Negli ultimi mesi non si è fatto altro che parlare di questo film horror, definendolo come una vera e propria rivoluzione, qualcosa che non farà dormire la notte, scioccherà e spiazzerà. Il “classico” esempio del film low budget, con il marchio di fabbrica A24, che grazie al passaparola sbanca al botteghino, capovolgendo ogni previsione. E infatti, allo stato attuale, a due mesi dall’uscita statunitense, il film ha incassato 70 milioni di dollari globali a fronte di un budget di 4,5 milioni. Una parabola non troppo dissimile dall’esordio di Jordan Peele o Ari Aster.

Ma si tratta di un’opera davvero così impressionante? Cerchiamo di scoprilo in questa recensione di Talk To Me, lungometraggio horror (nei nostri cinema dal 28 settembre grazie a Midnight Factory), esordio del duo australiano Danny e Michael Philippou, più precisamente conosciuti sul web con lo pseudonimo RackaRacka. Sul loro canale, questi giovanissimi registi e sceneggiatori, produttori di un horror altrettanto conosciuto, ovvero Babadook di Jennifer Kent, realizzano cortometraggi horror di stampo comico che gli sono già valsi uno Streamy Award e un AACTA Award. Due ragazzi che sanno esattamente cosa vogliono dire e come vogliono farlo, raccontando il giovane pubblico del web con uno stile visivo, accattivante e fresco. Il duo ha saputo ben giocare le proprie carte, distinguendosi dalla massa per qualità visiva all’interno dei propri prodotti. Opere semplici, spesso grottesche, ma che sanno come colpire, come restare impresse nella mente di chi guarda (e non solo per il proprio target di riferimento) a tal punto da aver avuto l’occasione nel 2022 di essere presentati al Festival di Cannes. Talk To Me segnerà l’inizio di una grande carriera?

Talk To Me

Genere: Horror
Durata: 95 minuti
Uscita: 28 Settembre 2023 (Cinema)

Regia: Danny e Michael Philippou
Cast: Sophie Wilde, Alexandra Jensen, Joe Bird, Miranda Otto

Discesa negli inferi

Mia è un’adolescente solitaria ancora traumatizzata dalla tragica morte della madre avvenuta due anni prima. Il suo mondo si limita alla propria stanza, in una casa troppo grande dove non ha quasi rapporto col padre, e all’amicizia con Jade e suo fratello Riley, per lei quasi una seconda famiglia. Il giorno dell’anniversario della morte della madre, la ragazza convince Jade ad andare ad una festa privata dove, sembrerebbe da alcuni video comparsi sul web, degli amici di Jade siano in possesso di un particolare artefatto capace di metterli in comunicazione con il mondo dei morti. Una specie di tavola Ouija ma decisamente più… tridimensionale: si tratta di una mano mozzata rivestita di ceramica ed incisa con una serie di nomi e simboli che non lasciano presagire nulla di buono. A chi stringe tra le proprie dita l’oggetto viene permesso non solo di parlare con l’entità, ma anche di poterla far entrare dentro di sé, provando una sensazione di vertigine ed estasi. Jade è riluttante, poco convinta della veridicità della cosa, ma pur di “tranquillizzare” un po’ l’amica, decide di assecondarla. E Mia è talmente tanto eccitata da non pensarci due volte, buttandosi immediatamente nel fuoco. Un fuoco che ha realmente l’effetto della droga, di una sostanza allucinogena.

Le regole sono chiare: solo novanta secondi. Novanta secondi in cui il corpo smette di appartenere alla persone per essere deliberatamente posseduto dallo spirito presente nella stanza. La testa si reclina all’indietro, i suoni si ovattano, le pupille si dilatano, il corpo trema e soffoca. Una sensazione vicina alla morte, ma meglio di qualsiasi sferzata di adrenalina. Proprio come una dipendenza. E nel caso di un’adolescente sola, traumatizzata, e un po’ alienata dalla società e dalla vita, tornare indietro da questo inferno potrebbe non essere facile. Quando tutto comincia ad andare in pezzi ed in ballo c’è la stessa vita, la disperazione può rendere ancora più testardi, pericolosi e folli, peggiorando enormemente le cose fino ad un punto di non ritorno.

Un coming of age rosso sangue

Talk To Me è un coming of age che non perde tempo a psicoanalizzare o giudicare cinicamente i suoi protagonisti. Piuttosto prova a rappresentare le loro ansie, le loro fragilità e le loro nevrosi. Scava nel trauma, nella disperazione e in ciò che si è disposti a fare anche solo per provare qualcosa di nuovo o mettersi in mostra. Mette in luce gli aspetti più problematici del nostro mondo, esattamente attraverso lo sguardo dei più giovani. Dà loro voce in maniera tragicamente veritiera, quasi a dare l’impressione di non vedere un film bensì uno dei classici Vlog da Youtube, ma senza la patina amatoriale, con un tocco registico sorprendentemente esperto che parla non solo al suo target di riferimento ma anche ad uno più ampio, smuovendo i nostri lati empatici.

E ci riesce particolarmente bene, soprattutto quando la ripresa insiste sullo sguardo del personaggio terrorizzato, a tal punto da far diventare nostra quella paura. Però quello sguardo allucinato o arrossato dalle lacrime o disperato quasi da sembrare folle, ci racconta molto di più. “Rompe” l’illusione e ci mostra la metafora. Nessuna presenza (forse), nessuno spirito o entità, ma solo un profondo senso di vuoto, di angoscia, solitudine. La difficoltà della crescita quando si deve affrontare un lutto e si cerca di riempirlo in tutti i modi, quando si è esasperati da un genitore, quando le pressioni sociali ci schiacciano o quando disperatamente si cerca di farsi capire ma non si riesce, senza avere il coraggio o la forza di chiedere aiuto. Il bisogno di non essere soli, di non sentirsi ancora una volta abbandonati. I protagonisti di questo film, in modo particolare la brillante interpretazione di Sophie Wilde (Mia), ci racconta tutto questo e anche di più. Un cast perfettamente assortito, magnificamente in parte e in armonia sia con il racconto che tra di loro.

Mia, così come Riley, Daniel, Jade e l’inseparabile duo Hayley e Joss, urlano disperatamente di essere visti, di non essere abbandonati, di essere tenuti in vita, sfogando la loro frustrazione su un oggetto che permette un brivido in più, finendo col diventare una dipendenza, qualcosa di cui non poter fare a meno se non quando sarà troppo tardi. Il film, così come i loro interpreti, esaspera quel bisogno giovanile di provare dolore per sentirsi vivi e, al tempo stesso, riuscire ad aggrapparsi a qualcosa per non pensare troppo alle incertezze riservate dal futuro.

Tra alienazione e dipendenza: un horror moderno

Per quanto il film segua un filone abbondantemente esplorato, come la possessione o le sedute spiritiche, anche in maniera piuttosto lineare, è il modo in cui le immagini prendono forma a dirci che si, quella che abbiamo davanti è davvero un’opera originale. Un’ottima pellicola horror che non solo merita di essere vista ma che lascia anche qualcosa in più addosso. Danny e Michael Philippou, a differenza di pellicole ben più blasonate e con budget da capogiro, non utilizzano mai il mero trucchetto del jumpscare. La costruzione della tensione è reale, strutturata, autentica. Un film definito fin dalla sceneggiatura, dove l’esasperazione dell’atmosfere viene dettata da un crescendo continuo di ansie, visioni, situazioni disturbanti. Di certo il duo australiano, per quanto avrebbe potuto spingere ancora di più sull’acceleratore (ma considerando che parliamo di un’opera prima è comprensibile il voler procedere cauti) non si risparmia, virando dallo splatter al body horror, dal visionario allo psicologico. Dall’ultra violenza inaspettata che coglie alla sprovvista e che turba ben più di qualsiasi pupazzo ben truccato sullo schermo, al “vedo non vedo” che angoscia ancora di più.

“Far di necessità virtù”, esattamente come si usava un tempo, diventa il fiore all’occhiello della pellicola che gioca con la suggestione dello spettatore e il suo desiderio di vedere oltre il velo, quasi come se fosse lui a stringere tra le sue dita la mano di ceramica – ormai oggetto di culto al pari della classica tavoletta Ouija o della Scatola di Lemarchand – temendo la sua curiosità. I due cineasti sanno esattamente come dosare gli elementi, seminando sapientemente gli indizi lungo tutto il film, per poi raccogliere al momento giusto e lasciare, anche solo per poco, senza fiato. Forse non terrorizzerà, ma una profonda sensazione di inquietudine è assicurata.

Ad alimentare lo stato disturbante della storia, abbiamo la costruzione delle immagini, tanto dal punto di vista registico quanto da quello del montaggio. Il passaggio da un one shot al primo piano, l’uso dei colori come il rosso o il blu e poi il seppia, a raccontare due mondi, il cambio di sonoro dal rumore frastornante al silenzio inquietante che amplifica quella sensazione di non essere soli, di “vedere cose” che forse ci sono e forse no. Una sensazione schiacciante che sta tanto addosso ai protagonisti quanto al pubblico, che seguirà anche durante l’uscita dalla sala. Inoltre, in modo a tratti asfissiante, la camera segue i protagonisti, soprattutto nei momenti di possessione. Rimane addosso, entra dentro di loro, restituisce quello stato di estasi, di “botta” che sale e piano piano diventa sempre più necessaria, sempre più indispensabile. Niente canne, cocaina e alcool. L’unica vera droga di Talk To Me è la mano. L’unica forma di liberazione dal dovere di aderire alle mode del momento, di essere abbastanza social e socievoli, di essere accettati non per ciò che siamo ma per come gli altri ci vorrebbero, sembra essere la possessione. Possessione/dipendenza paradossalmente alimentata proprio da quegli stessi social media divenuti filtro di una realtà sempre più fittizia.

Tutto questo dettato da un tempo ben scandito. Si nota il linguaggio più da web, quasi da prank – come alcuni video dei Philippou – che rende la carneficina ancora più divertente e stuzzicante, senza mai banalizzarne il contenuto. Senza ombra di dubbio il finale della pellicola è troppo prevedibile, ma non è questo l’importante. Talk To Me non vuole raccontare un inizio e una fine, ma un sentimento condiviso, in modo diverso, da un gruppo di adolescenti, completamente abbandonati a se stessi dove le figure genitoriali sono mere figure sullo sfondo, consumati da un’alienazione che li porta sempre più alla ricerca di un “mondo altro” per ritrovare o se stessi. O perdersi del tutto.

La nascita di un nuovo franchise?

Proseguendo in questa recensione di Talk To Me è bene notare come il film si infili nel mezzo di due filoni: da una parte ci sono le carte in regola per diventare un nuovo franchise di successo sulla scia di horror partiti dal basso, divenuti poi estremamente mainstream, come Saw – L’enigmista, The Purge – La Notte del Giudizio e Final Destination; dall’altra rientra in quel percorso di pellicole rivolte ai giovani che parlano dei giovani e dei loro problemi, attraverso le metafore. Pensiamo, per esempio, ad It Follows di David Robert Mitchell, dove la “presenza” altro non era che la rappresentazione della malattia sessualmente trasmissibile. O a quei titoli dove il demone di turno ha rappresentato un tema più profondo e tragicamente reale: la pedofilia con il Boogeyman, il razzismo in Get Out, la maternità in Babadook. In fondo, questo l’horror lo fa da sempre, con una ripresa più corposa negli ultimi anni.

In Talk To Me, a differenza delle pellicola appena citate, sembra mancare quella nota di autorialità, prediligendo un linguaggio più accessibile ed immediato. Non esattamente un linguaggio social, ma sicuramente un modo di fare cinema con consapevolezza e talento, che non si perde in metafore o simboli troppo complessi, ma arriva dritto al punto. Agendo. Colpendo. Ferendo. Ed in questo, possiamo dirlo, va benissimo così. Non sorprende sapere che i due registi sono già a lavoro su un seguito che, in realtà, sarà un prequel. Le premesse sono interessanti, ma non vi sveliamo altro per non rovinare il gusto della sorpresa per la visione, nella speranza che non condivida lo stesso destino di franchise partiti meravigliosamente e poi rovinati dalla smania di appiattire qualsiasi cosa si sia dimostrata interessante nel genere.

Sorprendente

8.0 La recensione in breve

L'opera prima del duo australiano Danny e Michael Philippou è un coming of age originale, divertente e angosciante. Novanta minuti di fiato sospeso, violenza che non ti aspetti ed alienazione giovanile. Dallo stile visivo sorprendente, fresco e dinamico, Talk To Me non è un capolavoro da far strappare i capelli ma un ottimo horror che sa come "terrorizzare" senza l'uso di alcun jumpscare, rivedendo la struttura classica del possession movie. Sprofonda nelle viscere dell'essere umano tirandone fuori le paure, traumi e ferite. Una pellicola che parla tanto di possessione quanto di dipendenza, passando per l'alienazione giovanile attraverso delle interessantissime prove attoriali.

  • Voto Screenworld 8
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Gabriella Giliberti, nata a Martina Franca nel maggio del 1991, è una critica cinematografica televisiva e content creator. Dopo essere cresciuta a cinema horror, vampiri e operetta, si è formata a Roma, specializzandosi in storia del cinema, sceneggiatura e critica. Dal 2015 al 2022, è stata penna e volto del sito Lega Nerd, ricoprendo il ruolo di capo redattrice nella sezione Entertainment dal 2019 al 2022. Collabora regolarmente sia su riviste online che cartacee, ed è presente come inviata, moderatrice e speaker presso i principali Festival e Fiere. Attraverso il suo profilo @GabrielleCroix su Twitch, TikTok ed Instagram condivide e divulga l’amore per la pop culture con la sua community e pubblico di appassionati. Ha partecipato all’antologia “Emozioni da giocare” (Poliani, 2021) e “Moondance – Tim Burton, un alieno ad Hollywood” (Bakemono Lab, 2023). Da sempre appassionata di mostri, attualmente è a lavoro su diversi progetti che riguardano la rappresentazione del mostruoso nella società. “Love Song for a Vampire – Etologia del Vampiro da F.W. Murnau a Taika Waititi” (Bakemono Lab, 2023) è il suo primo libro, e non ha intenzione di smettere.