Di Mad Max Fury Road è rimasta una scia indelebile nel deserto. Sono passati sette anni, ma il ricordo di quel godimento estetico, di quella furia visiva e di quel cinema oltre il limite della tachicardia è ancora dentro di noi. Adesso chiudiamo tutto dentro il bagagliaio e buttiamo via la chiave, perché George Miller ha cambiato strada, abbassato la velocità, virato verso un altro cinema. Adesso Miller ha voglia di altri incantesimi, e vuole farci dimenticare Fury Road con un film che sembra quasi la sua antitesi.
Non potevamo che aprirla così la nostra recensione di Three Thousand Years of Longing, mettendo subito in chiaro le cose. La nuova fatica targata Miller è quasi l’antitesi di Fury Road, la sua copia carbone, la sua nemesi. Perché se il lungo inseguimento di Max rinnegava il bisogno di una trama e la necessità di una storia, Three Thaousand Years of Longing celebra il potere delle storie. Una potere ammaliante, ancestrale, radicato nell’umanità dalla notte dei tempi. Ed è da lì che parte questo lungo viaggio visionario: tra le sabbie del tempo. E questa volta nel deserto non ci sono tracce di pneumatici.
Three Thousand Years of Longing
Genere: Fantasy
Durata: 108 minuti
Uscita: da definire (Italia)
Cast: Idris Elba e Tilda Swinton
Le Miller e una notte
Il confine tra indipendenza e solitudine è molto labile per Alithea Binnie. Narratologa alla ricerca di punti di contatto tra vecchi miti dell’umanità, la donna si imbatte in un antico artefatto: un’affascinante bottiglia bruciacchiata che cattura la sua curiosità. Una volta sfregato, l’oggetto si rivela la più classica delle lampade magiche, con tanto di genio pronto a sprigionarsi per esaudire tre desideri. Però i veri desideri di una donna sola sono soprattutto due: ascoltare ed essere ascoltata. Così il genio di Idris Elba inizia a raccontare il suo lungo passato di bisogni assecondati: di antichi sultani, principi e regine diventati schiavi dei propri sogni e delle proprie ambizioni. Tutto attraversato da un profondo amore per il mito e le leggende.
Non potrebbe essere più classica la premessa di Three Thousand Years of Longing, film tratto dal racconto Il genio nell’occhio d’usignolo di Antonia Susan Byatt. Un punto di partenza che è solo un pretesto per dare vita a un’opera molto malinconica e riflessiva. Un lungo racconto dei racconti in cui arte oratoria e immagini ammalianti camminano a braccetto facendo voli pindarici a volte dispersivi, altre affascinanti. Dopo aver prosciugato Fury Road di una narrazione andando all’osso del cinema (la visione), Miller ci chiede di sederci attorno al fuoco per ascoltare la sua grande Storia. Nasce così un film verboso, denso, quasi un saggio visivo dedicato al potere del racconto. Ovvero il più antico bisogno umano per dare senso al mondo e ordine alle cose. Un ordine che Miller non gestisce sempre al meglio. Perché preferisce dare libero sfogo a un cinema frammentato, che si affida allo spettatore per essere “aggiustato” e finalmente compreso.
Un atto di fiducia nei confronti del pubblico, che potrebbe rimanere spiazzato da un’esperienza disorientante. Perché questo è un film coraggioso. E come tutti i film coraggiosi destinato a dividere.
Schiavi dell’amore
Alcuni hanno definito Three Thousand Years of Longing il The Tree of Life di George Miller. Definizione da prendere con le pinze ma non totalmente campata in aria. Perché come nel capolavoro di Malick anche qui siamo immersi in riflessioni esistenziali sul passare del tempo, sulla caducità dell’essere umano e soprattutto sul valore dell’amore.
È forse questo il vero messaggio nella bottiglia del film: un’efficace metafora sui rapporti amorosi. Cosa siamo in amore se non “geni” pronti a esaudire qualsiasi desiderio dell’altro? Cosa siamo in una coppia se non schiavi di una dolce dipendenza? Ognuno di noi sfrega la sua lampada, sperando di essere o avere il proprio “djinn”. Per amare o essere amato. Il tutto raccontato senza condannare questo bisogno atavico di avere qualcuno al proprio fianco. Perché Miller ha un tocco dolce, a tratti malinconico, quasi compassionevole. Come un regista che davanti a un libro aperto, si abbassa gli occhiali e ci guarda dritto negli occhi e ci invita ad abbracciare le nostre fragilità. Dopotutto che cos’è l’amore se non una storia che ci raccontiamo?
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La recensione in breve
Un viaggio lungo le radici del mito, delle leggende e dei racconti. Così abbiamo definito il grande ritorno di George Miller nella nostra recensione di Three Thousand Years of Longing. Un film quasi filosofico, che riflette sul potere antico dell'amore
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Voto ScreenWorld