It’s showtime!
La vita di James McGill non è stata altro che uno show. Uno spettacolo in cui il nostro protagonista ha interpretato diversi personaggi: James, Slippin’ Jimmy, Jimmy, Viktor, Saul, Gene, prestando fede alla sua dimensione di attore, sia come persona che racchiude in sé diversi personaggi, sia come motore degli eventi. Si potrebbe riassumere tutta la storia vista in Better Call Saul, la straordinaria serie di Vince Gilligan e Peter Gould che si è conclusa con il tredicesimo episodio della sesta stagione, come la ricerca ostinata di un uomo di essere protagonista, di avere i riflettori puntati addosso, di essere l’attore degno di premio sul palcoscenico. “It’s showtime, folks!“: se lo diceva ad alta voce prima di ogni processo, di ogni spot pubblicitario costruito ad hoc, prima di ogni truffa basata su personaggi inventati e lunghi racconti. Ora è il lungo racconto della vita di Jimmy, alias Saul Goodman, che è giunto al termine. E il sipario che si è chiuso non ha lasciato possibilità di replica. Nessun bis all’orizzonte, il tempo dello show è finito, così come lascia presagire il titolo dell’episodio: Saul’s Gone, cioè Saul se n’è andato, ma che diventa per assonanza anche It’s all gone, è tutto finito.
La serie, da noi disponibile su Netflix, si è conclusa con un epilogo che ha il sapore di una chiamata alla ribalta. Quella era la direzione che la storia aveva intrapreso, da quando, alla fine dello scorso episodio, il passato di Gene veniva scoperto da Marion rompendo definitivamente quell’equilibrio di una nuova vita in Nebraska che lui stesso stava mettendo a rischio con le ultime truffe. Ed è così che ci ritroviamo ad assistere agli ultimi 80 minuti di una storia che non ci ha lasciato indifferenti e che, come in Breaking Bad prima, ci ha regalato un personaggio tragico e tridimensionale che resterà nella nostra memoria. E proprio di memoria, di tempo, di direzioni e di rimpianti parleremo, con spoiler, tra poco, analizzando il significato del finale di Better Call Saul, che siamo certi potrà far discutere gli spettatori, ma che si dimostra l’unica conclusione possibile a una storia intrisa di nostalgia e sensi di colpa.
La fine di Saul
Che il nostro amato Saul Goodman fosse finito da un pezzo non lo dimostrava solo la nuova vita con il nome di Gene Takavic, manager di un punto vendita Cinnabon di un centro commerciale. Anche quando il richiamo delle truffe, in compagnia di Jeff e Buddy, si è fatto troppo forte per essere ignorato, il nostro protagonista non sembrava lo spigliato e simpatico avvocato di quartiere, ma un vero e proprio criminale, sin troppo sicuro di sé. Nell’episodio precedente due momenti hanno sancito una vera e propria rottura nei confronti del pubblico, che ha faticato a ritrovare la personalità a cui, dopotutto, voleva bene. Il primo, quando Gene per fuggire dalla casa del truffato malato di cancro è tentato da farsi strada colpendo la testa del malcapitato con il vaso contenente le ceneri del cane. Il secondo, ben più grave, quando arrotola il filo del telefono intorno alle mani, come se fosse pronto a strangolare crudelmente la vecchia Marion, che aveva scoperto la sua vera identità. Due momenti che hanno, in maniera schietta e diretta, comunicato agli spettatori che Saul era morto.
Salvo poi tornare brevemente a questa puntata finale. Sin dal momento in cui telefona all’avvocato Oakley riconosciamo la voce di Saul, il suo tono sprezzante del pericolo e sicuro di sé. Lo notiamo nell’atteggiamento, nel modo in cui sembra riavere le redini della storia e del suo destino, mentre stipula un accordo con l’accusa per evitare un ergastolo e 190 anni di carcere. E, anche se rappresentato in un triste e pallido bianco e nero, lo si capisce dai colori sgargianti degli abiti che indossa durante il processo, nel quale vuole continuare a essere chiamato Saul Goodman. Perché, in quel momento, “it’s all good, man” (“va tutto bene, amico”). Ma è l’ennesima prova d’attore di una persona ormai stanca di recitare.
Con un vero e proprio coup de théâtre Jimmy si toglie gli abiti di Saul e sceglie di cambiare direzione nella sua vita. Uccide il suo personaggio più celebre e decide di concludere una farsa che sembrava durare da troppo tempo, sino a snaturarlo. Rimasto completamente solo (eccezionale la dissolvenza tra l’uomo seduto e il paesaggio desolato, come un’immagine può descrivere tutto un personaggio e la sua realtà), ormai Jimmy può solo accettare le conseguenze delle sue azioni, togliersi la maschera e tornare a essere semplicemente il fallibile (se non fallito) uomo James McGill.
Cambiare direzione
Elemento tematico preponderante in questo episodio, la scelta di questo cambio di direzione appare una chiusura di un cerchio rimandata troppo a lungo da parte di James. E, ancora una volta, il cuore del cambiamento avviene attraverso quel personaggio che è sempre stato un faro per tutti: il fratello Chuck. Viene così ripresa una scena vista nei primi episodi della serie, quando Jimmy appariva come un incompreso simple man che non riusciva a sentirsi redento per gli errori passati e trovare la sua strada, esprimendo il suo vero valore.
In una serie che, soprattutto in questa seconda metà di stagione, sembrava portare i personaggi verso un’unica narrativa possibile, un’unica direzione (e quanto sono bravi Gilligan e Gould a costruire storie di questo tipo, dove, quando accadono determinati eventi, il tutto prende una piega inarrestabile e il destino dei personaggi sembra inevitabile, per quanto possano provare a evitarlo), il cambio repentino di Saul, che, dopo aver mandato a monte il processo previsto, con aria fiera accetta le proprie responsabilità dicendo “Il nome è James McGill” è allo stesso tempo un’epifania per il personaggio, la svolta individuale a lungo attesa, e paradossalmente la conclusione più naturale per le sue vicende.
Ci è voluto del tempo per ascoltare quel consiglio pronunciato dal fratello, quasi un fantasma inascoltato (l’ultima immagine, sfocata, sembra dare a Chuck una caratterizzazione da spirito guida, svanito nella memoria e improvvisamente riapparso), ma Jimmy gli ha dato retta, accettando il fatto, in maniera subliminale, che Chuck, Howard e gli altri suoi “avversari” di un tempo avevano sempre avuto ragione. Tutto ciò che sembrava un rapporto di odio tra fratelli era in realtà un legame d’amore fatto però di incomprensioni, rimorsi, incomunicabilità. E così come Jimmy avrebbe tanto voluto una macchina del tempo, così in maniera silenziosa anche il fratello condivideva questo impossibile desiderio. Forse per sistemare le cose. Forse per impedire che la storia prendesse quella direzione.
Era solo questione di tempo
Due volte assistiamo a dialoghi simili in questo episodio, che riguardano la possibilità di avere una macchina del tempo. La prima, durante la lunga camminata nel deserto con i soldi di Lalo, è una conversazione che avviene tra Mike e Saul. Due personaggi che, nel corso della serie, si sono visti incrociare le loro storie parallele un paio di volte, ma che rappresentano la stessa tragedia: quella di un uomo che vuole fare del bene e viene divorato, a causa di suoi errori, in una spirale sempre più profonda di malavita. Per Mike il momento che ha dato inizio a tutto è stata la prima mazzetta, la prima crepa di una dura etica professionale. La seconda, invece, ha come protagonista Walter White, che viaggerebbe nel tempo per impedire la sua uscita dalla Gray Matter Technologies, società che aveva creato e che ha reso miliardari i suoi ex-amici, colleghi e partner. Ma è proprio il protagonista di Breaking Bad che, anche in maniera un po’ piccata, getta luce negli occhi di Saul, dicendogli che invece di “macchina del tempo” bisognerebbe essere più onesti e chiamare le cose con il loro nome: rimpianti.
E, a ben vedere, la storia di Jimmy è una storia intrisa di rimpianti e dei ricordi di un tempo perduto costantemente inseguito. Lo era quando cercava di ritrovare quella complicità giovanile con Marco, lo è stato quando nei panni di Gene ha sentito il brivido di tornare “il migliore”, comportandosi pure da bambino mai cresciuto nel cercare di far sentire in colpa Kim di averlo lasciato, e quindi di aver perso quel tempo idilliaco composto da vecchi film alla tv e complicità, anche sessuale.
Tutta la serie usa il tempo come metafora della storia di Jimmy. Sin dal primissimo episodio le pause per dar spazio alla pubblicità (in America la serie era trasmessa sul canale AMC), quegli stacchi sul nero improvvisi, sembravano tagliare al momento sbagliato la scena (sempre un attimo prima del previsto). Lo stesso avveniva durante la sigla, che nel corso delle stagioni si è fatta via via più rovinata, come se fossimo arrivati alla fine del nastro magnetico di una vecchia videocassetta, sino agli ultimi episodi in cui il nastro, ormai smagnetizzato, è arrivato alla fine. Tempo interrotto, dentro e fuori la storia, che definiva la mancanza di fluidità e quindi di serenità. Invece che tornare indietro nel tempo o di riavvolgere un unico nastro, la storia di Jimmy è una storia di frammenti, come le storie che racconta per risultare credibile, ognuna spezzata e che spezza, dando vita a una vita di rimpianti che si accumulano. Accade così anche nell’inquadratura finale, con il muro della prigione che chiude come le tende di un sipario in maniera definitiva il one man show di Jimmy McGill. Anche in questo caso non c’è spazio per un minimo di respiro: la serie finisce appena la figura umana scompare, quasi un attimo prima di quello che vorremmo.
L’ultimo barlume di colore
È un mondo in bianco e nero quello in cui si conclude la vicenda del protagonista. Un bianco e nero che contrasta con il mondo iper-colorato della serie, che rappresentava al meglio il carattere spavaldo e sicuro di Saul. Il presente, in cui abbiamo assistito alla vita di Gene, è troppo monotono (e monocromatico), il passato è rappresentato a colori, come un mondo che ormai appartiene ai ricordi felici dei “bei vecchi tempi”. Lo abbiamo visto nell’episodio scorso, mentre gli occhiali di Gene riflettevano gli spot pubblicitari di Saul Goodman, piccole proiezioni di un tempo fissato nella memoria.
L’ultimo barlume di colore della serie lo abbiamo nella punta della sigaretta accesa che Kim e Jimmy fumano all’interno della stanza della prigione. Proprio in quell’abitudine appartenente al passato, in quel fumo inspirato che aveva costruito la coppia, si ritrova l’innocenza e la normalità di due vite cambiate dallo scontro e dalle azioni. Se ci fosse una macchina del tempo, questa sarebbe la sigaretta accesa. È un finale dolceamaro per Jimmy, che in ogni caso non disdegna quel lato caratteriale ottimista parlando di sconto sulla pena per buona condotta, e Kim, ormai capace di affrontare una nuova vita e ricominciare (anche lei viene finalmente a patti col peso del passato).
C’è poi un’ultima nota di colore, sebbene non visiva. Come un grande attore, anche Jimmy verrà ricordato per l’interpretazione più celebre e celebrata, quella dell’avvocato Saul Goodman, che al netto del suo essere borderline con la legge era riuscito comunque ad aiutare e difendere altre persone. Ed è così che viene acclamato dagli altri carcerati durante il viaggio verso la prigione. Nonostante tutto, Jimmy è riuscito a diventare una figura di riferimento nella sua professione, anche se chi lo acclama non è esattamente la tipologia di clienti che poteva avere alla HHM. Sono gli applausi virtuali che Jimmy si prende, la chiamata alla ribalta a cui è costretto, inizialmente anche controvoglia, a inchinarsi.
Jimmy fa finta di sparare con le dita, un gesto che usava spesso nei panni di Saul Goodman. Forse ha vinto finalmente i suoi rimpianti.
Il nastro è finito, il tempo può tornare a scorrere nel presente.
Sipario.
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