities, alcuni episodi sono più convincenti di altri, penalizzati anche da un minutaggio fin troppo irrisorio. La maggior parte degli episodi raggiunge l’ora, possiamo quindi tranquillamente definirli mediometraggi. Un paio, però, non arrivano a superare i cinquanta minuti. In alcuni casi, la scarsa durata lascia con la sensazione della mancanza di qualcosa, di un pezzo monco, come se la storia non fosse ancora finita, ma neanche completamente iniziata.Un po’ è inevitabile quando si tratta di progetti del genere ma, analizzando in questa recensione di Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities l’opera in toto, sia i suoi aspetti più tecnici che quelli artistici, possiamo affermare come si tratti di una piacevole sorpresa, adatta per tutti i palati, stuzzicante e coinvolgente. Magari un pubblico più esigente e assetato di horror nudo e crudo potrebbe non restare completamente soddisfatto, ma consigliamo di ridimensionare le aspettative e di vivere la serie più come una soft road to Halloween. La vera grande pecca? Nessun episodio diretto dallo stesso Del Toro, che per quanto supervisore dell’intero progetto, lascia un po’ di amaro in bocca. Ma chissà se il futuro per noi non ha in serbo qualche altra sorpresa dalla collaborazione tra Del Toro e Netflix.
Bando alle ciance, andiamo a vedere più nel dettaglio ognuno dei singoli episodi!
Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities
Genere: Horror
Durata: 40-60 minuti ca./8 episodi
Uscita: dal 25 ottobre 2022 su Netflix
Regia: Jennifer Kent, David Prior, Guillermo Navarro, Keith Thomas, Panos Cosmatos, Catherine Hardwicke, Vincenzo Natali, Ana Lily Amirpour.
Lotto 36
Cominciamo a scendere nel merito dei singoli episodi con Lotto 36, episodio che inaugura la serie antologica. Questo nello specifico è diretto da Guillermo Navarro (storico direttore della fotografia di Del Toro), basato su una storia originale di Guillermo Del Toro e sceneggiato dallo stesso Del Toro con Regina Corrado. Un biglietto da visita piuttosto debole; o meglio, mal gestito. Parliamo del film più breve di tutti quelli presentati che ha come protagonista un uomo incattivito dal tempo, dalla perdita e dalla solitudine dovuta a debiti di gioco, che prova ad arricchirsi comprando box di persone ormai morte o che non posso più permettersi l’affitto, sperando di trovare qualcosa che possa svoltargli la vita o, quanto meno, ripagare i debiti accumulati negli anni.
L’incipit del film è molto interessante e ci ricorda la sacra regola di non toccare tavole spiritiche, libri di invocazione e, soprattutto, anche se scettici, di non infilare il naso negli affari del maligno. Ma al di là della superstizione, Lotto 36 è anche una breve metafora sul karma, sul “non fare agli altri quello che non vorresti venisse fatto a te” e che una buona azione oggi può sempre riservare qualcosa per il futuro. Insomma, il classico racconto ricco di sottotesti e rimandi.
Per quanto le atmosfere siano delle più suggestive, giocando con un immaginario macabro e angosciante molto interessante, la narrazione risulta monca. Il film non decolla mai davvero e proprio lì dove forse sarebbe potuto cominciare, finisce.
Vago rimando anche all’ingordigia, al volere troppo dell’essere umano, al non sapersi mai fermare neanche di fronte agli evidenti limiti della natura umana. Come stiamo vedendo, gli elementi simbolici non mancano di certo, è il resto a mancare. Non si fa davvero in tempo a entrare nella storia e a farsi spaventare dalle immagini che compaiono i titoli di coda, dando un vero e proprio schiaffo in faccia allo spettatore che ne resta deluso e anche un po’ arrabbiato.
Il problema principale comunque è di sceneggiatura. La regia è buona, sfrutta infatti bene le location strette e anguste e in modo particolare l’ambientazione impersonale e lurida, così come la luce intermittente. L’interpretazione di Tim Blake Nelson colpisce, l’attore regge su di sé quasi tutta la storia e va detto che il design della creatura è molto bello, decisamente in pieno stile Del Toro. A parte questo, però, in Lotto 36 c’è poco altro di memorabile.
I ratti del cimitero
Sempre alla prima tranche di episodi appartiene il secondo “mini film” di questa inquietante serie antologica, I ratti del cimitero. Questa volta la storia è basata sull’omonimo racconto di uno degli autori che più sono stati influenti nel panorama dell’horror, della fantascienza e del fantasy, ovvero Henry Kuttner. La sceneggiatura e la regia sono state affidate a Vincenzo Natali, spesso alla regia di serie tv o film di stampo horror, come per esempio Hannibal, The Strain o Nell’Erba Alta.
Per quanto lo scenario di questo episodio cambi, la sostanza rimane un po’ quella: chi troppo vuole nulla stringe. Siamo sempre nel territorio allegorico dove l’orrore si fa racconto dei difetti umani, delle scappatoie per poter raggirare l’ostacolo, dell’ipocrisia e del menefreghismo. Soprattutto, ne I ratti del Cimitero si fa leva su quel concetto dove noi siamo più sfortunati degli altri, sempre in qualsiasi occasione e, quindi, anche nel compiere un’azione sbagliata, meritiamo dell’appoggio, della comprensione, perfino dell’aiuto divino. Dipende sempre a “chi” viene chiesto però questo aiuto.
Il nostro Old Masson (David Hewlett) crede di essere il più furbo di tutti, il più scaltro. Fingendosi guardiamo del cimitero, cerca di tenersi fuori dai guai pagando i suoi strozzini con la mercanzia che riesce a ottenere saccheggiando le tombe dei poveri mal capitati sotto le sue grinfie. Masson ha “solo” un grosso problema: i topi. I topi sono diventati una vera piaga per Salem e il corpo non fa in tempo ad essere seppellito che i dannati roditori sono più svelti di chiunque a fargli la festa. Ma Masson, ormai portato allo stremo, decide di spingersi oltre ogni suo terrore, pur di far vedere a quegli esseri chi è che comanda davvero.
Un po’ simile a quello che potrebbe essere un antico penny dreadful, un vecchio racconto dell’orrore, sicuramente l’atmosfera del film di Natali è quella che più ricorda questo periodo dell’anno. Angosciante al punto giusto con quell’atmosfera creepy che piace e con quel gusto un po’ vintage per le creature. Non mancano piccoli momenti più splatter o davvero claustrofobici e perfino qualcuno più ironico o da fiato sospeso. Ci si appassiona subito al protagonista buffone, spinti più dalla curiosità di dove potrebbe spingersi che per una vera e propria affezione. Nulla per cui strapparsi i capelli, ma nel complesso una storia fatta e compiuta, convincente per atmosfera, ambientazione, recitazione e anche con un finale soddisfacente.
L’autopsia
Andiamo avanti e arriviamo al terzo episodio dell’antologia di Guillermo Del Toro, L’autopsia, disponibile sulla piattaforma dal 26 Ottobre. Qui il gotico e la science fiction si fondono per dare vita al racconto più noir della serie. Sicuramente una conferma del crescendo, anche se un po’ come nel caso del primo episodio, resta il retrogusto amarognolo sul finale.
Alla regia troviamo David Prior mentre alla sceneggiatura, lavorando sull’opera originale di un altro grande autore di horror e science fiction come Michael Shea, troviamo David S. Goyer che, nonostante qualche alto e basso, ci ha regalato delle grandi soddisfazioni con Sandman.
Dall’inizio macabro e inquietante, questo episodio comincia con un minatore impazzito, l’esplosione di una bomba e una serie di persone scomparse, alcune delle quali ritrovate a distanza di mesi in un bosco, completamente massacrate e del tutto drenate dal proprio sangue. La situazione appare sempre meno chiara e sempre più inquietante, per questo motivo viene chiamato un medico legale (F. Murray Abraham) per indagare più a fondo su quello che è successo proprio attraverso le recenti vittime dell’esplosone nella miniera. Cosa nascondono davvero quei corpi? Cosa è successo lì sotto? E perché due eventi apparentemente scollegati tra di loro sono, invece, le due micce per qualcosa di più temibile?
Metà episodio è di ricostruzione. L’altra metà è ambientata in un obitorio. Come detto prima, l’episodio sicuramente più morboso dell’intera antologia, dove non ci si risparmia sui dettagli raccapricciati. Il livello di recitazione è altissimo e anche l’atmosfera viene resa molto bene, immersiva e oscura. La parte dedicata alla ricostruzione è forse un po’ troppo anticlimatica, cosa che fa sì che si arrivi alla parte più interessante del film un po’ appesantiti, per quanto parliamo sempre di un’oretta di narrazione totale. Forse il vero problema di questa storia è l’averci inserito troppi elementi che inizialmente ce la dipingono come un thriller noir ma, successivamente, capiamo essere tutt’altro genere.
Sicuramente inaspettato il plot twist, eppure ciò che riserva il finale non convince fino in fondo. Vediamo una progressiva crescita di dettagli, regia e inquietudine. Eppure ancora una volta si ha la sensazione che il tempo non sia sufficiente per riuscire davvero ad andare in profondità e non solo scalfire. Gli elementi raccapriccianti non bastano, e per quanto in più di un momento il silenzio e il buio possano giocare cattivi scherzi in chi sta guardando, va anche detto che ci si aspetta di spingersi un pochino oltre… ai confini della realtà.
L’apparenza
Addentriamoci nelle terre del perturbante con uno degli episodi più soddisfacenti dell’antologia: il 26 ottobre arriva anche L’apparenza di Ana Lily Amirpour. La storia è basata su un racconto della fumettista Emily Carroll, ed è la perfetta rappresentazione non solo del cinema della Amirpour ma anche della potenza del concetto di orrore declinato ai nostri giorni.
Davvero disturbante, quasi visionario, a tratti ricordando il Requiem for a Dream di Aronofsky. Protagonista un’irriconoscibile Kate Minucci nei panni di una donna particolarmente ordinaria e monotona che divide il suo tempo con un lavoro da impiegata in posta, televisione in costante loop di televendite e la tassidermia. Tra cibi precotti e un matrimonio stantio, le giornate trascorrono nella più totale apatia, eppure qualcosa sta per cambiare. Dopo anni di indifferenza, additata da tutti come “la strana”, viene invitata alla festa privata di Natale di alcune colleghe di lavoro: donne apparentemente perfette, belle, sempre ben vestite, toniche e fissata con la chirurgia. Le viene regala una crema miracolosa e molto costosa che le causa subito una strana reazione, costringendola tra l’imbarazzo e gli sbeffeggi a tornare a casa.
Ed è proprio qui che Ana Lily Amirpour ci lascia sprofondare in un disturbante incubo a occhi aperti di televisori parlanti, creme simili a blob e paranoia dilagante, portando la protagonista a una vera e propria ascesa di ossessione nei confronti di uno standard di bellezza canonico. Stanca di essere strana, fuori moda, brutta, nonostante il dolore, l’irritazione, la pelle che brucia e che si scioglie sotto la grigiastra lozione, il processo di “guarigione” è appena iniziato. Cavalcando un po’ la scia romeriana di omologazione alla massa e quel perturbante tipico delle cinematografia lynchana, Ana Lily Amirpour gioca con le paturnie, le ossessioni, gli standard, la mercificazione del corpo e l’ideologia del bello facendo sentire tutto il resto sbagliato, imperfetto, mostruoso. Il corpo della donna viene fatto a pezzi alla ricerca di un’ideale di bellezza esteriore che si sposa con una mostruosità interiore feroce, violenta, assassina. Cosa si è disposti a fare pur di raggiungere il proprio scopo?
L’apparenza mantiene la sospensione un po’ in bilico tra realtà e onirico, senza rispondere mai pienamente alla domanda e lasciando che il racconto proceda su una scia di pura ambiguità. Largo uso di fish eye, immagini distorte e visioni contrastanti che creano un magnifico effetto immersivo e suggestivo. Il racconto più tagliente, cinico e feroce dal punto di vista intellettuale raccolto in questa antologia. Davvero carico e ispirato. Più grottesco che gotico ma sicuramente ben più terrificante di quanto visto finora.
Il modello di Pickam
La terza tranche è quella dedicata ai racconti di Lovecraft, cominciando con Il modello di Pickman per la regia di Keith Thomas. E partiamo anche con un altro degli episodi più interessanti degli otto presentati in Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities.
Certo, quando si parla di incubi, orrori e inquietudine, Lovecraft è senza ombra di dubbio il re assoluto. Bisogna però vedere come tutto questo viene trasposto. Per fortuna ci siamo affidati a Keith Thomas che dimostra, per la seconda volta, che l’horror è la sua dimensione. Non a caso i “vestiti” di Firestarter gli andavano molto stretti, ma così come in The Vigil, anche in questo mini film tutta la sua grande conoscenza e amore per il genere viene fuori. La narrazione segue un giovane e promettente pittore (Ben Barnes), studente del reparto d’arte della Miskatonic University, la cui fama lo precede per essere uno dei migliori ritrattisti. Eppure Thurber, per quanto sembri avere già un destino scritto, non è mai troppo soddisfatto ed è alla continua ricerca di nuovi stimoli. Forse è per questo che la strana e orrorifica arte di un muovo studente, Mr. Pickman (Crispin Glover), lo affascina così tanto ma, al tempo stesso, lo spaventa. Se in un primo momento l’amicizia tra Thurber e Pickman sembra l’inizio di un nuovo sodalizio tra due grandi artisti, l’arte di Pickman comincia a manifestarsi in maniera davvero strana, assurda e grottesca, dando l’impressione a Thurber di essere un vero e proprio passaggio per gli inferi.
A scuola viene insegnato a disegnare, dipingere, catturare solo quello che si conosce, ed è esattamente quello che fa Pickman: mostruosità, orrori, demoni derivanti dal suo passato e un terribile legame con del sangue marcio. Questo ben presto arriverà a ossessionare a tal punto Thurber da allontanarsi dall’amico, ma perderà gradualmente il senno, provando disperatamente con tutto se stesso a mettere la parola fine a tutto questo orrore.
Così come Lovecraft è sempre stato abile a raffigurare le grandi divinità del passato, le presenze che vanno al di là del velo e che rappresentano le più feroci pulsioni dell’essere umano, Keith Thomas è altrettanto bravo a restituire tutto questo su schermo, in un vero e proprio incubo a occhi aperti, tra ossessioni, frenesia e raccapriccianti scenari e visioni. Un ritorno agli anni ’20 del 900 in una chiave pittoresca, gotica e barocca. Scenari macabri dove la mente viene messa a dura prova, spezzata, divisa tra la ragione e il terrore e dove la vera faccia dell’essere umano supera di gran lunga qualsiasi tipo di orrore si possa immaginare. Dalla regia alla scrittura, passando per recitazione e ambientazione, Il modello di Pickman è l’episodio più terrificante, halloweenesca e perfettamente in mood con l’antologia di Del Toro. L’unico vero difetto è la CGI riservata per un elemento che non convince fino in fondo.
I sogni della casa stregata
Sempre restando su Lovecraft, sempre restando al 27 ottobre, arriva un altro racconto piuttosto classico, I sogni della casa stregata, questa volta diretto da Catherine Hardwicke.
Direttamente dal ciclo dei Miti di Chtulhu, questa storia vede come protagonista un altro ossessionato: Walter Gilman (Rupert Grint). L’ossessione di Walter? Portare indietro sua sorella dal mondo dei morti. Quando erano bambini, infatti, Walter aveva promesso a sua sorella di proteggerla da qualsiasi cosa, ma cosa può un bambino o un uomo contro la morte? Nulla. Eppure Walter non si è mai dato per vinto, dedicando la sua intera esistenza alla ricerca di un portale, un ponte, un qualsiasi punto di contatto per riportare indietro sua sorella.
Alla fine riuscirà nell’intento, o quasi, ma a quale prezzo? Quello di stuzzicare un’entità potente e terribile come la strega Keziah Mason, accompagnata dal suo inquietante (più per la CGI che per altro) famiglio Brown Jenkin.
A differenza dell’episodio precedente, questo ci viene raccontato più come una favola nera. Lovecraft si respira sì, ma fino a un certo punto. Quello che effettivamente resta allo spettatore, eccezion fatta anche qui per delle ambientazione gotiche, è quella sensazione classica dei film mainstream. L’episodio comincia bene, ma si perde strada facendo.
Preferisce soffermarsi sui dettagli, sull’apparenza, sulla scenicità dei luoghi stregati, ma mai davvero sul provare a inquietare lo spettatore. Una regia poco addentra al genere, ma ben più strutturata sul cinema di pura apparenza.
Narrativamente, ricorda ancora una volta che certi mali non andrebbero mai disturbarti, al di là della ragione. Il dolore può portarci su cammini tortuosi e disseminati di oscure tentazioni, ma a maneggiare fin troppo il male si finisce per esserne contagiati. Certo, se siete dei conoscitori di Lovecraft a questo ci arrivate anche da soli, ma alla fine la storia è così semplice che non ci vuole chissà quale grande chiave di lettura interpretativa. Dispiace però che il racconto non riesca a coinvolgere fino in fondo. O forse ci riesce, ma solo con un pubblico più impressionabile e suscettibile. Magari sempre nell’atmosfera da “piccoli brividi”, l’episodio può risultare convincente. Non è sicuramente al livello di insoddisfazione del primo, ma neanche così pienamente soddisfacente come il precedente.
La rappresentazione di Keziah gioca un po’ con lo stile vintage dell’horror old school, volutamente imperfetta. Fa la sua figura ma dopo un po’ risulta stucchevole, facendola apparire sullo schermo un po’ troppo spesso, senza regalare il vero effetto sorpresa ma abusando del jumpscare.
La visita
Avvicinandoci alla chiusure di questa recensione di Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities, arriviamo al 28 ottobre con gli ultimi due mini film. Cominciamo con quello che indubbiamente ci ha convinto di meno e che più ci ha lasciato perplessi, La visita. Opera originale dell’italo-canadese Panos Cosmatos (che forse conoscerete per il particolarissimo Mandy), è un film ambientato alla fine degli anni ’70 dove un gruppo di persone apparentemente differenti viene convocata nella grande casa di un ricchissimo uomo di potere.
Non è ben chiaro cosa un uomo di questo tipo cerchi da un musicista, uno scrittore, una scienziata e un mentalista, ma la serata ci darà modo di scoprirlo.
In realtà la serata ci viene anche fin troppo esposta, presentandoci il problema del primo episodio: si finisce dove bisognerebbe cominciare. E se il primo episodio possiamo scusarlo perché a disposizione c’erano solo 40 minuti, i 60 minuti di questo non aiutano a giustificarlo. Provando quasi a reinterpretare la lezione di David Cronenberg, usando però i linguaggio dello “space horror”, Cosmatos ci presenta un racconto che prende un po’ per sfinimento. Inizialmente si è anche curiosi di sapere dove la storia vuole andare a parare, ma ben presto ci si rende conto che non ci importa davvero, arrivando ormai sul finale quasi assopiti, venendo successivamente ridestati da qualcosa che… Mah, difficile trovare le parole. Sicuramente non vogliamo rovinarvi troppo la sorpresa (anche perché altrimenti non ci sarebbero altri “validi” motivi per guardare questo episodio).
I personaggi sono appena abbozzati, anche solo per dare l’idea di ambiguità e assurdità della situazione. Il tutto per lo più è girato in una stanza. Sicuramente la creatività prende il sopravvento nel momento del “tu per tu”, mentre per il resto la regia si mantiene abbastanza piatta. Si fa molto affidamento sul dialogo, ma a conti fatti ciò che resta è niente. Sono discorsi vuoti volti a prendere tempo prima di arrivare alla grande “sorpresona”. Viene spontaneo chiedersi perché perdere così tanto tempo. Vista anche la presentazione dell’episodio, in questo caso un minutaggio più asciutto avrebbe reso più calzante ed efficace la narrazione. In questo caso, invece, non si capisce neanche bene cosa si voglia davvero raccontare. Una storia che effettivamente con tutto il resto ha ben poco da spartire. Un po’ l’intruso. Una vera delusione!
Il brusio
Spetta a Jennifer Kent chiudere Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities, sempre il 28 ottobre, con la trasposizione di una ghost story scritta dallo stesso Del Toro, Il brusio. Una chiusura forse un po’ sottotono per quello che è l’episodio più emozionante e provante, ma al tempo stesso anche uno di quelli che potrebbe fare più leva sul pubblico impressionabile. Protagonisti una coppia di ornitologi, Nancy ed Edgar, che si recano in un luogo isolato dal resto nel mondo per poter studiare da vicino i comportamenti dei piovanello. Ad attenderli c’è una casa tanto bella quanto antica, che i custodi della sponda vicina fanno trovare alla coppia per rendere più confortevole il loro soggiorno isolato, portando ogni settimana provviste di cibo. I due sono per lo più impegnati a studiare i comportamenti degli uccelli, scovando delle bizzarrie proprio nei confronti della casa. La coppia però, più che un marito e una moglie, sembrano quasi due amici di vecchia data, logorati da un dolore comune che nessuno dei due trova le parole per esprimere. Mentre Edgar, più passionale, cerca un modo per avvicinarsi alla moglie, Nancy è completamente chiusa nel suo mondo, dove solo i suoi piovanelli riescono a darle gioia. Ed è proprio nell’attento ascolto degli uccelli che Nancy noterà qualcosa di strano in quella casa, qualcosa sul suo passato che non le è stato detto e che in qualche modo la lega in una maniera così intima, così dolorosa ma anche orrenda.
L’odore della morte, il richiamo dell’orrore, un suono spaventoso e nostalgico, come le urla di una madre sull’orlo della disperazione. Jennifer Kent, torna a raccontare di maternità, questa volta però lo fa con una tenerezza quasi struggente, riuscendo a bilanciare benissimo l’elemento di suspense e inquietudine con quello raffigurato dal vuoto dentro la sua protagonista. Il silenzio, l’oscurità vengono sfruttati benissimo, gestendo la tensione dall’inizio alla fine. Impressionando perfino e, forse, riuscendo a far saltare dal divano o dalla sedia per qualche secondo. Al tempo stesso si srotola anche un racconto famigliare, una storia che è perfino più terribile di un’ipotetica presenza ultraterrena.
Un racconto forse troppo delicato per chiudere un’antologia di questo tipo, ma che comunque tocca in maniera molto interessante il genere della ghost story, inquietando ed emozionando. Fantasmi del passato che chiedono di essere affrontati per poi essere liberati. Chiedono di essere lasciati andare, perdonati, di avere una seconda possibilità e soprattutto dare ai vivi una seconda occasione. Sicuramente il racconto con il finale più positivo tra gli otto visti che compongono Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities (ma anche degli orrori). Del resto, anche il lutto, il dolore, la perdita fanno parte dell’essere umano. E così come c’è chi li affronta spargendo altro dolore, c’è invece chi decide di darsi davvero una seconda occasione, a suo modo, col suo tempo.
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La recensione in breve
Guillermo del Toro's Cabinet of Curiosities riesce, nella sua differenza tra episodi più convincenti ed episodi che avrebbero avuto bisogno di un minutaggio più esteso, ad intrattenere, suggestionare e regalare piccoli ed inquietanti brividi. Storie che nascondono metafore e morali, che insistono sui vizi e difetti degli uomini o che semplicemente vogliono raccontare di fantasmi, ricordi e nostalgia. Di paure, ossessioni e traumi. Nel complesso un'opera variegata dalla buona resa visiva e con qualche sbilanciamento narrativo ma che riesce perfettamente nel suo intento: inquietare.
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Voto Screenworld