C’è un tempo lento, quasi sospeso, che abita ogni film dello Studio Ghibli. Un tempo che non si lascia frammentare, che rifiuta l’urgenza e l’episodicità. Non stupisce, allora, che Hayao Miyazaki si sia sempre tenuto lontano dalla produzione di serie anime. Non per paura del cambiamento, ma per fedeltà alla sua idea di animazione.

Tuttavia, nel 2014 lo Studio Ghibli compie un passo inatteso, varcando una soglia fino ad allora mai oltrepassata. Per la prima – e finora unica – volta, il team nipponico si affaccia al mondo della serialità televisiva con Sanzoku no Musume Ronia (Ronja, la figlia del brigante), diretta da Goro Miyazaki, che sarà disponibile in Italia su RaiKids a brevissimo. La serie, tratta da un romanzo della scrittrice svedese Astrid Lindgren e coprodotta con Polygon Pictures e l’emittente NHK, si affida a una computer grafica 3D, il che segna una ulteriore deviazione dalle consuete tecniche dello studio.

Ronja, la figlia della CGI

Ronja, la figlia del brigante - amazon.it
Ronja, la figlia del brigante – amazon.it
Dichiarazione

“Il mondo sta cambiando. Non possiamo impedire alla CGI di prendere il sopravvento sui film d’animazione.” – Toshio Suzuki

Accolta con favore – e addirittura premiata con un International Emmy Kids Award – Ronja, la figlia del brigante fa sua l’anima ghibliana, educando lo spettatore al rispetto per la natura. Lo sguardo infantile come chiave d’accesso al mondo, ma anche il conflitto sottile tra l’essere umano e ciò che lo circonda, tutte eredità dell’ideologia di Miyazaki. Eppure, nonostante le ottime premesse, la serie resta un episodio isolato. Goro stesso, all’epoca, confessò le difficoltà incontrate nel tentativo di preservare lo poetica ghibliana sotto la pressione della serializzazione, i cui ritmi sono diversi dalla creazione di un lungometraggio. Tant’è che quell’esperienza non fu l’alba di un nuovo cammino, bensì piuttosto una parentesi creativa.

E tale parentesi di 26 episodi, tuttavia, ci racconta qualcosa di più profondo. Perché mai lo Studio Ghibli – e Hayao Miyazaki in particolar modo – ha sempre evitato la strada delle serie animate? Perché, in un’epoca in cui l’anime seriale domina le piattaforme e l’immaginario globale, lo studio non ha mai optato per l’omologazione? Ebbene, a quanto pare le ragioni sono molteplici, ma convergono tutte in un principio essenziale: per Miyazaki, l’animazione non è un prodotto. È arte.

Un’idea nobile di animazione

Mahito ne Il ragazzo e l’airone – © Studio Ghibli
Miyazaki al New Yorker, 2025

“Non voglio fare prodotti. Voglio raccontare storie che restano” – H.M.

Sin dagli albori, Hayao Miyazaki ha vantato una visione dell’arte nobile, oseremmo dire “piena”: un’espressione dell’Io in grado di toccare corde intime e profonde. Nei suoi scritti, raccolti in Starting Point: 1979–1996, il maestro rivendica un’animazione “autobiografica e autonoma”, slegata dalle mode e immune alle tentazioni del mercato. Tale visione è cuore pulsante della poetica ghibliana, tant’è che per lo studio nipponico i film non sono oggetti da consumare, ma esperienze che si depositano – pian piano – nella memoria emotiva dello spettatore, granello dopo granello. E per Miyazaki, il lungometraggio è il contenitore ideale: un tempo dilatato in cui costruire mondi, far respirare i personaggi, lasciare che la narrazione si sviluppi con lentezza.

Al centro di tale prospettiva c’è un’attenzione quasi maniacale per il controllo creativo. Miyazaki è un maestro, uno scrittore, un disegnatore, un architetto di universi. Supervisiona ogni passaggio – dallo storyboard alla regia, dal character design alla musica – con la dedizione di un artigiano. Il suo metodo ricorda più i grandi registi dei cult che l’industria seriale dell’animazione giapponese: un padre severo, più che un regista.

Ed è anche per questo che Toshio Suzuki, storico produttore dello studio, ci ha tenuto a spiegare in più occasioni come lo Studio Ghibli sia stato concepito per realizzare film, non serie. Il lavoro paziente, la cura maniacale dei dettagli, l’ossessione per la coerenza visiva e narrativa sono incompatibili con le scadenze settimanali della serialità. Laddove una serie richiede velocità, collaborazione su larga scala e continuità produttiva, Ghibli sceglie lentezza, silenzio, immersione totale. Ogni opera prende vita dopo anni e anni di lavoro, spesso vittima di ripensamenti e revisioni. Una gestazione incompatibile con il ritmo imposto dall’intrattenimento televisivo.

Narrazioni sospese nel tempo

Porco Rosso
Porco Rosso © MyMovies

Come accennato nell’introduzione, anche sul piano narrativo le storie Ghibli sembrano rispondere a una legge diversa. Dite addio al cliffhanger, poiché non v’è urgenza di trattenere lo spettatore con colpi di scena. I loro film sono imprevedibili, come uragani avvolgono e bloccano lo spettatore, costringendolo a contemplare l’arte. La Principessa Mononoke, Nausicaä, Porco Rosso, Si alza il vento, Il ragazzo e l’airone sono opere che rifiutano lo schema dell’arco narrativo tradizionale per privilegiare le sensazioni attraverso pause e lentezze, paesaggi evocativi. Pochi dialoghi ma d’impatto.

Di contro, come ben sappiamo, il formato seriale richiede una tensione continua, una progressione costante, il picco della suspense a tutti i costi. Ed è forse anche per questo che l’animazione ghibliana non si può assolutamente piegare alla serializzazione: un film Ghibli s’infila lentamente nelle pieghe della mente, riecheggia per giorni nell’animo dello spettatore, ci insegna ad amare. E’ un’indagine antropologica e poetica sull’essere umano, troppo difficile da piegare a logiche di serialità ordinarie. Poiché ogni scena diventa un dipinto e, in questo contesto, la frammentazione risulterebbe una violenza al ritmo interno dell’opera.

Contro l’industria dell’intrattenimento seriale: l’impronta di Takahata

Una tomba per le lucciole – © Studio Ghibli

Miyazaki ha sempre manifestato timori analoghi ben prima dell’avvento delle piattaforme streaming. Già negli anni ’80, il maestro denunciava apertamente il rischio di un’animazione sempre più asservita alla logica del mercato. Parlava di “immaginazione anestetizzata”, riferendosi a serie realizzate ad hoc: non per narrare, ma per vendere. Action figures, carte da gioco, spin-off, peluche: in tale asettico scenario, la storia diventava un pretesto, un veicolo per la commercializzazione. Oltretutto, il regista è sempre stato dell’idea che contenuti creati in serie – e la modalità di fruizione come il binge watching – potessero “assopire” l’immaginazione degli spettatori anziché stimolarla con mondi da esplorare lentamente.

Ma non Studio Ghibli: il team nipponico ha sempre scelto un’altra strada. I loro film sono mondi chiusi, autosufficienti, non prevedono sequel, non cercano continuità forzate. Anche il merchandising, pur presente, è frutto di una scelta misurata, mai strategica. Questa visione etica deriva anche dal compianto Isao Takahata, cofondatore dello studio, per il quale l’animazione era uno strumento di indagine culturale e poetica, non un contenitore per intrattenimento usa e getta.

Il maestro Takahata, autore di capolavori quali Una tomba per le lucciole (La tomba delle lucciole) e La storia della Principessa Splendente, è sempre stato faro e incarnazione della componente più filosofica e contemplativa dello studio. Nei suoi film, l’animazione diventa una vera e propria lente sul dolore dei protagonisti, sul tempo che scorre, sull’importanza della memoria. Temi profondi, sì, ma narrati con delicatezza: capolavori che non avrebbero mai trovato respiro nei confini rigidi e lesti della serialità. La sua eredità ha, difatti, segnato l’identità stessa di Studio Ghibli: non una fabbrica che realizza bottoni a catena, bensì una piccola bottega creativa. E aderire alla logica delle serie anime avrebbe significato snaturare questa identità.

Una vocazione

Hayao Miyazaki in una scena del documentario Hayao Miyazaki e l’Airone, fonte: Lucky Red
Miyazaki a Polygon

“Non riesco a parlare del settore in cui operiamo senza un pizzico di amarezza. Rispetto ad alcune opere degli anni ’50 che considererò sempre un punto di riferimento, l’animazione che realizziamo dagli anni ’80 assomiglia al cibo servito sui jumbo jet… Le emozioni e i pensieri hanno lasciato il posto a ostentazione, nervosismo ed eccitazione. Francamente detesto la parola “anime” perché per me simboleggia solo l’attuale desolazione del nostro settore.” – H.M.

Vi sembrerà strano, ma spesso ci si dimentica che lo stesso Hayao Miyazaki ha iniziato la carriera nelle serie: Heidi, Lupin III, Conan: il ragazzo del futuro. Ed è stata proprio quella carrellata di esperienze ad avergli permesso di toccare con mano le costrizioni del formato, le urgenze produttive, la necessità di scendere a compromessi. Dunque, quando il maestro fondò Ghibli nel 1985, la sua fu una scelta consapevole: voltare pagina, costruire un luogo dove l’animazione potesse tornare a essere arte autonoma, non un mero ingranaggio del palinsesto TV.

E questa coerenza è diventata, negli anni, tratto distintivo dello studio stesso, a dimostrazione che non servono decine di titoli all’anno per essere rilevanti nel mondo del cinema. Ne basta uno, un capolavoro soltanto, un’opera che lasci un indelebile segno nello spettatore. Dopo Ronja, anche Goro Miyazaki è tornato al cinema con Aya e la strega che, seppur realizzato interamente in CGI, conferma quale sia la vocazione dello studio: il lungometraggio.

Tradizione sovversiva

La Città Incantata
La Città Incantata, fonte: Studio Ghibli

Oggi, nell’era del binge watching e dell’abbondanza di palinsesti, la scelta dello studio Ghibli di non rincorrere la serialità appare quasi una presa di posizione coraggiosa e sovversiva. Invece di adattarsi ai modelli dominanti, lo studio ha scelto la coerenza, il passo lento, l’ascolto del tempo interiore: ha scelto l’eternità, e noi non potremmo esserne più felici.

Legati come siamo alla verve contemplativa delle poesie ghibliane, opportunità per lo spettatore di trovare il proprio ritmo, il nostro augurio è che Ghibli non si lasci mai inglobare nell’omologazione di temi e formati. Proseguendo a realizzare opere che parlano alle generazioni, certo, ma senza appartenere a nessuna in particolare. La scelta di non produrre serie anime – dunque – non è un vezzo d’élite, bensì un atto di fedeltà a un’idea dell’animazione come arte complessa e necessaria. Lo Studio si ferma, sceglie l’essenziale, decide di ricordare.

Ed è proprio in questa coerenza che, probabilmente, si nasconde la sua forza, questo modus operandi a rendere eterni i capolavori di Miyazaki.

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Napoletana, classe 92, nerd before it was cool: da sempre, da prima che fosse socialmente accettato. Dopo il diploma al Liceo Classico, una breve ma significativa tappa all'Accademia di Belle Arti mi ha aperto gli occhi sul futuro: letteratura, arte e manga, compagni di una vita ed elementi salvifici. Iscritta a Lettere Moderne, ho studiato e lavorato per poi approdare su CPOP.IT e scoprire il dietro-le-quinte del mondo dell'editoria. Dal 2025 scrivo per LaTestata e mi sono unita al team di ScreenWorld in qualità di Capo Redattrice Anime e Manga: la chiusura di un cerchio e il coronamento di un sogno.