The First Slam Dunk è tante cose. Il lungometraggio d’animazione diretto da Takehiko Inoue (qui potete leggere la nostra recensione) è arrivato al cinema come un film evento, ed è prima di tutto questo. Un evento. Qualcosa di straordinario che i fan della saga di Hanamichi Sakuragi aspettavano da circa ventitré anni, da quando stringevano tra le dita quell’ultimo numero di un manga che ha rivoluzionato il mondo delle narrazioni sportive. Per queste persone, The First Slam Dunk è un appuntamento per il quale si stavano preparando da due decenni, con il fiato corto nella speranza di vedere finalmente determinate scene prendere vita, diventare reali grazie alla magia del cinema.
Allo stesso tempo, però, la pellicola di Inoue rappresenta anche qualcosa di nuovo: è un dono che viene fatto allo spettatore. Non solo quello già a conoscenza delle dinamiche dello Shohoku, la squadra di basket capitanata da Akagi, ma anche (e forse) soprattutto per coloro che non sapevano nulla della squadra di Kanagawa e che si sono avvicinati al lungometraggio con lo scetticismo di chi ancora non sa di star per vivere un’esperienza quasi metalinguistica. Perché questo film di Slam Dunk non si limita a raccontare una storia, ma guarda dritto lo spettatore e lo costringe a fare i pugni con pensieri tutt’altro che facili: l’elaborazione del lutto, il senso di abbandono, la paura di aver fallito nel perseguire i propri sogni.
The First Slam Dunk è un capolavoro di tensione: è un prodotto dove chi guarda non subisce passivamente ciò che vede, ma partecipa alla stessa ansia dei giocatori in campo, sentendo sulla propria pelle il peso di un sudore che rappresenta il sogno che si sta avverando. Allo stesso tempo, però, il film è anche una lenta ed elegantissima riflessione sulla vita odierna, sui ritmi forsennati di una corsa al successo che spesso ci spinge a non guardare le nostre cicatrici, spaventati come siamo che le ferite mostrino al mondo che non siamo altro che imbroglioni, seconde scelte del destino, che si diverte come sempre a mischiare le carte. The First Slam Dunk è tutto questo: è intrattenimento e riflessione, tensione e indulgenza. E per chi è disposto ad ascoltare, il capolavoro di Takehiko Inoue può essere una grande lezione di vita. Non esaustiva, certo, ma sicuramente degna di essere appresa.
Andare avanti
Per chi seguiva già il manga, non sorprende che i personaggi al centro di The First Slam Dunk siano tutti personaggi che, a dispetto della loro giovane età anagrafica, sono pieni di crepe e paure che li costringono spesso a vivere con il peso di ricordi che non vogliono affrontare. Ogni giocatore dello Shohoku, chi più, chi meno, ha percorso una strada accidentata dove è inciampato più volte, crollando a terra con la paura di non farcela. Di non poter essere quel “qualcuno” che era prima che la tragedia o la difficoltà la facesse da padrone.
Senza voler fare spoiler per chi non conosce a pieno la saga principale, è comunque giusto sottolineare come il basket, in Slam Dunk, non sia solo un corso extrascolastico, ma sia soprattutto un modo di esprimersi per personaggi che non sapevano più chi erano. La violenza di Hanamichi Sakuragi così come la sua costante ricerca di attenzione, le risse di Hisashi Mitsui e il carattere solitario di Kaede Rukawa non sono solo stereotipi messi in bella mostra per divertire il pubblico. Sono in realtà sintomi di un malessere che la pallacanestro, in qualche modo, riesce a sanare. E The First Slam Dunk arricchisce questo discorso, includendo anche una storyline più approfondita per Ryota Miyagi.
Numero 7 dello Shohoku, playmaker eccezionale con la capacità di avere una visione d’insieme per essere il vero regista della squadra, Myagi è il protagonista pressoché assoluto della pellicola. La partita col Sannoh, che tanto aveva entusiasmato i lettori della prima ora di Takehiko Inoue, assume in The First Slam Dunk un significato aggiuntivo, arricchendosi di livelli di lettura che innalzano lo sport a un vero e proprio mantra per cercare di affrontare la perdita. The First Slam Dunk, in questo senso, è un intenso e intelligente prodotto sull’elaborazione del lutto. La vicenda inizia infatti quando Ryota è ancora un bambino che sembra non avere altra ambizione nella vita che inseguire le orme del fratello maggiore, un talento del basket capace di rischiarare la vita di chiunque gli sia intorno. Ma bastano poche inquadrature e l’urlo rabbioso di un bambino che si sente abbandonato per far sì che lo spettatore si renda conto che Sota è solo un personaggio di passaggio, un volto che sparisce immediatamente, mentre la sua presenza rimane fissa in Ryota.
Sota è in un polsino rosso dall’aspetto liso, in una borsa che rimanda l’odore del mare in tempesta e in tutte le frasi non dette e gli sguardi bassi di una madre davanti alla quale Ryota si sente invisibile. Takehiko Inoue prende il suo playmaker e lo mette al centro di una storia dove l’assenza si fa concreta e diventa paradossalmente una presenza fissa, un’ombra che accompagna Ryota, che guida le sue ambizioni ma anche i suoi giorni più neri. E sotto questa nuova storia anche la narrazione già nota di Slam Dunk assume un altro significato: Inoue è bravissimo a rimanere coerente alla sceneggiatura del suo manga, senza stravolgere gli eventi, ma arricchendoli di una nuova chiave di lettura. La capacità di Ryota di finire sempre nei guai, il suo strano legame con Mitsui, così come il suo sguardo calmo e i suoi silenzi carichi di significato diventano i sintomi di qualcosa di profondo.
Per la maggior parte del film Ryota sta affrontando ancora la perdita del fratello e le conseguenze di quella mancanza. Quel timore di essere il “figlio sbagliato”, quello che non sarebbe dovuto sopravvivere, quello che non serve ad altro se non a rendere sua madre ancora più triste. Persino la partita col Sannoh fa parte di quel tentativo di mantenere vivo suo fratello, di continuare a essere legato a Sota tramite il dolore della sua assenza. Ma è proprio il basket a cambiare le carte in gioco: mentre il mare continua a ruggire la sua furia, Ryota comincia a pensare a sé stesso come individuo e non più come “fratello”. Ryota si rende conto di star sfidando il Sannoh non per onorare il ricordo di Sota, ma perché è lui a desiderarlo.
E in questo senso The First Slam Dunk sottolinea l’importanza di rimettersi in piedi, di affrontare anche ciò che sembra insormontabile, di andare avanti. Di esistere, senza che il senso di colpa del sopravvissuto mini il bisogno di esserci, di sentire, di seguire i propri sogni.
Senza sudore non si ottiene nulla
Slam Dunk è sempre stato pieno di sudore. La bravura di Takehiko Inoue, in qualità di mangaka, sta anche nel fatto di far avvertire la fatica dei suoi protagonisti, lo sforzo che fanno per raggiungere i propri obiettivi. A differenza di molte altre opere a lui contemporanee, Slam Dunk non ha mai portato in prima linea eroi che riuscivano più o meno facilmente ad ottenere tutto quello che volevano. Anche nella figura di Hanamichi Sakuragi, il prescelto che ha un inaspettato talento per la pallacanestro, Inoue non è mai caduto nella facile trappola dell’eroe impeccabile che, suo malgrado, riesce a fare tutto quello che vuole. Slam Dunk è una storia piena di talenti incredibili, di giocatori che sono così bravi nel gioco da meritarsi già delle convocazioni in nazionale. Allo stesso tempo, però, sono tutti personaggi in fieri, giocatori che sbagliano molto, che hanno i propri limiti e i cui errori possono pesare sul destino della squadra. Takehiko Inoue ribadisce questo concetto anche in The First Slam Dunk. Il talento arriva fino a un certo punto, ma se c’è davvero qualcosa che vuoi nella vita ti devi rimboccare le maniche e continuare ad allenarti , a imparare. In altre parole, a sudare.
La pallacanestro è un gioco che richiede un grande dispendio di energie, perciò non sorprende vedere il sudore che bagna il linoleum della palestra, definendo meglio i lineamenti dei giocatori. Ma il sudore di cui parla Inoue non ha a che fare solo con l’esercizio fisico. L’artista parla del sudore che occorre nella vita, per combattere per se stessi, anche quando sembra che nessuno sforzo porti a qualcosa di concreto. In questo senso, il sudore di The First Slam Dunk è un altro invito a non arrendersi, a non demordere. Non necessariamente per ottenere risultati storici, ma quelli che bastano per guardarsi allo specchio e non sentirsi in colpa con se stessi.
Una squadra è fatta di cinque giocatori
Un altro tema molto importante che The First Slam Dunk affronta, vestendolo del cremisi delle divise dello Shohoku, è l’importanza di chiedere aiuto. C’è un momento preciso all’intero della pellicola in cui viene reso palese quanto la differenza tra la vittoria e la sconfitta sia nella capacità di “servirsi” delle persone che combattono insieme a te. In qualsiasi sport di squadra si sottolinea quanto il team sia più importante dell’individuo. Si tratta quasi di un cliché, tanto è radicato nella mentalità sportiva. Ma Takehiko Inoue non si limita a ripetere un motto ormai insito nel mondo dello sport. Il suo “gioco di squadra” non riguarda più solo il campo di basket, ma si allunga anche in altri aspetti della vita.
Il “gioco di squadra” diventa il simbolo dell’importanza di chiedere aiuto, di sapere di poter allungare una mano (o passare una palla) e trovare qualcuno che è pronto a darti aiuto. La squadra, dunque, non è solo un insieme di atleti che combatte per lo stesso trofeo: in The First Slam Dunk si trasforma in quella famiglia non di sangue che, tra alti e bassi, ti permette di affrontare te stesso, di combattere i tuoi demoni. Anche, e soprattutto, quando non lo vuoi.
Il film ci insegna dunque a non lasciarci ingannare dai nostri pensieri egoriferiti, a non guardarci come se fossimo – per parafrasare About a boy, un’isola. Il film ci ricorda che al nostro fianco abbiamo sempre persone disposte a darci un aiuto se solo abbiamo il coraggio di chiederlo. Un sentimento che nel film viene spiegato molto bene nella contrapposizione di Rukawa e Sawakita. Se il secondo è un talento naturale, considerato il giocatore migliore del Giappone nella sua fascia d’età, la differenza la fa proprio la capacità di non ragionare come una divinità scesa in terra, ma con l’umiltà di rendersi conto che da soli non si vince una partita. Da soli, non si può affrontare la vita.
E in questa riflessione Takehiko Inoue strizza di nuovo l’occhio ai fan del manga, rievocando senza citarle le parole che Sendo, del Ryonan, aveva detto a Rukawa dopo averci giocato contro. Una riflessione che lo invitava a considerare che lo scontro uno contro uno è solo uno dei tanti mezzi per vincere una partita, ma non è di certo né il migliore né il più sicuro. Ed è proprio quando capisce quanto vere siano queste parole che Rukawa supera il suo avversario. Perché, di fatto, nessun uomo è un isola. E nessun giocatore di basket gioca da solo.
Il bisogno della sconfitta
Slam Dunk è una storia piena di sofferenza.
Lo sport è un mezzo – come abbiamo detto – per affrontare il lutto, per superare una perdita, per avere la sensazione di avere un posto nel mondo anche quando il mondo ci ha voltato le spalle con una crudeltà immeritata.
Ma lo sport diventa anche uno strumento per crescere, per capire che i sogni sono bellissimi da inseguire, ma che non sempre riusciamo a rimanere in equilibrio. Per comprendere che mentre corriamo dietro la nostra stella è anche facile e probabile inciampare, cadere, commettere errori che hanno conseguenze non solo su di noi, ma anche sulle persone che di noi si sono fidate. Una riflessione tutt’altro che scontata in un panorama come quello dei racconti sportivi, dove di solito viene celebrato il successo a ogni costo, dove anche se si dice che “l’importante è partecipare”, è quasi sempre la vittoria a dare un senso all’impegno, agli sforzi, al talento.
Una narrazione tossica che, al giorno d’oggi, si sta pian piano spezzando. Lo ha dimostrato, ad esempio, lo splendido discorso fatto da Giannis Antetokounmpo, giocatore dei Milwaukee Bucks, che durante una conferenza stampa ha risposto a una domanda in cui gli veniva chiesto se la sua stagione e quella della sua squadra potevano essere considerate un fallimento visto che non c’era stata una vittoria. “Non è un fallimento,” ha detto il giocatore “ma un passo verso il successo. Michael Jordan ha giocato per quindici anni, ha vinto sei campionati. Gli altri nove sono stati fallimenti?“.
Takehiko Inoue sembra pensarla allo stesso modo.
Per lui non c’è fallimento nello sport. C’è l’esperienza. C’è l’imparare. E c’è l’errore che serve ad ottenere entrambe le cose. The First Slam Dunk lo mette in chiaro in modo cristallino: quando un giocatore chiede che gli venga data l’esperienza dopo il talento, la prima cosa che gli viene mostrata è la sconfitta e la sua importanza. Un tema che Inoue aveva già affrontato nel manga e nella prima parte del torneo, soprattutto nello scontro con il Kainan, di cui la partita col Sannoh rappresenta l’altra faccia della medaglia. Il Kainan e il Sannoh sono le grandi squadre da battere, quelle che sembrano inarrivabili. Sono i “mostri” da sconfiggere per poter continuare a sognare.
Ma non basta sognare qualcosa per volerla e a volte puoi impegnarti quanto vuoi, sfidare i tuoi stessi limiti e spingerti oltre ogni previsione, senza che questo faccia differenza. A volte non si può vincere, e basta. E bisogna saper accettare questa condizione umana. Bisogna saper accettare l’ingiustizia o il caos del destino. Bisogna capire che anche la sconfitta ha qualcosa da dire, qualcosa da insegnare. Una lezione che Takehiko Inoue deve ritenere persino più importante delle altre, visto quanto spesso la ripete: sbagliare, accettarlo e rialzarsi per andare avanti. Ecco quali sono i grandi insegnamenti dello sport. Ecco quello che The First Slam Dunk vuole insegnare.