Chi c’era se lo ricorderà sicuramente: era il 2003 quando La città incantata arrivò in Italia – due anni dopo la prima giapponese, facendo conoscere al pubblico il nome di colui che, in patria, veniva già venerato da decenni come sensei dell’animazione. Da lì in poi, a poco a poco, nacque una curiosità e un’ammirazione crescente nei confronti di un cinema così ricco – sia sul fronte stilistico che su quello delle tematiche; lo Studio Ghibli divenne presto sinonimo di eccellenza e il nome di Miyazaki contribuì a far conoscere l’animazione giapponese andando oltre la nicchia di chi gli anime li guardava già da tempo.
Così, dai primi anni 2000 in poi, iniziarono a circolare in home video molti titoli prodotti dallo studio e risalenti a diversi anni prima del grande successo riscontrato da La città incantata; film firmati da un nome ormai familiare, Miyazaki, a cui se ne aggiungevano altri realizzati da un certo Isao Takahata. Un signore che in patria è considerato al pari del suo grande amico e collaboratore Miyazaki ma che, in Occidente, ha conosciuto una fama tardiva: forse a causa di una sua concezione del cinema d’animazione che mal si sposava con quel luogo comune tutto nostro secondo cui “l’animazione è per i bambini”. Il cinema però è cinema e Takahata ce l’ha dimostrato lasciandoci un’eredità di film semplici e complessi; storie in cui la bellezza lascia spazio al dolore e alla fragilità senza mai perdere la sua essenza più pura. Inoltre senza di lui – e chiaramente senza Toshio Suzuki, lo Studio Ghibli non sarebbe mai esistito.
Animazione del reale
Se infatti con il suo approccio fiabesco, a tratti surreale, il cinema di Miyazaki riesce a trasportarci in mondi altri, quello di Takahata non hai messo di guardare al reale con tutte le sue contraddizioni. Una realtà di cui era necessario conservare lo sporco e le sfumature, sublimando il tutto con un’animazione capace di enfatizzare intrecci dai risvolti emotivamente complessi ma che necessariamente non dovevano perdere di vista un senso di stupore fantastico. Non è un caso dunque che, nel corso della loro carriera, Takahata e Miyazaki siano stati molto presenti l’uno nei progetti dell’altro dando vita a un rapporto quasi simbiotico che ha permesso allo studio di realizzare opere differenti ma dall’animo affine.
Mentre infatti Miyazaki era al lavoro su Il mio vicino Totoro, Takahata realizzava Una tomba per le lucciole, successivamente a Kiki – Consegne a domicilio seguì Pioggia di ricordi; fino ad arrivare al 2013 anno in cui uscirono a pochi mesi di distanza quelli che avrebbero dovuto essere i testamenti artistici dei sensei: Si alza il vento e La storia della Principessa Splendente. Nel caso di Miyazaki, come sappiamo, le cose sono andate diversamente, ma questa è un’altra storia. Con La storia della Principessa Splendente Takahata ha realizzato un’opera ultima che, al di là della sua bellezza stilistica, rappresenta una summa della concezione dell’animazione del regista stesso: quel connubio perfetto tra arte ed emotività che, molti anni prima, l’aveva fatto innamorare dell’animazione grazie a La Bergère et le Ramoneur (la versione incompleta de Le Roi et l’Oiseau).
Animazione è libertà
Passato alla storia come il primo lungometraggio d’animazione francese a rivoluzionare i canoni stilistici di un cinema che, negli anni Cinquanta, era dominato prevalentemente dagli americani – in particolar modo dalle produzioni Disney, La Bergère et le Ramoneur è una folgorazione per il giovane Takahata. Già laureato in letteratura francese (un amore che non abbandonerà mai contribuendo a portare in Giappone tanto l’opera di Prévert quando quella di Ocelot), Takahata non è un’animatore ma vuole raccontare storie. La sua visione personale gli permette di vincere un concorso per lavorare alla Toei Doga grazie a cui lavora ai suoi primi progetti, sia in ambito seriale che cinematografico. Nel 1968 firma la sua prima regia La grande avventura del piccolo principe Valiant e, successivamente, quella de Gli allegri pirati dell’isola del tesoro, il tutto mentre instaura un rapporto di collaborazione strettissima con l’amico e collega Miyazaki.
Per entrambi l’animazione è un modo di fare cinema in libertà, sperimentando stilisticamente e raccontando storie diverse rispetto a quelle a cui il pubblico è abituato. Ma il loro spirito visionario non è visto di buon grado alla Toei che ben presto lasciano insieme per lavorare presso la A Production, uno studio affiliato di Tokyo Movie. Nel 1984 grazie al successo di Nausicaä della Valle del vento, diretto da Hayao Miyazaki e prodotto dallo stesso Takahata, i due amici riescono a raggiungere la tanto desiderata indipendenza fondando insieme a Toshio Suzuki e Yasuyoshi Tokuma il loro studio d’animazione. È l’inizio di un sogno.
Giappone: tra visioni e realismo
Se, come abbiamo detto, il cinema di Miyazaki è contraddistinto da una cifra più fiabesca rispetto alle storie impregnate di realismo di Takahata non significa che i film di quest’ultimo siano privi di una componente visionaria. Anzi, al contrario. Forte della concezione di animazione come strumento artistico, Takahata sperimenta dando vita a sequenze quasi oniriche che, tuttavia, riescono a calarsi perfettamente nel reale grazie alle emozioni che suggeriscono. Pensiamo al finale del già citato La storia della Principessa Splendente in cui, grazie a un sentimento tanto umano come la nostalgia, anche la principessa di un’antica leggenda pare prendere corpo di fronte ai nostri occhi; per non parlare della struttura ad anello di Una tomba per lucciole che, svelando una dolorosissima conclusione, lancia un messaggio pacifista (Takahata, tra l’altro, era un convinto antimilitarista) con un finale in cui visioni e realtà si sovrappongono.
Nel corso del tempo, dunque, Takahata è riuscito a delineare una filmografia coerente in cui la componente emotiva, fondamentale, riuscisse ad andare di pari passo con una storia capace di toccare tematiche attuali e senza tempo; temi universali ma legati a doppio filo alla cultura e alle contraddizioni del suo paese, come ci ha mostrato perfettamente ne I miei vicini Yamada. Così mentre la protagonista ventisettenne di Pioggia di ricordi riflette sulla sua vita mentre fugge dal tran tran di una Tokyo spersonalizzante e i tanuki di Pom Poko lottano contro l’urbanizzazione nella capitale, Takahata ci racconta storie in cui l’animazione si pone al completo servizio della componente emotiva trattando tematiche che in cui ognuno di noi può trovare un frammento di se stesso. Un cinema in cui emozioni e arte sono gli ingredienti fondamentali e che, per tanto tempo, è stato definito “troppo adulto”. Ma, per fortuna, certi stereotipi ce li stiamo lasciando alle spalle e, come abbiamo già detto il cinema, è cinema, e l’animazione permette di sperimentare in un modo unico rendendo, a volte e per assurdo, l’irreale ancora più reale. Se l’abbiamo capito meglio è anche merito di Takahata sensei.
E voi cosa ne pensate? Siete d'accordo con le nostre riflessioni?
Se volete commentare a caldo questo articolo insieme alla redazione e agli altri lettori, unitevi al nostro nuovissimo gruppo Telegram ScreenWorld Assemble! dove troverete una community di persone con interessi proprio come i vostri e con cui scambiare riflessioni su tutti i contenuti originali di ScreenWorld ma anche sulle ultime novità riguardanti cinema, serie, libri, fumetti, giochi e molto altro!