Se la rivoluzione si fa con le idee, le arti saranno sempre nemiche dei regimi oppressivi. Ma proprio in virtù del suo potere immaginifico, il cinema non può che ergersi ad alfiere di tale battaglia. Quello iraniano degli ultimi decenni ha provato sempre più spesso a sfidare la legalità nazionale e i codici imposti (o meglio, inflitti) ai cineasti. Ritrarre le contraddizioni e le storture politiche, sociali, religiose del regime degli ayatollah porta a condanne, reclusione o fughe dal paese d’origine. Al disagio dettato dalle riprese clandestine si aggiungerà quello di dover evadere, destino di svariati autori come l’esule Mohammad Rasoulof. Il seme del fico sacro, nelle sale italiane grazie a BiM e Lucky Red, è l’ultimo e prezioso tassello di una crociata, quella dell’autore iraniano, che non sembra aver intenzione di cedere.

Al centro del film premiato allo scorso Festival di Cannes ci sono una famiglia di Teheran e quattro mura. Una casa nella quale due ragazze, Sana di 16 anni e Resvan di 21, prendono sempre più coscienza delle rivolte e delle repressioni in città successive alla morte di Mahsa Amini. Il padre, Iman, è appena stato nominato giudice istruttore del Tribunale rivoluzionario: un ruolo che lo metterà inizialmente in crisi, tra condanne imposte, dilemmi morali e sicurezza a rischio. La contesa generazionale e ideologica genererà presto tensione in famiglia, fino a un punto di non ritorno, quando la pistola di Iman scomparirà e le prime sospettate saranno proprio le figlie. Una piccola goccia che farà traboccare il vaso già precario.

La forza del racconto

Il seme del fico sacro
Il padre ne Il seme del fico sacro – ©BiM Distribuzione, Lucky Red

Sta tutto in quei proiettili, primo punto di contatto con Il seme del fico sacro. In quella pistola di Cechov dal sapore hitchcockiano che prima o poi dovrà sparare, essere mobilitata. Rasoulof mantiene vivo l’afflato accusatorio e controverso de Il male non esiste, ma mette parzialmente da parte i suoi simbolismi – concentrati quasi esclusivamente in relazione ai semi del ficus religiosa che danno il titolo al lungometraggio – a vantaggio di una narrazione più fluida, diretta. Il suo ottavo film mantiene, nelle sue due sezioni, una struttura lineare, semplice ma non per questo meno densa civilmente e politicamente. Obiettivo chiaro e primario è affrontare di petto, senza fronzoli, l’Iran e i suoi sistemi patriarcali, portando all’indignazione ma concedendo al discorso il tempo (160 minuti) di farsi strada fino alla testa e di far ragionare sulle sfumature.

La drammaturgia classica si fa veicolo per il messaggio politico. Il nitore espressivo mezzo per poter raccontare con coraggio e lucidità il dato reale, la cronaca. Una realtà nella quale la fede plasma il pensiero sociopolitico, lesto a trasformarsi in strumento di violenza. Il nome stesso del padre, Iman, vuol dire fede – perché, come verrà detto in uno scambio di battute, le idee e il mondo stanno cambiando, ma la legge sacra no. La famiglia protagonista e le sue relazioni interne diventano così metafora e allegoria dello stato teocratico che si insinua senza chiedere il permesso. Stato nel quale la libertà è negata e il desiderio represso. Il pubblico, il collettivo, si fa privato e viceversa, la Storia dell’Iran incrocia la storia familiare. La protesta delle giovani militanti per le strade di Teheran incoraggia quella delle figlie, semi da spargere e far crescere nell’aridità persiana.

Una rivoluzione che parte da quattro mura

Il seme del fico sacro
Le tre protagoniste femminili de Il seme del fico sacro – ©BiM Distribuzione, Lucky Red

L’atto di ribellione può iniziare dal singolo e dalla sua consapevolezza, da un salotto e un divano prima di arrivare in piazza. Ed è qui che il discorso teorico che Rasoulof costruisce con le immagini e gli strumenti tecnologici appare stimolante. La coscienza di oggi si configura quotidianamente attraverso i media, strumento di liberazione per uno sguardo nuovo che porta però con sé conflitti interni al mezzo stesso. Scontri tra social e telegiornale, tra resoconto in presa diretta e mediazione statale, tra giovani con lo smartphone e adulti con il telecomando.

Ma soprattutto tra il presente storico – inserti di realtà sanguinosa e documentaria, filmata e pubblicata online, che sovente prende possesso del flusso narrativo – e la finzione filmica. Tra fuori e dentro. Un ragionamento, a suo modo e nei limiti del possibile, erede di quello che Jafar Panahi continua ad applicare all’immagine e alla rappresentazione della realtà sociale iraniana. È in questa prima sezione, uno stratificato saggio sulla tensione e l’angoscia, che Il seme del fico sacro dà il suo meglio.

A emergere sono caratteri complessi, figure sociali prismatiche, strutture relazionali che mascherano, deformano. Nucleo del film diventa dunque la verità, negata e sofferta. Non sapere quale sia il vero lavoro del padre, dove sia finita la pistola, cosa davvero accada fuori. Rasoulof lavora bene sui contrasti e le aspettative, capovolge la storia e i suoi personaggi, rendendoli inquieti e imprevedibili. Dal padre, combattuto ma piegato alla disciplina, al binomio Resvan-Sana, emblema di una resistenza possibile. In mezzo Najmeh, madre, mediatrice ed equilibrio delle forze in gioco – un’eccezionale Soheila Golestani, punta di diamante di un cast in formissima.

Dentro e fuori, privato e pubblico

Il seme del fico sacro
Una scena del secondo atto de Il seme del fico sacro – ©BiM Distribuzione, Lucky Red

Se il primo segmento funziona è anche e soprattutto perché funge da ideale caratterizzazione di identità, contesti sociali e geografici articolati. Quasi come fosse un enorme prologo. Tant’è che dopo un’ora e mezza sembra partire un secondo film, con uno stile nuovo, differenti paranoie e un diverso scenario. La narrazione non è più portata avanti dallo smartphone ma dalla pistola, dalla sua presenza in quanto assenza. Ma le preoccupazioni claustrofobiche iniziali sembrano farsi didascaliche – certo coerenti con quanto detto e predetto in precedenza, ma estremizzate nelle conseguenze, come se si cercasse d’indirizzare la storia verso un punto sinteticamente radicale.

È un’intuizione sulla carta azzeccata (in particolare nella catarsi finale) che però arriva scarica, trova un diverso e maggiore dinamismo ma si priva del notevole respiro drammatico visto prima – specie per l’assenza delle parentesi sul reale. Il seme del fico sacro pare un’opera imperfetta ma affascinante, al netto nei suoi aspetti meno riusciti, nel suo scarto tonale tra la prima e la seconda parte. Certamente coraggiosa, dalle nobili intenzioni e tutt’altro che scontata. Merito di una scrittura che nei momenti migliori ricorda il Farhadi dei turbati bivi morali, che pur schierata apertamente riesce a tenere vivo il ragionamento attorno alle fratture della società e ai suoi individui. Uomini riplasmati da un sistema, un mezzo di comunicazione, un’arma da fuoco.

Conclusioni

7.0 Coraggioso

Con una buona gestione della tensione e ottime performance, Il seme del fico sacro mette in scena con lucidità le storture di un regime che piega le verità e i rapporti familiari davanti alle ideologie. Intenzioni encomiabili e primo atto solido, macchiato in parte da una seconda parte fuori fuoco e slabbrata.

  • Voto ScreenWorld 7
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Classe 1995, siciliano e affamato. Laureato in Storia dell'arte e studioso di arte contemporanea e cultura visuale, da bambino resta sconvolto dalla visione di Tarzan e decide che non metterà più piede in una sala cinematografica. Fortunatamente con il tempo cambierà idea, innamorandosi della Hong Kong di Wong Kar-wai, dell'esistenzialismo di Woody Allen e dell'ossessione per il corpo di David Cronenberg. Dal 2017 collabora attivamente con varie testate, scrivendo di cinema e tv.