Questa è la storia di un volo dirottato. Un viaggio che aveva una destinazione e poi ha cambiato meta. Era nata come un mediometraggio da proiettare sugli aerei di linea della Japan Airlines. Poi si è trasformata, come spesso capita ai racconti firmati Hayao Miyazaki, che ama cambiare di continuo anche i suoi personaggi. Come succede spesso nelle fiabe, in cui le metamorfosi nascondono morali e allegorie. Questa volta la trasformazione nasce da un’esigenza: agli inizi del 1991 in Jugoslavia scoppia una guerra civile, e Miyazaki avverte l’urgenza di raccontare le conseguenze di quella piaga vecchia quanto l’uomo. Per informazioni rivolgersi a Marco Pagot, straordinario aviatore dell’aeronautica militare, che è tornato dalla Grande Guerra diverso da prima. Molto diverso da prima. Era partito umano, è tornato maiale. Il perché e il come non è dato saperlo.

E se non interessa a Miyazaki, non vediamo perché debba interessare noi. Parte da qui Porco Rosso, capolavoro animato che da oggi torna al cinema 30 anni dopo la suo primo decollo. Un’ottima occasione per riscoprire un film ispirato e ricchissimo, spesso ricordato solo per una frase talmente ispirata, emblematica e iconica da coprire tutto il resto (la celeberrima “piuttosto che diventare un fascista, meglio essere un maiale“). Un’opera che dietro le rotonde fattezze del suo protagonista nasconde domande spigolose. Domande che dopo 30 anni sorvolano ancora le nostre teste e, chissà, anche i nostri cuori.

Cosa rende un uomo un uomo?

Un frame di Porco Rosso

C’è un aspetto che colpisce sempre di Porco Rosso: il cortocircuito tra l’estetica e il carattere del suo protagonista. Porco Rosso è un maiale antropomorfo, ha un volto suino e un aspetto ripugnante più per il pubblico che per i personaggi del film. Qualcuno si aspetterebbe una creatura goffa, un freak incapace di integrarsi nella società, ma non saremmo in un film di Hayao Miyazaki. Come detto, la sua poetica si affida spesso alla trasfigurazione perché ha bisogno di un terreno ibrido sotto i piedi. Ibrido proprio come il nostro maiale volante. Porco Rosso si aggira tra terra, mare e cieli con grande disinvoltura, straordinario carisma e una sicurezza che non lo fa percepire mai come un elemento davvero straniante. Nonostante qualcuno lo chiami “maiale” con disprezzo, Porco Rosso è un solitario non un escluso. Il che ci fa venire un dubbio: perché lo vediamo così? Come mai Marco Pagot è tornato così sfigurato dalla guerra?

La prima teoria è la più immediata. Quella di pancia suggerisce che sia stata la guerra a trasformarlo in un maiale, a macchiarne la coscienza, a fargli puzzare l’anima. Guardando le cose così il maiale è il marchio della vergogna con cui gli altri giudicano l’uomo. Oppure potrebbe essere il contrario. Forse è il vecchio Marco a vedersi così, a sentirsi così: sporco. Quindi quella è la maschera che ha indossato da solo per privarsi di una normalità che non merita più. E infine, forse la visione più suggestive e poetica. Forse quella più vicina alle intenzioni nobili di Miyazaki (come suggerito dalla frase cult). Forse dovremmo ribaltare la percezione delle cose, perché essere un maiale ha salvato Pagot. Allontanarsi dalla miserabile natura umana lo ha nobilitato e gli ha permesso di guardarla con occhi nuovi. Non per giudicarla dall’alto in basso, ma per affrontarla con più leggerezza e sincerità. Senza prendersi troppo sul serio, armato di disincanto, ironia e un tocco di ruvido sarcasmo. Le sue armi più potenti di qualsiasi mitragliatrice.

Ci possiamo salvare da soli?

Un frame iconico di Porco Rosso

L’immagine di Porco Rosso che viene in mente è sempre quella: occhiali da aviatore sul muso e baffetti al vento con Porco Rosso guarda in camera, sorride ai comandi del suo aereo e tira su il pollice. È soddisfatto, fiero, in pace con sé stesso. Felice di quello che sta per fare: ovvero affrontare i pirati dei cieli o cacciare taglie per il bene del mondo. Di fatto Porco Rosso è un eroe molto temuto e rispettato, ma è un eroe riluttante. Un eroe che non si sente tale e non vuole essere esaltato dalle persone. Attraverso questa figura a suo modo tragica, Miyazaki ha dato vita a un personaggio dotato di un grande superpotere: la riservatezza. Merce rara per chi compie grandi imprese come le sue. Sin dalla sue tipiche pose (mani in tasca e braccia conserte), Porco Rosso si impone come persona (sì, lo è) schiva, solitaria e distante dal resto del mondo.

Una condizione esistenziale che sembra quasi la sua corazza, la sua protezione. Il nostro aviatore si allontana da tutto e tutti per non legarsi a nessuno. Il dazio da pagare per essere libero. Libero di essere un eroe che rischia la vita. Libero di non essere pianto da nessuno e di non piangere nessuno qualora la sua missione finisca in tragedia. Non amare e non essere amato è dunque la condanna per essere un vero paladino? Dopo un’esperienza disumana come la guerra ci si può salvare soltanto da soli? Forse rimanere con sé stessi è l’unico modo per tornare al mondo? Altre domande che aleggiano nei cieli di Porco Rosso.

Si può sognare con i piedi per terra?

Porco Rosso nel finale del film

Lo Studio Ghibli ha sempre volato sospeso tra due opposti. Da una parte la fantasia più disparata, dall’altra la realtà più disperata. Lo dimostrano due film usciti lo stesso anno, per le precisione appena quattro anni prima di Porco Rosso: Il mio vicino Totoro e La tomba delle lucciole. Due opere straordinarie in cui Hayao Miyazaki e Isao Takahata hanno raccontato meraviglie e orrori, alternando sogni fanciulleschi e guerre spietate. Per certi versi Porco Rosso si ferma a metà strada, diventando quasi il perfetto ibrido tra queste due anime solo in apparente conflitto.

Perché Porco Rosso è una fiaba coloratissima, quasi sempre solare, piena di sogni e di passioni, ma anche una storia consapevole delle nostre eterne miserie. Dentro c’è l’amore viscerale di Miyazaki per gli aerei (disegnati con cura certosina), la storica stima per le figure femminili sempre valorose e decisive, il fascino per un’Italia del Nord che sembra esistere davvero, ma di fatto è uno strano incontro tra i navigli di Milano e le isole dei laghi lombardi. E poi c’è l’ottusità della natura umana sempre guerrafondaia, propensa al conflitto, mai pacifica. E soprattutto la guerra sempre in sottofondo, come una maledizione onnipresente. Porco Rosso ha un’ultima domanda da porci: si può sognare con i piedi per terra? Si può essere come Porco Rosso, e amare in silenzio, sottrarsi ai sentimenti solo per non farli spegnere mai? Miyazaki ha questo dono: non impone mai risposte. E con Porco Rosso ci fa volare da trent’anni dentro un cielo pieno di domande e splendidi dubbi.

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Nato a Bari nel 1985, ha lavorato come ricercatore per l'Università Carlo Bo di Urbino e subito dopo come autore televisivo per Antenna Sud, Rete Economy e Pop Economy. Dal 2013 lavora come critico cinematografico, scrivendo prima per MyMovies.it e poi per Movieplayer.it. Nel 2021 approda a ScreenWorld, dove diventa responsabile dell'area video, gestendo i canali YouTube e Twitch. Nel 2022 ricopre lo stesso ruolo anche per il sito CinemaSerieTv.it. Nel corso della sua carriera ha pubblicato vari saggi sul cinema, scritto fumetti e lavorato come speaker e doppiatore.