In questa recensione di C’mon C’mon raccogliamo l’invito del titolo (che in italiano suona come dai, dai!) a resistere o, come si dice oggi, a esercitare la cosiddetta resilienza in tempi difficili: questo sembra volerci esortare a fare il film di Mike Mills, presentato al Telluride Film Festival 2021 nonché, in autunno, alla nostra Festa del Cinema di Roma. Il protagonista è Joaquin Phoenix nell’inedito ruolo di zio che, per alcuni giorni, deve fare da padre putativo al nipote, Jessie (interpretato dall’incredibile Woody Norman), figlio della sorella, mentre quest’ultima è impegnata ad occuparsi del marito, il padre di Jessie, che soffre di gravi disturbi psicologici. Johnny, questo il nome del personaggio di Phoenix, è un giornalista e sta svolgendo un’indagine socio-antropologica tra i bambini d’America, viaggiando in varie città rappresentative (Detroit, New York, New Orleans) chiedendo loro cosa pensano del futuro e che cosa li renderebbe felici. Dovendo occuparsi di Jessie ma, non potendo tralasciare la sua ricerca, Johnny porta il nipote con sé.
Bimbi e adulti
Girato in un poetico bianco e nero, consono al tono intimista del film, con evocative riprese aeree delle città in cui è ambientato, nonché dettagli che ne riprendono squarci visivi affascinanti e inediti, C’mon C’mon ha l’andamento di un road movie in cui l’adulto Johnny dovrà imparare a relazionarsi con un novenne logorroico, arguto e fin troppo maturo per la sua età. Se all’inizio sarà complicato per lo zio entrare in empatia col nipote, pian piano, come è di prassi in questo tipo di film, il giornalista hipster, senza figli, e separato da poco, dovrà imparare a entrare in punta di piedi nel mondo di Jessie. Se durante la sua indagine giornalistica Johnny, per il breve tempo delle domande a cui li sottopone, si relaziona facilmente con i bambini, la convivenza forzata con Jessie lo metterà invece in crisi, come è normale che sia in qualsiasi rapporto stretto che si viene a creare tra un adulto e un bambino.
Le domande insinuanti e intelligenti di Jessie, la sua vivacità, anche i suoi capricci, lo costringono a mettere in discussione il suo rapporto con la realtà e a riconfigurare anche quello con la sorella, con cui non si parlava più. Il senso di responsabilità sopravviene potente in Johnny, in cui sorge l’istinto protettivo nei confronti di un bambino che sembra certamente più maturo della sua età, ma si porta dietro tutte le fragilità di un bimbo, aggravate dall’assenza di un padre, sulle cui condizioni mentali la madre non ha fatto mistero. Difficile infatti per Johnny rispondere alle domande di Jessie sulla vita in generale e sulla sua in particolare, nonché a quelle, più che legittime, sul papà.
Un gioco rivelatore
Mills mette in scena con rara sensibilità e con poca retorica il rapporto che si instaura tra un bimbo fragile ma curioso verso il mondo e un adulto che, per relazionarsi con lui, deve uscire dalla sua bolla emotiva e sociale di sicurezza. Johnny redige inoltre un diario sonoro dei giorni passati col nipote in cui racconta gli eventi ma, soprattutto, confessa le emozioni, anche stridenti, negative e irritanti provate nei confronti del ragazzino. Tra le cose che, almeno all’inizio, più irritano Johnny, c’è un gioco delle parti che Jessie faceva con la mamma, nel quale cerca di coinvolgere anche lo zio. Si finge un orfano che viene adottato da una madre, o da un padre, che ha perso il figlio e che riproduce tutte le abitudini che il genitore aveva con il figlio perduto. Se la mamma asseconda totalmente Jessie in questo, lo zio Johnny invece rifiuta, almeno all’inizio, tale gioco di ruolo perché non lo ritiene normale. La risposta di Jessie però lo spiazza e lo mette a posto: “Cos’è normale?”, rivelando una maturità e un’acutezza non indifferenti per un ometto di 9 anni.
Il gioco di Jessie diventa dunque una chiave, per Johnny, per entrare nel suo mondo, proprio perché si tratta in realtà di uno stratagemma, da parte del bambino, di resilienza, per farsi accettare e trovare una sua identità in una famiglia in cui la figura paterna è vacillante. In un flashback vediamo infatti il padre, affetto da disturbo bipolare, riversare sul piccolo Johnny una valanga di parole e problemi troppo grandi per le sue piccole spalle. Il gioco dell’orfano gli permette di trovare un proprio ruolo all’interno di una famiglia con grosse disfunzionalità.
Disturbi da Joker
In una scena, nella seconda metà del film, Johnny/Joaquin chiede al piccolo Jessie quale deve essere la sua reazione emotiva, perché non riesce a capire in quel momento se il bambino è allegro oppure arrabbiato. Basta questa semplice domanda a provocare un cortocircuito inter-testuale nello spettatore e a portarlo con la mente a quell’iconico Joker di quasi 3 anni fa, con cui Phoenix, ritraeva un individuo che forniva risposte emotive inadeguate all’ambiente. Il personaggio soffriva di un riso patologico e incontrollabile che sorgeva nelle situazioni più spiacevoli, provocando disagio e imbarazzo a sé stesso e alle persone che lo circondavano. La domanda di Johnny al nipote dunque, per ragioni assolutamente extra-filmiche, porta echi inquietanti con sé, se pensiamo anche al disturbo bipolare del padre, costretto a prendere abbondanti psico-farmaci, proprio come l’Arthur Fleck del film di Todd Phillips. A prescindere dalla intenzionalità o meno dell’autore, ci sembra un cortocircuito interessante su cui riflettere.
Costruzione ed emozione
Anche le risposte sul futuro del mondo fornite dai molti bambini coinvolti nella ricerca di Johnny sono decisamente sorprendenti per la loro età e rivelano come il pensiero dei piccoli, libero da condizionamenti culturali e sociali, sia spesso lungimirante e acuto, quanto e più di quello degli adulti. Sono proprio le risposte dei bambini intervistati, con modalità da cinema documentaristico, a fare da controcanto e commento alla vicenda di Johnny e Jessie. Quando assistiamo alle interviste di Johnny e della sua equipe il registro del film vira decisamente sul documentaristico, con le testimonianze autentiche dei bambini che, in questo fare da commento perenne al film, alla lunga possono risultare stucchevoli, facendo perdere quel tono di spontaneità che il film vorrebbe avere e rivelandone invece, in filigrana, la programmaticità, ovvero l’esistenza di una tela narrativa alla base, fin troppo costruita. Tale aspetto didascalico è accentuato da alcune letture fatte da Johnny, in voce over, di libri che illustrano didascalicamente i temi del film, dal bipolarismo al ruolo delle madri, gravate di enormi responsabilità sociali.
Anche l’insistere di alcune musiche extra-diegetiche, ovvero non presenti nell’ambiente ma sovrapposte nel missaggio sonoro, come per esempio il Clair de lune di Debussy, danno quella sensazione di poeticità ricercata a tutti i costi, tipica di molto cinema indie americano, di cui C’mon C’mon è un classico esponente. È pure poco plausibile che un bimbo parli già di resilienza con tale consapevolezza, facendo così perdere al film ulteriore credibilità.
Detto questo però non mancano momenti emozionanti e commoventi senza per questo essere emotivamente ricattatori, trappola in cui questo tipo di film cade spesso, cosa che Mills riesce sapientemente ad evitare. Nell’equilibrio, non sempre riuscito, tra film documentaristico e vicenda privata, tra tono intimo e portata universale dei temi trattati, tra autenticità e costruzione eccessiva, C’mon C’mon porta lo spettatore in un percorso emotivo analogo a quello di Johnny nel rapportarsi col piccolo Jessie e, all’uscita dalla sala, la coscienza degli adulti si ritrova ad evocare il bimbo interiore che è nascosto in ognuno di noi, per dargli voce e ascolto. E questo non è poco per un film.
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Conclusioni
C'mon C'mon è, come vi abbiamo spiegato nella nostra recensione, un film intimo, non retorico e delicato sul rapporto adulto-bambino e sul modo in cui gli adulti ne sono messi in crisi, maturando a loro volta. Affetto da qualche didascalismo e costruzione artefatta di troppo, comunque emoziona senza ricatti emotivi, grazie anche alle intense interpretazioni di Joaquin Phoenix e del piccolo Woody Norman.
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Voto ScreenWorld