Il freddo nelle ossa non va via. L’eco dei suoi ritornelli è ancora tra noi, mentre inquietanti pupazzi di neve infestano le nostre vite anche negli autogrill e nei supermercati. Sono passati dieci anni dall’uscita di Frozen e ne portiamo ancora i segni addosso. Una valanga inarrestabile partita nel 1940 quando Walt Disney immagina per la prima volta un film dedicato all’autore danese Hans Christian Andersen, papà di una marea di fiabe popolari. Tra loro c’è La regina delle nevi, racconto fantasy nordico risalente al 1844, che Walt fatica a produrre perché la protagonista è troppo difficile da animare. E così non se ne fa niente. Progetto messo in ghiaccio e riesumato soltanto nel 2013.
Zio Walt l’aveva solo immaginato, ma forse nemmeno il suo proverbiale ottimismo avrebbe previsto il tormentone (o il tormento, a seconda dei punti di vista) sollevato da Frozen. Ovvero il secondo Classico Disney con più incassi di sempre, superato solo dal suo sequel Frozen II a suon di miliardi di dollari, canzoncine e merchandise tartassante. Un successo clamoroso che, secondo noi, nasconde una coperta abbastanza corta. Ecco perché il tanto amato Frozen, forse, è un po’ troppo sopravvalutato.
Senza immaginario
Prima, però, mettiamo subito le cose in chiaro. “Sopravvalutato” non significa che Frozen sia un brutto film, anzi. Per noi è semplicemente un buon film andato molto oltre i suoi effettivi meriti. Il suo successo, però, non è inspiegabile e nasce da almeno un paio di intuizioni vincenti e innovative, che hanno fatto breccia nel cuore del pubblico (dei più piccoli soprattutto). La prima: aver puntato tutto su un sentimento inedito per un Classico Disney: l’amore tra sorelle. Un legame universale e viscerale in cui tante persone si sono riconosciute. Altra trovata vincente? Aver travestito il cattivo di turno come il buono della storia. Nella sua semplicità aver camuffato il perfido Hans con i panni del classico principe azzurro perfetto ha creato un cortocircuito molto straniante per bimbi e bimbe. Detto questo, però, troviamo che il successo commerciale di Frozen sia sproporzionato rispetto al suo reale valore artistico.
Il primo problema del film è proprio la sua ambientazione, troppo piatta, anonima e generica per un Classico Disney. Disney che ci ha sempre catapultato dentro immaginari fantastici facendoci avvertire il fascino di altri mondi e altre culture. Dagli abissi di Ariel all’Antica Grecia di Hercules, passando per l’oriente di Aladdin, lo steampunk corsaro de Il pianeta del tesoro o il fantasy dark di Taron e La Pentola Magica, i Classici hanno spesso dato vita a mondi fantastici ispirati, ammalianti, quasi tangibili. Ecco, in Frozen non c’è nulla di tutto questo. Perché il suo immaginario non ci fa mai percepire davvero miti e leggende delle terre nordiche.
Non si avverte mai il folklore scandinavo, non abbiamo mai la sensazione di essere fuori da una fiaba standard senza carattere. Per un esempio virtuoso in tal senso bussare dalle parti dell’ispirato Klaus in casa Netflix. In Frozen, invece, come se i personaggi che si muovano su un palco spoglio. Dove tutto l’immaginario è freddo e immobile come un pezzo di ghiaccio. Ora, qualcuno potrebbe dire che anche Rapunzel (che noi troviamo molto superiore a Frozen) soffre dello stesso difetto, ma va detto che quel film era volutamente standard nel rappresentare i canoni delle fiabe classiche da prendere in giro e ridefinire in chiave ironica. Un po’ sulla falsa riga di Shrek dieci anni prima. Frozen no. Frozen crede nella magia anche senza maneggiarla davvero.
Character design piatto
Questo immaginario anonimo è figlio di un comparto artistico molto pigro a livello estetico. Fateci caso: le ambientazioni di Frozen sono pochissime e poco memorabili. Da una parte il regno di Arendelle, dall’altra il castello di ghiaccio in cui si rifugia Elsa e in mezzo soltanto una distesa di neve, ghiaccio e alberi. L’unico timido tentativo di creare qualcosa di vagamente creativo è il regno dei troll, che però non spicca certo per originalità. Piccoli troll che mostrano anche l’altro fianco scoperto di Frozen: il character design. Se Elsa, Anna e Kristoff sembrano usciti da Rapunzel (e ci può anche stare visto che i film sembrano ambientati nello stesso universo), i troll, il gigante di ghiaccio e Olaf (ma su di lui torneremo presto) sono l’emblema di un film Disney senza carattere e per niente ispirato nella cura estetica dei personaggi.
Non va meglio con le canzoni. Perché, diciamolo, la tanto rinomata Let it Go sembra un singolo uscito da un Sanremo degli anni Novanta. Orecchiabile, certo, ma lontana anni luce dagli arrangiamenti e dalla profondità della tradizione canora dei classici Disney (pensiamo a Come Vorrei di Ariel o a I colori del vento Pocahontas, solo per fermarci ai monologhi femminili). Senza andare troppo lontano: secondo noi Nell’ignoto (Into the Unkown in originale) di Frozen II è già su un altro livello rispetto a Let it Go).
E che dire nel numero corale iniziale Cuore di ghiaccio? Per impallidire al sol confronto, rivolgersi dalle parti de Le Campane di Notre Dame e perdersi nell’abisso.
Il male incarnato: Olaf
C’è un momento di Once Upon a Studio, il corto animato che celebra i 100 anni della Disney dove il Genio di Aladdin si trova al fianco di Olaf. Ecco, quell’immagine per noi rappresenta da sola l’intero declino della creatività Disney. E non si tratta solo di nostalgia o di mitizzazione del passato, sia chiaro. Perché siamo davanti a due spalle agli antipodi: uno davvero istrionico, geniale, creativo e imprevedibile; e un altro senza alcun tipo di personalità. Da queste parti, lo ammettiamo, abbiamo un grosso problema con Olaf. Un personaggio stucchevole (nell’elemosinare affetto dai personaggi e dal pubblico), dall’aspetto imbarazzante e logorroico pur non avendo niente da dire (ma ha anche dei difetti).
Di solito le spalle Disney entravano in complicità con i protagonisti, erano a supporto della storia, invece Olaf sembra pretendere la scena per cimentarsi in siparietti tutti suoi totalmente scollati dal contesto. Qualcuno potrebbe obiettare “Olaf è un personaggio per bambini”, la tipica mascotte messa lì a fare il giullare, ma anche qui la tradizione Disney è impietosa nel confronto. Perché da sempre il Genio, Filottete, Sebastian, Lumiere e Mushu ci hanno fatto ridere un sacco, ma erano personaggi stratificati, che avevano più chiavi di lettura. Una profondità che non riusciamo a ritrovare nel maledetto pupazzo di neve. Emblema di un film andato molto oltre i suoi meriti.
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