Inutile negarlo: il grande Cinema nasce nel sottile equilibrio tra visioni e idee. Molti registi diventano maestri di un genere, pionieri di mondi affascinanti e circoscritti. I grandi, invece, diventano tali perché hanno una percezione diversa: non è il genere a fare l’opera, ma il punto di vista. Così autori come Scorsese e Spielberg hanno saputo vagare tra mondi differenti, sperimentando con i linguaggi per cambiare davvero le cose. Non se ne parla mai abbastanza, ma anche Steven Soderbergh rientra tra i grandi del nostro tempo: autore seminale, vero virtuoso della tecnica filmica, il regista degli Ocean’s, di Traffic, ma soprattutto di Sesso, bugie e Videotape è una delle personalità più influenti di Hollywood.

La sua è una visione (un punto di vista, non a caso) completamente libera, a tratti anarchica per quelle che sono le logiche del sistema. Basta guardare la sua produzione recente per capirlo: pochi dispongono della forza produttiva e delle possibilità creative per passare nel giro di un anno da film ad alto budget come Black Bag a opere “piccole” come Presence. Ciò che il primo espone attraverso il dubbio, il secondo suggerisce attraverso lo sguardo. Dopo il thriller, Soderbergh si tuffa in un esperimento horror in cui il terrore non riflette solo ciò che non si vede, ma soprattutto ciò che possiamo diventare.

Presence diventa così mezzo ed esperimento, uno strumento di destrutturazione. Una produzione capace di offrire momenti di brillante autorialità, spinta dall’ambizione di lasciare al mondo qualcosa di unico: l’idea che il paranormale possa essere meno terrificante del reale.

Presence
Genere: Horror, drammatico
Durata: 85 minuti
Uscita: 24 Luglio 2025 (Cinema)
Regia: Steven Soderbergh
Cast: Lucy Liu, Chris Sullivan

L’assenza (e l’essenza) dei fantasmi

una scena di Presence
Una scena di Presence – ©Lucky Red

Soderbergh si cimenta davvero nella ghost story, ricordando il tema silenzioso e dirompente dell’omonima opera di David Lowery ma con una struttura che non potrebbe avvicinarsi di più alla perfetta quadratura formale. Aiutato dalla sceneggiatura di David Koepp, il regista abbraccia l’orrore nella sua forma più ambigua, riflettendo sui contrasti: il film si chiama Presence, ma ragiona soprattutto sul peso dell’assenza, su uno spettro che si fonde con la macchina da presa in un’osservazione partecipata. L’horror atipico di Soderbergh vive di sguardi: quelli dei membri di una famiglia complessa, quelli della presenza/spettatrice che non abbandonano mai la scena.

Il contesto diventa più di un semplice teatro di eventi: la casa/luogo si fa specchio delle vicende, tela su cui si consuma un dramma familiare che parte da uno squilibrio per stravolgere le gerarchie comuni. Così quella prospettiva forzata che in Here di Robert Zemeckis sfruttava il tempo come voce del luogo si fa qui strumento di analisi. Attraverso la presenza, Soderbergh riflette sul linguaggio filmico e consegna l’ennesima perla di rara sensibilità. La cura è tutta in ciò che non si vede, come solo i grandi osservatori sanno raccontare: Presence custodisce una magia purissima, nata dall’intuito e portata in scena con rara intelligenza tra caratteri e visioni d’autore. In quella linea impercettibile che separa la realtà dalla percezione, il film trova la forza di elaborare ogni conflitto – forse persino il modo di rendere lucido un dolore che non si può spiegare.

Negli spazi del Cinema

una scena di presence
Una scena di Presence – ©Lucky Red

Perla assoluta di senso e figura, questa ghost story rischia di farsi magistrale in più occasioni. Checché se ne voglia pensare, Presence è un’opera dominante, icona perfetta di un Cinema piccolo che solo i grandi autori sanno realizzare. Se è al linguaggio che si vuole puntare, sul ruolo effettivo di chi oggi osserva (lo spettatore), non poteva esserci soluzione più azzeccata: un horror che riflette su se stesso e si rivela essere tutt’altro. Che ci sia ancora questo profondo interesse nell’andare oltre lo sguardo, con eleganza e consapevolezza, è una fortuna dal valore inestimabile.

Quasi un ritorno alle origini, per una Settima Arte che si faccia voce del reale proprio quando il reale non sa come esprimersi, lasciando che siano le immagini a comunicare. Nei movimenti di macchina, negli squarci grandangolari di una casa-mondo, emerge la poesia degli istanti rubati che ha reso opere come Here così grandi – e che forse, qui, trova persino una direzione ancor più travolgente.

Il regista dice tutto con i suoi silenzi, dando voce all’atto stesso di esistere in quell’altrove indefinito. Un altro tentativo di riavvicinarci alla sorgente del medium, abbattendo la barriera dello schermo, i confini tra oggetto e soggetto, per provare davvero a vagare fra quegli interminati spazi di celluloide. In un mondo di storie già scritte, Steven Soderbergh dimostra di aver compreso il reale meglio di chiunque altro, dandogli la forma di una presenza confusa che in quei minuti che separano l’inizio dalla fine deve solo decidere di che morte morire.

Conclusioni

8.0 Imprescindibile

Con Presence, Steven Sorderbergh si conferma una delle menti più brillanti del Cinema moderno. Il suo horror atipico elabora la ghost story per riflettere su stilemi e linguaggi, rielaborandoli sotto la lente di uno spettatore sempre più partecipe. C'è il thriller, c'è il dramma familiare, ma c'è soprattutto un Cinema che sa ancora evolversi per stupire.

Pro
  1. Il controllo di Soderbergh del mezzo-macchina è ancora una volta magistrale
  2. La sceneggiatura di Koepp è coesa, chiara e lucida. Quasi uno script d'altri tempi.
  3. La rappresentazione simbolica e filmica della presenza porta l'operazione su un livello superiore.
Contro
  1. Per gestione dello sguardo e del ritmo, potrebbe non essere una visione piacevole per tutti
  • Voto ScreenWorld 8
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Classe '94. Critico e copywriter di professione, creator per passione. Ha scritto e collaborato per diverse realtà di settore (FilmPost.it, Everyeye) con la speranza di raccontare il Cinema e la cultura pop per il resto della sua vita.