Le immaginiamo così. Tutte e tre chiuse nella stessa stanza. A parlare, a confidarsi e farsi la stessa domanda: “Chi sono davvero io?”. Le tre donne sono Jackie Kennedy, Diana Spencer e Maria Callas. Tre icone a cui Pablo Larraìn ha dedicato una trilogia spirituale, cercando di immaginare le persone dietro i personaggi. Lo ha fatto senza puntare mai al realismo documentaristico, ma usando il cinema come specchio distorto in cui rievocare lo spirito inquieto delle sue protagoniste. E lo ha fatto sempre indossando i guanti. Con un rispetto e un tatto familiare solo ai grandi autori. Un rispetto che non è mai trasformato in reverenza fine a sé stessa o pura agiografia, perché queste Jackie, Spencer e Maria sono film che le mani se le sporcano eccome.
Col dolore, col rimpianto, con la sensazione di essere davanti a tre donne infelici, incapace di sentirsi davvero libere. Apriamo la nostra recensione di Maria, primo film in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2024, senza nascondere il nostro entusiasmo davanti all’ennesimo ritratto straordinario del regista cileno. L’ennesimo biopic insolito e personale di un Larraìn che scava nel cuore della più celebre cantante lirica del Novecento. Soltanto sette giorni al fianco di Maria Callas. Una settimana, l’ultima della sua incredibile vita, assieme a una donna che stava perdendo la voce. O forse la stava soltanto cercando.
Cercare la voce
Se avete visto Jackie e Spencer, lo sapete già. I film biografici di Larraìn non sono lineari, non sono didascalici e molto spesso non rispettano i fatti. I suoi ritratti femminili non vogliono raccontare la verità, ma immaginare, evocare, cercare di catturare suggestioni. Per Maria Callas la scelta del quando è fondamentale: sono i suoi ultimi giorni di vita. Callas è molto malata e vive ormai solo con i suoi domestici nella Pargi degli anni Settanta. Una città che è quasi a immagine e somiglianza di una donna dall’aria triste: desolata, vuota, priva della vecchia gloria di un tempo. Nel piano del suo crepuscolo, Maria Callas si chiede: “So ancora cantare?”. Una domanda che ne nasconde un’altra: “Ho mai fatto sentire davvero la mia voce?”. Dubbi esistenziali di una donna che riflette sul suo passato chiedendosi se abbia davvero avuto accanto qualcuno capace di amarla o soltanto un pubblico che l’ha idolatrata.
Ha così inizio un meraviglioso girovagare tra passato a presente. Un girotondo emotivo in cui Larraìn rimette insieme i pezzi di Maria Callas, ondeggiando tra il rapporto conflittuale con sua madre alla relazione con l’imprenditore Onassis. Senza dimenticare l’unica relazione piena di sincero affetto mostrata da Larraìn: quella con i suoi domestici, interpretati con grande misura da Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher. Il resto è tutto sulle spalle, negli occhi e nelle mani tremanti di un’Angelina Jolie davvero vibrante. Sempre misurata, mai sopra le righe, capace di raccontare lo stato emotivo di una donna complessa solo con gli sguardi e il modo di deglutire. Jolie dà vita a una Callas ieratica, severa e fragile allo stesso tempo. Una donna contraddittoria e per questo autentica.
Basta diva
Uno dei grandi talenti di Larraìn è quello di svestire attrici e (loro) personaggi della loro patina divina. Come successo in Jackie con Natalie Portman e in Spencer con Kristen Stewart, anche in questo caso un’attrice iconica come Jolie si sporca le mani con il tormento interiore di una donna piena di punti interrogativi. La bellezza di un film come Maria è tutta lì: nel non dare le risposte, ma nel suggerire stati emotivi, nel farci soltanto sfiorare i dilemmi e i drammi annodati tra le corde vocali di una donna che ha girato il mondo e alla resa dei conti fa i conti con quello che le è rimasto in valigia. In questo Maria è un film molto coerente con gli altri due della trilogia, ma va anche detta un’altra cosa.
A livello di messa in scena Maria è un film molto più rigoroso rispetto a Jackie e Spencer. Ci sono meno vezzi estetici e la sensazione è quella di una regia più sobria. Come a voler ricreare con la forma del cinema l’eleganza e la compostezza di un soprano straordinario. Certo, rimangono alcune sequenze visionarie e rimane anche la sensazione di essere lì, sul ciglio di una porta a spiare la vita di un’altra persona. Solo che Larraìn è pronto a coprirci la serratura. Perché quel morboso piacere voyeristico di molti biopic non gli appartiene. E così la sua Maria Callas non urla mai nemmeno quando canta a squarciagola. Tutto è sussurrato. E per una volta dei non ci resta la voce, ma solo i nodi rimasti in gola.
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La recensione in breve
Pablo Larraìn ci regala l'ennesimo biopic raffinato su una grande figura femminile del Novecento. Mai didascalico o ancorato al reale, Maria ci fa ondeggiare nello stato emotivo di una donna che si chiede: "Sono mai stata davvero amata?". La risposta non c'è e questo film è soltanto un meraviglioso punto interrogativo.
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Voto ScreenWorld