Fin dall’infanzia passata nella campagna della prefettura di Gifu, Junji Itō fa esperienza nel mondo dell’horror grazie alle sorelle maggiori, che lo introducono a colossi del genere, come i mangaka Kazuo Umezu, Katsuhiro Otomo e lo scrittore statunitense H. P. Lovecraft, da cui dichiarerà apertamente di aver preso ispirazione per alcune delle sue opere più intricate e inquietanti. Autore molto prolifico, si occupa di racconti sparsi così come di antologie di episodi autoconclusivi, sempre accomunati da un leitmotiv simile, che segue la scia di ciò che è disturbante, disgustoso, grottesco e macabro. Proprio per questo la sua cifra stilistica sono i racconti body horror: un sotto-genere dell’horror in cui il terrore e la paura vengono generati attraverso la rappresentazione di deformità fisiche nel corpo, come mutazioni genetiche, ma anche malattie e mutilazioni.
Questa passione nasce in Junji Itō da una paura generale per tutto ciò che riguarda l’essere umano, sia a livello fisico che interiore. Lui stesso si dichiara molto turbato dalle deformazioni, le quali si prestano particolarmente bene all’orrido esteticamente e concettualmente, portando a quella che crede essere una correlazione con il suo precedente impiego come odontotecnico, che gli ha fornito utili competenze anatomiche dal punto di vista artistico. Afferma che il suo obbiettivo sia quello di creare qualcosa di così superbamente grottesco da diventare meraviglioso, trasmettendo la sensazione di un’ansia in espansione continua. Con le sue opere cartacee centra dritto il punto ma, come vedremo nel proseguo dell’articolo, l’adattamento di Netflix con la serie Junji Itō Maniac, non riesce assolutamente a rendergli giustizia.
Gli incubi perturbanti di Junji Itō
La forza del mangaka non sono tanto le trame, quanto i disegni e il fatto che siano in bianco e nero, creando immediatamente una sensazione angosciante e quasi malinconica. La controparte animata non raggiunge lo stile visivo e si perde completamente l’eccellente tecnica nella realizzazione delle tavole, ciò che rende più potente l’artista. I manga sono spesso lunghi, ma i dialoghi, così come le azioni, sono essenziali. Junji Itō sceglie di concentrarsi più sul tratto: la profondità delle ambientazioni, ma ancora di più le espressioni. Lascia pagine intere ai volti inorriditi, assenza completa di dialogo ma primi piani minuziosi e potenti, su cui il lettore può e deve soffermarsi per apprezzare a pieno la sua maestria nell’arte del fumetto e per poter entrare nella bolla della narrazione.
Dalle sue raccolte di racconti brevi, come Brivido e altri racconti, si riesce a capire a pieno l’essenza del suo talento e l’abilità nel passare da un sottogenere all’altro: contiene il racconto puramente horror, quello weird, fantascientifico, disgustoso. Se ci si approccia a Itō per la prima volta, è questa l’opera adatta da cui iniziare per poter prendere confidenza con le ambientazioni e soprattutto con i suoi personaggi malati, ossessivi e capricciosi, spesso vittime di forze soprannaturali malvagie, ma che permettono alle storie di andare avanti. Nel racconto è necessario che i protagonisti si invischino in contesti estremi e un personaggio psicotico agevola la progressione narrativa. Tra i temi ricorrenti delle opere del mangaka troviamo l’imprevedibilità, l’immoralità, l’invidia. Poi ancora la rottura della società e l’inevitabilità della morte, presenza costante su cui si può dire che l’artista sia riuscito a sfogare la propria fantasia, trovando sempre qualche modo assurdo e grottesco per tagliare il filo della vita dei suoi personaggi.
Junji Itō si aggiudica il titolo di maestro dell’horror, perché questo genere è forse il più difficile da realizzare a fumetti. Non si ha a disposizione l’uso smisurato della parola che carica il lettore di suggestioni, non ci sono musica o suoni che possano suscitare inquietudine o i trucchi di montaggio come i jumpscare. Itō è capace di penetrare a fondo la psiche umana giocando con l’atmosfera. In Gliceridici troviamo in un ambiente completamente oleoso, le pareti colano grasso e le persone stesse trasudano olio. Il lettore riesce a immedesimarsi al punto da sentirsi unto, o ancora da sentire il tanfo putrido che si propaga nell’isola di Gyo, invasa da pesci decomposti che camminano grazie a un supporto tecnologico, seminando il panico. È un maestro nel mettere in scena l’orrore dal punto di vista tecnico. Le tavole sono realizzate con un ritmo tale da suscitare le palpitazioni nel lettore.
Cosa non va con la serie
Tra i problemi principali della serie spiccano tre aspetti: struttura, selezione delle opere e scelte stilistiche. Con una menzione speciale che va anche alla colonna sonora – spesso inadatta – e al doppiaggio scadente. L’idea di dividere le storie in episodi da venti o addirittura dieci minuti non si presta bene alla poetica di Itō. Sì, tra le sue opere migliori si è parlato di racconti brevi, ma nella versione manga l’autore ottiene magistralmente quell’ansia crescente della storia che si costruisce tassello dopo tassello seguendo le sequenze di tavole che si incastrano. Prendiamo ad esempio un manga come il celebre Tomie. Non solo è composto da più di 700 pagine di disegni, ma è a sua volta suddiviso in addirittura venti episodi.
È così che il lettore riesce a immergersi completamente nella storia, un loop infinito dal quale non esiste via di scampo. Per almeno venti volte vediamo la protagonista morire in maniera sempre più cruenta: fa innamorare i personaggi portandoli a una disperazione e follia tali da non riuscire a resistere all’impulso di farla a pezzi. Da essi la vediamo rinascere e moltiplicarsi in continuazione fino a quasi un’invasione mostruosa. Un’idea affascinante che si basa su una spirale senza inizio e senza fine, il mito dell’eterno ritorno. Se si estrapola un singolo episodio di questi venti togliendo completamente la componente principe del loop, non rimane niente: l’opera si appiattisce e diventa inconcludente.
Forse il tentativo dello Studio Deen, che aveva già lavorato a Junji Itō Collection, era quello di proporre più materiale possibile da un repertorio così ampio per accontentare i gusti del pubblico. Riprende Soichi, Palloncini appesi -basato su un sogno che Itō fece da bambino-, Oggetti trascinati a riva, alcuni dei preferiti in assoluto dal pubblico. Tuttavia, probabilmente anche a causa del budget molto limitato, si perde il filo conduttore del piano narrativo e la resa è pessima. Gli episodi riescono inefficaci e addirittura abbastanza noiosi da far innervosire gli appassionati e da allontanare i novizi, lasciandoli solo con un grande punto interrogativo. Diventa difficile per uno spettatore, in particolare che si approccia a Itō per la prima volta, riuscire a superare lo scoglio del primo episodio, forse il peggiore dei dodici.
Se si cerca una trama complessa o una costruzione approfondita dei personaggi, Junji Itō non è l’autore adatto, ma la sua forza estetica, la rappresentazione del grottesco e del body horror, così come il disagio e il disgusto, sono veramente difficili da raggiungere. Per questo una trasposizione animata diventa estremamente rischiosa senza il budget che il prodotto si merita. La speranza è l’ultima a morire e non resta che aggrapparci alla serie tratta da Uzumaki, affidata allo Studio Drive e rimandata, ormai per la quarta volta, al 2024.
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