Poche inchieste giornalistiche hanno avuto un impatto sociale, politico e culturale paragonabile a quella che, nel 2017, ha rivelato al mondo intero gli abusi sessuali perpetrati dal produttore cinematografico Harvey Weinstein.
Tutto è iniziato con un articolo del New York Times a firma di Jodi Kantor e Megan Twohey: l’immediata conseguenza è stata un’azione giudiziaria che ha portato all’arresto di Weinstein, ma nei mesi successivi è nato anche un movimento mediatico capace di andare ben oltre i confini del comparto cinematografico, accendendo nuovamente i riflettori sul ruolo della donna nella società contemporanea.
Si tratta ovviamente di #MeToo, che ha assunto come bandiera identitaria l’hashtag utilizzato su Twitter dalle donne vittime di violenza e di soprusi sul luogo di lavoro.
Il fenomeno non ha mancato di suscitare polemiche e controversie: c’è chi ha salutato #MeToo come una seconda primavera femminista e una grande conquista dei diritti civili in un mondo ancora eccessivamente succube del patriarcato, e chi invece ritiene che sia sfuggito di mano, innescando una sorta di indiscriminata “caccia alle streghe al rovescio” contro il mondo maschile.
Nessuno, però, è rimasto indifferente, dal momento che – in un senso o nell’altro – il fenomeno #MeToo ha inequivocabilmente sancito una svolta epocale in seno all’Occidente contemporaneo.
Il nuovo film di Maria Schrader, She Said (tradotto in italiano come Anch’io, in esplicito richiamo allo slogan del movimento) prova a raccontare l’indagine giornalistica da cui tutto ha avuto inizio, raccogliendo il testimone delle altre grandi inchieste liberal sul grande schermo.
Inserendosi in questo pluripremiato filone cinematografico, tuttavia, il film si ritrova anche a fare i conti con una serie di scomodi quanto inevitabili confronti con alcuni capolavori della settimana arte. Com’è andata? Scopriamo di più nella nostra recensione di Anch’io.
Anch’Io
Genere: Drammatico
Durata: 128 minuti
Uscita: 4 gennaio 2023 (Cinema)
Cast: Zoe Kazan, Carey Mulligan, Patricia Clarkson
La trama, un’inchiesta che sfida l’omertà
All’inizio della pellicola, la giovane Judi Kantor ha appena pubblicato un’indagine sulle molestie sessuali commesse da Donald Trump, e riceve una telefonata in cui il potente candidato alla Casa Bianca la definisce “un essere umano disgustoso”.
Poco dopo le viene recapitata a casa una busta anonima ricolma di escrementi, e la donna ne esce avvilita e terrorizzata.
Al termine dell’Election Day, Judi assiste sconfortata alla vittoria elettorale di Trump, e la vive come una pesante sconfitta personale, ritenendo di non essere riuscita a far capire all’opinione pubblica la gravità della questione.
Nelle settimane successive, a seguito dell’emersione di uno scandalo che coinvolge il giornalista Bill O’Reilly, la reporter intuisce che, prima ancora della politica, è l’industria cinematografica a nascondere all’opinione pubblica le peggiori nefandezze ai danni delle donne.
La nuova indagine la porta a tuffarsi sempre di più nel lavoro (anche a rischio di trascurare gli affetti familiari) e a unire le forze con la più esperta Megan Twohey.
Le due reporter fanno subito amicizia, e iniziano a indagare sulla figura del super-produttore Harvey Weinstein, mettendo insieme numerose testimonianze di prima mano relative agli anni Novanta: molte attrici confessano di aver subito violenze fisiche e psicologiche agghiaccianti, ma nessuna di loro è disponibile a essere citata come fonte.
A mettersi di mezzo sono gli NDA (“non disclosure agreements”, ossia “accordi di non divulgazione”) con cui è stata sancita la chiusura del loro rapporto con la Miramax di Harvey Weinstein, ma anche e soprattutto la paura di ritorsioni.
Nei giorni successivi, le due giovani inizieranno a lottare per fare breccia nel muro di timore e omertà, e nel corso delle loro ricerche scopriranno l’esistenza di vari episodi anche molto più recenti…
Una sceneggiatura che fatica a trovare il tono giusto
Come già si è accennato in premessa, raccogliere il testimone delle grandi inchieste giornalistiche americane sul grande schermo significava inevitabilmente mettersi in competizione non solo con il superlativo Il caso Spotlight (2015), vincitore del Premio Oscar per il miglior film, ma anche con altre pietre miliari del settore quali Tutti gli uomini del presidente (1976), Good Night, and Good Luck (2005), e Zodiac (2007).
Confronti difficili, da cui Anch’io esce purtroppo con le ossa rotte, soprattutto a causa di una sceneggiatura poco convincente, che fatica parecchio a trovare il tono giusto.
Nella prima parte del lungometraggio, i ritmi della narrazione sembrano più in linea con il linguaggio del thriller che con un racconto giornalistico, e la colonna sonora non fa che enfatizzare quest’impressione, tentando invano di trasmetterci un imminente senso di minaccia del tutto fuori luogo.
È difficile che Weinstein possa ingaggiare qualcuno per assalire fisicamente le due reporter, ma la telecamera continua a guardarsi intorno, quasi come se un improbabile agguato fosse dietro l’angolo.
Successivamente la scrittura del film corregge il tiro, e la tensione si smorza drasticamente lasciando spazio alla ricerca e all’indagine.
Anche qui, però, le sbavature non mancano: malgrado la vicenda degli abusi sia già di per sé più che sufficiente per suscitare un forte coinvolgimento emotivo, Maria Schrader vuole strafare, e rinuncia a un approccio asciutto e lineare per sottolineare e rimarcare a piè sospinto l’ascetica ascetica delle due reporter.
Certo, Kantor e Twohey sono sia giornaliste che donne, sia mogli che mamme, ma la continua enfasi su questo aspetto e sulle loro vicissitudini familiari non è sufficiente ad aggiungere una vera sottotrama di peso al racconto, finendo soltanto per appesantire (e allungare eccessivamente) la narrazione, a cui molto gioverebbe una maggiore lucidità espositiva.
Il cast convince, i personaggi no
Da parte loro, le due attrici protagoniste – Carey Mulligan e Zoe Kazan – fanno un ottimo lavoro per dare profondità emotiva ai propri personaggi: l’alchimia recitativa del duo è autentica e convincente, e riesce a toccare corde molto profonde nello spettatore, portandolo a immedesimarsi con gli sforzi delle reporter.
Performance altrettanto ottime giungono dal resto del cast, e in particolare dalle vittime di Weinstein, che ci trasmettono con grande intensità la loro sofferenza e la loro paura di subdole ritorsioni.
Al tempo stesso, però, non possiamo non rilevare come la sceneggiatura affidi alle due protagoniste ruoli incredibilmente bidimensionali e stereotipati.
Jodi Kantor è la giovane reporter alle prime armi, sempre pronta a commuoversi, empatizzare e scoppiare in lacrime a ogni svolta nell’indagine, mentre Megan Twohey è una giornalista determinata, caparbia ed esperta, e trascina la giovane collega ogni volta che le cose si mettono male.
La connotazione è più che legittima, ma finisce per essere ripetuta ossessivamente, senza alcuna evoluzione, per l’intera durata del film: al netto dei chiari sforzi compiuti dalle loro interpreti, i personaggi di Anch’io finiscono così per risultare piatti e statici, indebolendo l’intera architettura del lungometraggio.
Una denuncia forte e lucida
Al netto di una struttura imperfetta e un po’ ridondante dal punto di vista tecnico cinematografico, Anch’io colpisce comunque nel segno laddove si tratta di lanciare un messaggio di denuncia con chiarezza e intensità.
A risultare particolarmente efficaci sono sia i brevi flashback che ci mostrano tutto il dolore e la paura delle vittime, sia la una spettrale sequenza in cui la telecamera percorre il corridoio deserto di un hotel, mentre in sottofondo riecheggiano le parole di Weinstein e le suppliche delle giovani attrici.
Un autentico tuffo diretto nel “cuore di tenebra” alla base del reportage che, pur deviando anche in quest’occasione dai freddi e asettici stilemi del cinema d’inchiesta, si rivela qui incisivo e vincente, riuscendo a trasmetterci tutta la carica drammatica dei misfatti in questione.
La denuncia del film e della sua regista trae forza anche e soprattutto dalla nitida precisione e dalla rigorosa attinenza ai fatti e alle testimonianze, senza mai indulgere alla semplificazione e alla spettacolarizzazione.
Al netto delle cadute di stile sul versante più prettamente cinematografico, il film centra in pieno il suo obiettivo principale, e ci consegna una testimonianza autentica e genuina: “Per me – ricorda sconsolata una delle vittime di Weinstein – fu come se mi avessero rubato la voce, quel giorno. Proprio mentre la stavo appena trovando…”.
Un antagonista nell’ombra
Un altro aspetto ben riuscito del film di Maria Schrader è sicuramente la scelta di non mostrare mai in volto il grande antagonista della vicenda, ossia il produttore cinematografico Harvey Weinstein.
Quella che possiamo sentire nella cornetta in varie conversazioni telefoniche è proprio la sua voce, registrata e resa disponibile agli atti, mentre nel finale lo vediamo sempre e soltanto inquadrato di spalle, interpretato dall’attore Mike Houston.
L’idea, ovviamente, non è quella di mettere in scena una sorta di oscura e incombente “minaccia impersonale”, come potrebbe piuttosto inopinatamente suggerirci il tono thriller del primo atto, bensì quella di rivolgere l’attenzione alle vittime, che sono le vere protagoniste del racconto.
Portare esplicitamente in scena il perverso e corpulento “sovrano di Hollywood” avrebbe senz’altro richiesto una performance attoriale memorabile, che avrebbe inevitabilmente finito per catturare l’attenzione della quasi totalità degli spettatori, rubando la scena alle molte donne che per fin troppo tempo sono state costrette al silenzio.
Una trappola insidiosa, a cui la regista riesce a scampare nel migliore dei modi: relegando nell’ombra l’orco-Weinstein, Maria Schrader riesce ad accendere nel migliore dei modi i riflettori sulle vere protagoniste della vicenda, ossia le vittime dei suoi abusi.
Lo stesso, purtroppo, non accade nei confronti delle reporter del New York Times che hanno portato alla luce la loro storia: a volte, per quanto indubbiamente coraggiose e meritevoli di ogni elogio, anche le due giornaliste Kantor e Twohey finiscono per sottrarre spazio e attenzione alle giovani vittime.
Non è un caso se la storia inizia a funzionare soltanto da quando la sceneggiatura sceglie di mettere da parte il panegirico delle reporter – costrette a dividersi tra casa e lavoro – e concentrarsi sui fatti.
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La recensione in breve
Anche io riesce a trasmettere con forza il proprio messaggio di denuncia, ma incespica sulla costruzione di un’inchiesta giornalistica di peso, faticando a trovare il tono corretto della narrazione e a delineare adeguatamente le proprie protagoniste. Un film molto imperfetto, ma altrettanto efficace.
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Voto ScreenWorld