La Disney sarà anche in crisi d’identità, ma non prendetevela (troppo) con Wish. Il 62° lungometraggio d’animazione Disney è anche quello che debutta nelle sale di tutto il mondo in concomitanza con l’importante data del centenario dalla nascita dello studio di produzione animata di Walt Disney & Co. E allora, ecco arrivare al cinema una pellicola ibrida ed affascinante, che mescola con sapienza animazione tradizionale su cartone e pennelli e quella digitale, che ne ha sostituito predominio e magia da almeno venti anni a questa parte. Eppure, il risultato al botteghino internazionale è stato disastroso, il passaparola del pubblico fiacco e il responso della critica di settore al di sotto di ogni più rosea aspettativa. Cos’è che non è andato nella formula Wish?
Perché se è pur vero che la Walt Disney Animation Studios è da tempo che sembra non imbroccare il giusto successo di pubblico e stampa (lo stesso Encanto fu disastro al box-office ma ebbe seconda, gloriosa vita su Disney+), c’è da chiedersi perché i classici animati targati Topolino abbiano progressivamente scelto di intraprendere la strada della lenta agonia, tra indifferenza semi-generale della sua audience di riferimento e scollamento da ogni fatidico elemento che li rendeva iconici e riconoscibili nell’immaginario collettivo post-moderno. Un cammino, quest’ultimo, che Wish intraprende coscientemente con le sembianze di un film-festa che ruba un po’ qui ed un po’ lì dai sui precedenti modelli del passato, con rispetto, riverenza e una struttura narrativa semplice semplice. Forse troppo?
Una fiaba prima delle fiabe
L’incipit del film diretto da Chris Buck e Fawn Veerasunthorn è del resto fortemente archetipico: Re Magnifico e sua moglie, la regina Amaya, hanno fondato il regno di Rosas su un’isola del Mar Mediterraneo. Avendo studiato la stregoneria, Magnifico è in grado di esaudire i più grandi desideri dei suoi sudditi; ognuno di loro rinuncia ai ricordi dei propri desideri affinché il re li custodisca e protegga, fin quando non potrà esaudirli. Una volta al mese, come evento cerimoniale, Magnifico sceglie un desiderio da esaudire. La giovane diciassettenne Asha si prepara al colloquio per il lavoro di apprendista di Magnifico nel giorno del centesimo compleanno di suo nonno Sabino, sperando che Magnifico esaudisca il desiderio dell’anziano di ispirare le persone.
Il colloquio procede bene finché Asha non chiede che il desiderio di Sabino venga esaudito, cosa che Magnifico rifiuta, vedendo la vaghezza del desiderio come una potenziale minaccia al suo potere. Asha si rende conto che Magnifico non intende mai restituire i desideri non esauditi ai loro proprietari e quando mette in dubbio i metodi del re quest’ultimo si rifiuta di accettare il suo apprendistato o di esaudire i desideri di qualsiasi membro della sua famiglia. Un poutpourri di idee e suggestioni del passato, quello che dà vita a Wish, e che ne sostiene la struttura narratologica da lungometraggio-omaggio di 100 anni di trasposizioni e riletture di grandi fiabe e racconti della tradizione letteraria mondiale targate Topolino.
E quindi, c’era da aspettarselo che la major hollywoodiana allestisse una celebrazione dei suoi più grandi successi commerciali del passato prossimo e remoto, tra easter egg, citazioni più o meno nascoste e veri e propri agganci narrativi ad alcuni tra i primissimi film del canone Disney. Mescolata bene la pozione, a Wish sembra però non rimanere alcuna goccia di originalità da assaporare; almeno questo è quello che millanta molta della stampa di settore e del pubblico cinematografico deluso dalle aspettative createsi sul film del centenario. Ma è veramente così?
Una favola monodimensionale?
Tra le maggiori critiche che sono state lanciate al cartoon diretto in tandem da Buck e Veerasunthorn c’è proprio quella legata alla presunta monodimensionalità dei suoi personaggi e delle loro intenzioni. A partire dalle vere giustificazioni che muovono il rancore e la cattiveria di Re Magnifico (in versione originale un frizzante Chris Pine, in italiano un ottimo Michele Riondino), dispotico custode di desideri spaventato dal potenziale potere caotico dei sogni dei suoi cittadini. La sceneggiatura originale curata da Jennifer Lee ed Allison Moore non si preoccupa di scavare a fondo nelle psicologie dei colorati personaggi di Wish, concentrando tutta la sua potenza nell’inappuntabile tappezzeria artistica dell’animazione ibrida, a cavallo tra tradizione del passato e occhio al presente/futuro.
Una fiaba prima di tutte le fiabe che con estrema onestà e consapevolezza festeggia il centenario di Walt Disney muovendosi per archetipi narrativi, in barba alla tendenza tutta contemporanea (e legittimissima) di realizzare opere animate socialmente rilevanti ed “al passo con i tempi che cambiano”. In Wish tutta questa urgenza viene momentaneamente messa da parte per tornare alle origini e alle radici letterarie della grande fortuna della casa istituita da Walt Disney nel lontanissimo 1922.
Senza essere portatore di quella millantata rivoluzione di forma e contenuto che molti si sarebbero potuti aspettare dal film per i 100 anni, il 62° classico d’animazione nato da un’idea di Jennifer Lee (aveva già co-diretto gli sfracelli al box-office mondiale di Frozen e Frozen II) invece sa di essere esattamente quello che è, per una volta senza pseudo-letture contemporanee ed ambizioni da opera cinematografica demograficamente “per tutta la famiglia” ma occultamente destinata a tramutare ed influire sullo status quo della società attuale. Un dono di semplicistica sintesi che non tutti i film odierni hanno il coraggio di portare al cinema al giorno d’oggi.
In Wish c’è tutto. E non c’è nulla
Lo avevamo già anticipato nella nostra recensione di Wish, e lo ribadiamo qui ancora una volta: il film non è la svolta che ci si sarebbe potuta legittimamente aspettare dalla House of Mouse arrivata a quota 100, no. Eppure, rappresenta nonostante tutto la sintomatologia più acuta di un lento risveglio artistico da un torpore che l’aveva avviluppata da tanto, troppo tempo. Sin troppo concentrata a risollevarsi da un lungo periodo di inerzia e irrilevanza socio-culturale, la Disney è ufficialmente in crisi di idee, tra tentativi malriusciti di produzione cinetelevisiva “woke” e scarsi risultati al box-office internazionale. Come se avesse progressivamente perduto l’ancoraggio al vecchio e nuovo pubblico di spettatori, evidentemente più affezionati all’immaginario collettivo plasmato dai grandi classici del passato (coin le dovute eccezioni).
Lontani sono i gloriosi tempi in cui il classico d’animazione firmato Disney era l’evento per eccellenza delle feste natalizie nei cinema di tutta Italia; appuntamento attesissimo ed imprescindibile per tutta la famiglia capace di smuovere un business impressionante e tramutare l’immaginazione e i desideri di una generazione che ancora sapeva sognare ad occhi aperti. Campioni al botteghino annuale che riadattavano liberamente e con le dovute licenze poetiche racconti popolari, fiabe e romanzi a lieto fine, scontri manichei tra il bene ed il male arricchiti da un parterre di canzoni originali da far tremare i palcoscenici di Broadway.
Un’inversione di tendenza che ha poi caratterizzato l’alba degli anni 2000, tra sperimentazione animata e nuovi orizzonti narrativi; obiettivi ottimistici questi ultimi che ne hanno però decretato nel tempo la lenta ed inesorabile irrilevanza socio-culturale. Eccola quindi la vera funzionalità di Wish nel qui ed ora, al di là del suo assetto squisitamente celebrativo di un anniversario storico: porre di nuovo l’accento su una tradizione Disney che aveva reso vincente il passato della potente major di Hollywood, un film orgogliosamente anacronistico e démodé ed in barba alle pulsioni del relativismo quotidiano.
Il dono della semplicità
Del resto, in Wish c’è praticamente (quasi) tutto l’armamentario della Disney del passato e al contempo, non c’è praticamente nulla. Un racconto fiabesco che ha l’ardire di narrare una favola al di fuori del tempo e dello spazio anticipatrice di tutto quello che nascerà dalla squadra di creativi di Walt Disney nel futuro passato, a partire da quel rivoluzionario Biancaneve e i sette nani del 1937 che cambiò il corso della storia del cinema; e il destino di una casa di produzione in rapidissima ascesa nell’Olimpo dei grandi. Perché, al netto delle legittime critiche che gli sono state mosse a fuoco incrociato dalla stampa di settore e da una buona fetta di pubblico, Wish invece una piccola rivoluzione in casa Disney la mette in atto eccome, nonostante tutto.
Ricerca la tradizione del passato per creare un ponte verso un prossimo futuro che sappia imparare dalle intuizioni (e perché no, anche dagli errori) dei modelli antecedenti, senza scimmiottarli; intesse suggestioni, omaggi e rimandi (in)diretti ai grandi classici delle generazioni che ci hanno preceduto sfruttando un piccolo, grande superpotere oggigiorno bistrattato da una malcelata disillusione verso il presente: quello della semplicità. Semplicità di obiettivo, di forma, di contenuto e di messaggio, doni preziosi che sembrano originarsi da un oscuro passato carico di pericoli e promesse mai mantenute, ma che invece potrebbe rivelarsi sostegno imprescindibile verso una ricostuzione di immagine e di rilevanza che Casa Disney sta cercando di riguadagnarsi anche attraverso il felice anacronismo di questo film; o quantomeno, ci sta genuinamente provando. Basta però che non ve la prendiate troppo con Wish.
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