Da qualche tempo si parla sempre di più di Neon, piccola casa di distribuzione fondata nel 2017 a New York. Si tratta di un esempio virtuoso di cinema indipendente che ha l’obiettivo di preservare la sala cinematografica in contrasto ai giganti dello streaming. I risultati? Incredibilmente sorprendenti. Si è appena concluso Cannes 78 che ha visto trionfare un film di Neon per il sesto anno consecutivo. Dopo Parasite, Titane, Triangle of Sadness, Anatomia di una caduta e Anora, quest’anno ha vinto la Palma Un Semplice incidente, ultima opera militante dell’iraniano Jafar Panahi. Ma non solo, Parasite e Anora hanno anche vinto i principali premi Oscar.

Neon distribuisce in tutto il nord America. Il successo è dovuto evidentemente al grande intuito dei fondatori Tim League e Tom Quinn, i quali spesso, come nel caso di Parasite, comprano i diritti dei film anche prima che essi vengano girati. Gli imprenditori di Neon hanno la capacità di capire in anticipo quali prodotti potrebbero essere al passo con i tempi in relazione alle tematiche, circondandosi inoltre dei registi più talentuosi, anche agli esordi, e coltivando un forte legame con il cinema francese – da qui i successi di Cannes. Neon ha anche distribuito due ottime opere italiane: A Chiara e La Chimera. In attesa che i film di quest’ultima edizione arrivino in Italia, andiamo a vedere i migliori realizzati fino ad ora. Da Parasite ad Anora: i migliori 10 film distribuiti da Neon.

1. Ritratto della giovane in fiamme (2019)


Il miglior film di Neon è Ritratto della giovane in fiamme, potente racconto di formazione settecentesco di Celine Sciamma, tra le voci più interessanti del cinema europeo. Attraverso lo sguardo delle protagoniste, il film propone un radicale ribaltamento del punto di vista: non ci sono personaggi maschili affinché la prospettiva femminile, storicamente quasi sempre subalterna a quella degli uomini, assuma totale centralità. Con questa premessa, Sciamma indaga le dinamiche di tre donne sottolineando la loro rabbia, solitudine e conflitto interiore. La pellicola ha la rara qualità di riuscire a dire tante cose senza alzare la voce, rinunciando ai didascalismi, affidandosi anzi alla contemplazione, ai silenzi, alle suggestioni offerte da castelli e scogliere e a una fotografia calda, passionale come le protagoniste, che sembra olio su tela.

Ma cosa ha da dirci, dunque, Ritratto della giovane in fiamme? Prima di tutto ci racconta di una femminilità non monolitica e poco definibile. Una femminilità che si manifesta nell’urgenza di esistere: è urgente e infuocato lo stato d’animo di Héloïse, giovane ribelle che nel rifiutare di farsi dipingere dagli uomini rifiuta la natura intrinsecamente oggettificante dello sguardo, accettando invece quello di una donna, Marianne, che nel ritrarla sperimenta un percorso a specchio di riconoscimento dell’altra e di se stessa. Ci racconta quindi di una femminilità empatica: è importante anche il personaggio di Sophie, cameriera nel castello, validata come pari da Héloïse e Marianne nonostante la differenza di classe sociale. Tramite Sophie, Sciamma ribadisce con delicatezza come l’identità si costruisca sul corpo e sulla sua autodeterminazione.

Ritratto della giovane in fiamme merita il primo posto perché qui la female gaze, lo sguardo femminile in alternativa alla male gaze, si manifesta con una portata raramente vista in precedenza. Non sappiamo ancora quanto e come questa freschezza possa portare in futuro nuovi approcci, storie e istanze al cinema. Sappiamo, per ora, che l’operazione di Sciamma è una delle più rilevanti degli ultimi anni per la sua complessità d’analisi e semplicità d’esposizione. Il film preso in analisi in cima al nostro articolo è, in conclusione, paragonabile a una candela che si consuma lentamente ma in maniera inesorabile: non puoi contrastare la sua impellenza di bruciare, ma puoi osservare le sfumature della fiamma e toccare la cera calda.

2. Parasite (2019)


L’altro pezzo da 90 della filmografia di Neon è senza dubbio Parasite. Dopo Snowpiercer e Okja, interessanti ma non eccellenti esperimenti hollywoodiani, nel 2019 Bong Joon-ho torna a dirigere un film in coreano. Le tematiche sono quelle spesso affrontate dal regista: la questione della classe e del (non) dialogo tra poveri e ricchi. Il film si pone in continuità con il filone “eat the rich”, corrente culturale spesso più utile a estetizzare la ricchezza che a proporre una satira efficace, affermandosi con prorompenza e lucidità d’analisi. Il segreto? Parasite annulla la distinzione tra cinema colto e cinema popolare, categorie in realtà inesistenti o comunque non statiche, soprattutto in epoca post-moderna, affermandosi come un prodotto molto più utile e accessibile dei suoi simili.

Bong-Joon ho lavora poi in maniera egregia con i simbolismi: c’è la questione dell’odore, che secondo i Park sarebbe più marcato nella famiglia povera, a rappresentare una barriera sociale invisibile e per questo inestirpabile. Ma soprattutto, chi è il parassita? La famiglia povera entra nella casa e nella vita di quella ricca manipolando e ponendosi in competizione con altri poveri, ma lo fa in reazione al parassitismo dei ricchi, i quali costringono la maggior parte della popolazione alla fame. Ne consegue un circolo vizioso difficile da spezzare perché in tutti i personaggi manca un elemento fondamentale: la compassione. Parasite riesce a riflettere su tutto questo servendosi dei codici della dark comedy, del thriller e dell’horror, alternando e mischiando i generi con incredibile organicità e lavorando sul climax fino a un (inevitabile) finale strabordante ai limiti della distopia.

3. Titane (2021)


Tra Cronenberg e Tsukamoto, Titane si affida al body horror ponendosi in continuità con i grandi cult del genere. L’operazione di Julia Ducornau ci parla di alienazione, di affermazione della propria identità e di accettazione. Nel rapporto sessuale tra Alexia e la macchina e nella gravidanza si affermano l’alienazione e la mostruosità, nonché la pressione sociale sulla non conformità del corpo della protagonista: un corpo deformato da ciò che ha in grembo e costretto ad assumere un aspetto maschile per coprire la propria identità. La tematica dell’accettazione si dispiega nella seconda metà del film quando Alexia incontra Vincent, improbabile padre adottivo che decide di occuparsi di lei convinto che si tratti del figlio scomparso anni prima.

Titane è un film poco lineare nel dispiegamento narrativo, in grado di alternare ritmi e toni umorali, a proprio agio nel cambiare direzione senza preoccuparsi di definire nulla. Questa elasticità è in funzione di un finale imprevedibile, potente e catartico. Nel percorso rimangono impresse alcune scene tra il surreale e il comico: abbiamo la scena in cui Vincent rianima un ragazzo al ritmo della Macarena o la sequenza in cui Alexia si trova esasperata dalla quantità di persone che è costretta a uccidere – geniale la scelta di accompagnare il tutto con Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli. In un periodo storico in cui autori e autrici tendono a urlare le cose che hanno da dire, un film fluido, coraggioso e poco programmatico come Titane è prezioso.

4. Petite Maman (2021)


Altro film francese, soprattutto altra opera di Celine Sciamma: Petite Maman miscela family drama e fantastico al fine di indagare il lutto, il dolore e le relazioni intergenerazionali. Un film piccolo e sostanzialmente privo di trama in cui una bambina di otto anni, Nelly, conosce sua madre quando aveva la sua stessa età e la nonna, appena morta, più giovane di qualche decennio. Nell’amicizia che si va a creare tra le due bambine, mamma e figlia nello stesso periodo di vita, Sciamma riesce a colmare quella sorta di paradosso per il quale figli e genitori spesso non riescono a vedersi come essere umani completi al di fuori del proprio ruolo. Nella spontaneità della relazione amicale, tipica ed esclusiva dei bambini, Nelly trova nuove lenti per comprendere sua mamma anche da adulta.

Di Marion impara a conoscere soprattutto la tristezza e di conseguenza il suo assenteismo, le sue scelte, il suo rapporto con la nonna. Petite Maman è un’operazione dolcissima, di soli 73 minuti, in cui a una bambina viene regalata la possibilità di vivere una fiaba agrodolce in una sorta di mondo magico fortemente condizionato da un dolore reale – la depressione della mamma, la perdita della nonna – che sembrerebbe essere a metà tra un sogno e un ricordo. Il setting di campagna è decisivo: la casa in cui Marion è cresciuta, adesso da svuotare alla morte di sua madre, immersa tra foglie autunnali e ricordi di infanzia, assume il ruolo di una cartolina un po’ malinconica. Il film ci racconta di come le generazioni comunicano ma raccontandole in maniera circolare, non verticale.

5. Revenge (2017)


Revenge è un rape and revenge movie dai pochi dialoghi e dalla tanta, tantissima adrenalina. Si tratta del primo film di Coralie Fargeat, acclamata regista di The Substance, qui alle prese con un’operazione probabilmente più efficace e priva di fronzoli. Un’operazione che poggia soprattutto sulla semplicità di concetto e sulla concretezza nell’esecuzione: abbiamo il tropo della violenza sessuale e della parabola di vendetta, il ribaltamento dello stereotipo della ragazza attraente, sessualizzata e priva di autodeterminazione e l’emancipazione che si sviluppa nei codici dell’action e del survival. Jen, a seguito dello stupro, utilizza il deserto in cui il film è ambientato come una sorta di arena per sopravvivere e tentare di sconfiggere i tre uomini che le danno la caccia – diventerà Lara Croft all’alba del MeToo.

Revenge non fa nulla di originalissimo, ma è proprio attraverso la semplicità e all’aiuto di meccanismi ben codificati che Fargeat riesce a mettere in piedi un’opera più interessata al cuore dell’azione e alla storia che a proporre una tesi – al contrario del più evanescente e “teorico” The Substance. È poi molto interessante la regia, la padronanza dei linguaggi e la capacità di fare di necessità virtù di fronte ai soli tre milioni di budget a disposizione – considerando anche il fatto che si tratta di un’opera prima. In Revenge, inoltre, è presente con qualche anno di anticipo un elemento ormai pervasivo nel cinema di questo decennio: la ridicolizzazione degli uomini come strumento di provocazione, con approccio volutamente generalizzante. Gli ingredienti impiegati sono tutti a supporto di un film che non ha paura di essere fortemente di genere.

6. Pig (2021)

Attenzione!

Seguono spoiler su Pig

Difficile pensare a un film che inquadri l’idea di perdita, negli ultimi anni, con la stessa sensibilità e intelligenza emotiva di Pig. La pellicola d’esordio dello statunitense Michael Sarnoski riflette su come l’inconscio tenda a far patteggiare il senso di smarrimento e il dolore del passato con il proprio ego e necessità di autodeterminazione. Il maiale da tartufo rappresenta non solo un importante rapporto affettivo per Rob, ma anche il suo legame con le proprie emozioni e, appunto, con il proprio passato. Il rapimento del maiale, dettato da ragioni produttive, simboleggia un forzato ritorno alla vita materialistica che il protagonista si era lasciato alle spalle, ben rappresentata dal mondo dell’alta moda culinaria e del cibo firmato. Come detto per Parasite, anche Pig fa dei simbolismi la sua cifra autoriale.

L’antefatto apre la strada a un piccolo road movie che lavora per silenzi e sottrazioni, mettendo a contrasto le profonde foreste dell’Oregon con il capitalismo e la cattiveria umana. La direzione attoriale e la sceneggiatura risultano elementi perfetti per un grande ritorno di Nicolas Cage, qui alle prese con il tropo dell’uomo di mezza età burbero, addolorato ma tutto sommato buono, come manifesta l’affetto che c’è tra lui e l’animale. Ma il tocco vincente, infine, lo troviamo nella penna di Sarnoski: l’autore costruisce l’impalcatura di quello che sembrerebbe un classico film di vendetta, per poi evitare alla fine la risoluzione violenta. Cosa resta, a mancata vendetta? La pace con se stessi, con il passato e la rottura dell’imposizione del proprio ego sugli altri. Pig, paradossalmente, funziona proprio nel suo finale anti-climatico.

7. Anatomia di una caduta (2023)


Anatomia di una caduta racconta di come la verità non sia assoluta ma frutto di convinzioni personali. Si tratta di uno di quei film che utilizzano generi specifici per parlare d’altro: si presenta come un dramma giudiziario, ma della verità processuale allo spettatore deve importare relativamente. Questa ambiguità è rappresentata dal tribunale, campo di battaglia in cui Sandra, accusata dell’omicidio del marito, è frammentata dalle tante verità soggettive, quasi mai legate ai fatti, ma più spesso al carattere e al modo di porsi di lei. Justine Triet sembra suggerirci quanto, sia nel pubblico che nel privato, una donna di mezza età dal carattere forte, non compiacente e di successo, sia ancora scomoda da digerire. E di come un uomo al suo posto, considerata la mancanza di evidenze, avrebbe avuto vita più facile.

Da Kramer contro Kramer fino a Storia di un matrimonio, il giudiziario è spesso utile ad analizzare i rapporti di genere e lo stato del matrimonio in quanto istituzione in un determinato periodo storico. In questo caso abbiamo il tema del doppio, bilanciato dal figlio ipovedente come metafora dell’incapacità di vedere, in una coppia dai ruoli invertiti: lei è una scrittrice affermata, lui è vittima di una moglie dai modi aggressivi. Ma questo presunto sbilanciamento, ci dice Triet, è più apparente che reale perché Sandra si è conquistata del potere in partenza a lei non concesso. Da qui l’espediente del tribunale, utilizzato come moltiplicatore del giudizio a cui Sandra è sottoposta per essere, semplicemente, una donna in un ruolo generalmente associato agli uomini. Anatomia di una caduta è dunque tra i migliori film di Neon per la sapienza con cui utilizza il legal drama, per l’eccezionale costruzione dei dialoghi e per una Sandra Huller che forse avrebbe meritato l’Oscar.

8. Anora (2024)


Di Anora si è detto moltissimo nel corso dell’ultimo anno, dal successo di Cannes 77 al trionfo agli Oscar dello scorso marzo. Il film di Sean Baker rappresenta molto bene questa epoca, caratterizzata da una costante rilettura in chiave moderna di tematiche, narrative e universi già esplorati in passato. In questo caso si tratta però di un film con idee e personalità, nonché di un’operazione di successo – di critica e premi, non un granché al botteghino – totalmente originale, cioè non legata a proprietà intellettuali o opere preesistenti e neanche al solito autore mainstream: una formula non così scontata, di questi tempi, come potrebbe sembrare. Dispiace constatare, tuttavia, che questa formula difficilmente riempia le sale, nonostante la pioggia di statuette e standing ovation tra un red carpet e una cerimonia di premiazione.

Anora avrebbe meritato qualcosa in più, da questo punto di vista, non perché sia un film straordinario, ma perché ha la lucidità di intercettare i tempi e inserirsi nel discorso con lucidità. Di lavoro sessuale si è tanto parlato al cinema, ma raramente la sua rappresentazione è risultata così autentica. La prospettiva di Baker è sempre quella: il lavoro sessuale è lavoro a tutti gli effetti, dunque la prospettiva deve essere sociale. La cinderella story di Ani si trasforma inevitabilmente in un incubo, nel lato oscuro di Pretty Woman: l’ascensore sociale è rotto e le lavoratrici e le ragazze sono nella parte basse della piramide.

L’operazione del regista è poi in tre parti: all’inizio è una brillante rom-com moderna. La parte centrale è tra la commedia slapstick, che ruba un po’ al cinema muto e un po’ a Wilder e Capra, e la commedia dell’assurdo tra John Landis e Fuori orario di Scorsese. Il cambio di direzione finale ci porta verso un grottesco family drama a chiudere i giochi. Un film a cui a tratti manca di un po’ di carica emotiva, ma gestito bene nei tempi narrativi ed egregiamente in un montaggio che si orienta tra diversi generi e influenze.

09. Palm Springs (2020)


Palm Springs è forse il film più folle, bizzarro e divertente del filone del loop temporale. Gli ingredienti sono dei migliori: Andy Samberg, Cristin Milioti, un buco spazio-temporale nel deserto, uno sposo infedele e una mean girl come damigella, alcolici a non finire e camice hawaiane, qualche scena di tortura, un paio di dinosauri e soprattutto una spalla sensazionale come J.K. Simmons. A differenza di altri prodotti di questo genere, Palm Springs propone due punti di vista: entrambi i protagonisti, Nyles e Sarah, sono bloccati nella stessa giornata, costretti a viverla all’infinito. La condivisione del paradosso permette ai due di affrontarlo insieme, sviluppando dinamiche da rom-com mai banali perché immerse in un mix di nichilismo e esistenzialismo.

Siamo di fronte a una riflessione sul senso della vita: cosa succederebbe se vivessimo sempre la stessa giornata, mentre tutti gli altri vanno avanti? Nulla più avrebbe senso, la noia e il cinismo diventerebbero i sentimenti principali e non avremmo più occasioni di crescita. D’altra parte, nella relazione romantica troviamo anche ottimismo e valorizzazione dei piccoli momenti: potrebbe sembrare il lavoro di Richard Linklater se il regista texano decidesse di alzare l’asticella della demenzialità nella propria filmografia. Palm Springs è dunque una commedia brillante dai fantastici tempi comici, con una impressionante chimica tra Samberg e Milioti e con tanti livelli di lettura. È in grado di comunicare un senso di familiarità che ti porta a pensare che, tutto sommato, restare bloccati nel loop con Nyles e Sarah non sarebbe poi così male.

10. Tonya (2017)


Tonya è un biopic poco conforme rispetto alla norma, di cui si apprezza la volontà di non volersi prendere troppo sul serio come spesso accade. È uno dei tanti prodotti che ultimamente stanno raccontando i fatti di cronaca degli anni ’90, l’epoca dell’esplosione del true crime che diventava cultura massiva. La figura di Tonya Harding viene scomposta e assemblata più volte attraverso le interviste ai protagonisti, a una narrazione non lineare e alla rottura della quarta parete. La pluralità di sguardi mette a fuoco la storia di una pattinatrice poco colta, molto ambiziosa, dal brutto temperamento ma tutto sommato più vittima delle circostanze che causa dei suoi mali. A rendere credibile tutti i punti di vista ci pensano le ottime interpretazioni: quella di Margot Robbie è la migliore della sua carriera, Allison Janney è una spaventosa madre abusante, Sebastian Stan il marito violento.

È interessante l’intenzione di Craig Gillespie di affidarsi all’ironia e a maschere caricaturali, più che a personaggi storici rigorosamente analizzati, in alternanza a momenti profondamente drammatici. Tonya è anche una storia profondamente statunitense nel parlare della provincia, della middle class, dei sogni di rivalsa, di individualismo e competizione e di come l’esposizione mediatica condizioni i processi giudiziari. È dunque un’operazione piuttosto anarchica che riesce, a tratti rischiando di andare anche un po’ fuori giri, a tenere insieme molti elementi. Attraverso una fotografia che richiama l’epoca, Tonya diventa manifesto di un pezzo di storia della cultura pop, utilizzando un irresistibile piglio graffiante e divertito e un’emotività immediata a discapito della razionalità.

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