Si può dire che il 1951 segni per la storia del cinema giapponese una una seconda data di nascita. A seguito del Trattato di San Francisco, opere e cineasti nipponici trovarono ampia distribuzione fuori dall’arcipelago d’origine e l’Occidente scoprì un’arte che fino ad allora era rimasta pressoché ignota. Fin da subito, il messaggero, tedoforo di quella cinematografia, parve Akira Kurosawa; specie dopo l’edizione del Festival di Venezia di quello stesso anno, nella quale vinse il Leone di San Marco (l’allora Leone d’oro) con Rashomon.
La storia era cambiata e da lì a poco gli anni Cinquanta furono colpiti dalla mania del cinema asiatico, nello specifico quello in costume – opere di Kurosawa come Cane randagio o L’angelo ubriaco non ricevettero inizialmente particolari attenzioni all’estero. Il successo in laguna diede un’accelerata impressionante alla produzione di jidai-geki. Genere fino a quel momento osteggiato dalla censura e dal regime militare americano in Giappone, soprattutto per via dei legami con la tradizione storica del paese.
Toho decise così di stanziare un budget impressionante, mai visto fino a quel momento. L’obbiettivo era realizzare uno dei più grandi film della storia della settima arte, I sette samurai. A settant’anni dal suo esordio – quel fruttuoso 1954 per il cinema Giapponese, anno anche de L’intendente Sansho e de Gli amanti crocifissi di Mizoguchi, di Godzilla di Honda o Ventiquattro occhi di Kinoshita, tra i tanti – l’opera di Kurosawa, a dispetto dei tagli, si è innestata stabilmente nell’immaginario collettivo, rinnovando per sempre non solo il jidai-geki ma il cinema in toto. Pagine e pagine sono state già spese ma parlarne sembra sempre doveroso per mantenere viva la fiamma. Per provare a scoprire, ogni volta, qualcosa di nuovo.
Dare tempo alla voce
206 minuti, 3 ore e 26. Anche in un’epoca che ci ha abituati a lungometraggi dalle durate faraoniche – si potrebbe pure accennare al binge watching televisivo – un minutaggio simile rischia di fare paura. Ma come nel recente passato ha fatto Scorsese, Kurosawa sapeva che questa storia andava raccontata così. Perché è proprio nella sua dimensione fluviale che I sette samurai (Shichinin no samurai) trova quel quid che lo separa da ciò che c’era stato prima. Ogni versione tagliata – per motivi diversi, politici o legati a logiche distributive – risulta piccolissima davanti alla maestosità e complessità di quella integrale, un reato se si pensa a ciò che lascia fuori. La differenza con le altre sta nel contorno, in quello che spesso si direbbe accessorio ma che qui è messo sullo stesso piano, per alcun versi anche più in alto, del nucleo della vicenda o del percorso da punto A a punto B.
Così I sette samurai è pieno di piccole storie, sovente individuali e intime, articolati intrecci emotivi e ideologici, personaggi non convenzionali arricchiti nel dettaglio. E appare impressionante la loro caratterizzazione: ognuno dei protagonisti, qui circa una decina, avrebbe storie sufficienti per riempire almeno un intero film a testa, supportati da interpretazioni fuori scala. Uno dei punti di forza dell’opera è proprio il tempo che dedica allo svolgimento, a rendere fluido ogni passaggio e costruzione psicologico-narrativa, al legame che crea coi personaggi. Basti pensare ai soli incipit e reclutamento, che prendono circa un terzo della durata complessiva – i restanti due sono dedicati, rispettivamente, al piano e alla battaglia. Solo così, arrivati alla fine – e dopo averla attesa per oltre due ore – questa non sarà solo uno scontro ma al suo interno si potranno chiaramente intravedere le motivazioni, le paure, lo spirito di ognuno, cosa significa per loro quel momento.
Essere un samurai in un mondo di contadini
Onore, dovere, convenienza, paura. Sfidare i briganti ha radici e motivazioni differenti per samurai e contadini. Ma non è solo questione di caste e gruppi sociali, le differenze di senso sono da riscontrare anche tra singoli. L’individuo però non può definirsi indipendente. Kurosawa (che anni dopo allenterà questo comunitarismo più o meno socialista) espone il codice etico dell’intero Giappone e del suo popolo, caratterizzato da una, forse apparente e illusoria, auto-identificazione in un gruppo che mette da parte le individualità, le disuguaglianze e il classismo. «Chi difende tutti difende se stesso, chi pensa solo a se stesso si distrugge», dirà ad un certo punto Kambei, con tono ammonitorio. Concetto che pareva (e forse pare ancora) alieno per l’Occidente. Ronin e contadini convergono verso un unico grande obiettivo, indipendentemente da cosa li muove. Entrambi esistono e resistono grazie ai rapporti che li legano.
Certo, i reali obiettivi non sempre, poi, combaciano con le apparenze. Kurosawa, sottotraccia, apre al pessimismo e allo sconforto anche quando sembra aver trovato il senso primordiale dell’umanità. Lo spirito comunitario via via inizia a mostrare delle falle ed è inevitabile arrivare ad una sconfitta generale, anche a fronte dell’effettiva vittoria. A trionfare è ancora l’individualismo, evitato ma impossibile da eliminare. Perché anche se sul finale parrà chiara la posizione – «anche stavolta siamo stati i vinti […] i vincitori sono i contadini, soltanto loro» – nessuno è esente da colpe. La densità del discorso antropologico e sociale de I sette samurai offre il meglio quando mette a nudo entrambe le categorie. Quando le indaga con sguardo critico, fino ad infrangere irrimediabilmente l’immagine preconcetta che lo spettatore ha di esse.
Da una parte i samurai, dipendenti dal bushidō (codice d’onore) ma anche, molto più concretamente, dallo stomaco. Eroi ambivalenti, indicati, non casualmente, con lo stesso simbolo usato per tener conto dei briganti, il cerchio, e accusati di portato alla disperazione il popolo. Dall’altra il contadino, che in preda alla paura e alla diffidenza, anche a fronte dell’indispensabile aiuto, nasconde le provviste, sfrutta e alla fine beneficia del risultato. I primi, vengono qui risemantizzati e restituiti sotto una luce diversa, spogliati delle virtù astratte, dalla diversa e più alta classe, resi concreti e in cerca di redenzione per tutte le battaglie perse. Sono rōnin (samurai senza padrone) umani quanto i lavoratori più umili, con le stesse esigenze, privi di un posto nel mondo e fallibili, consapevoli di un destino funesto – aspetti che scompaiono quasi del tutto nelle versioni accorciate.
Trait d’union tra i due mondi in chiaroscuro è l’imprevedibile Kikuchiyo di Toshiro Mifune, attore feticcio di Kurosawa e qui vero animo, cuore e corpo, antieroe quasi ariostesco. Contadino prestato ai samurai, che da fanfarone, rozzo e poco incline al dialogo che trova riscatto e compiutezza sociale nel sacrificio, nel pensare agli altri. Come lui, anche Katsushiro, giovane non ancora un vero samurai e dunque più facilmente vittima dei sentimenti e della possibilità, carnale e spirituale, di unione con i contadini. Un’ingenuità – che sul finale, come per gli altri, non pagherà – e un rifiuto di classi e differenze che rappresenta bene la dimensione collettiva sopracitata, probabilmente un’utopia per un paese che Kurosawa sembra vedere unito solo in apparenza e durante le difficoltà – forse anche per questo il cineasta era visto negativamente, in un primo momento, in terra natia.
Fuochi sulle lame
Il senso de I sette samurai si trova, come detto sopra, in Kikuchiyo proprio perché egli rappresenta l’incontro oltre lo scontro. In lui vivono due mondi che si compenetrano e traggono il meglio l’uno dall’altro, che nell’accavallamento riescono a mantenere vivo un senso di comunità e unione contro le storture della modernità individualistica. Perché quello di Kurosawa è anche un testo che parla di confronto tra epoche e transizione, di squilibri psicologici dati dai tempi che cambiano (i briganti, generati proprio dagli sconvolgimenti politici). Che racconta di una tradizione sempre più schiacciata dal futuro – non è un caso che i samurai muoiano per mano dei proiettili, contro cui nessuna katana, simbolo di ieri, può far qualcosa – e di un nemico esterno che si appropria degli spazi del popolo. Parlare del presente attraverso il passato, poiché in quest’ultimo aspetto pare riecheggiare la condizione post-bellica del Giappone.
Vecchio contro nuovo, passato contro presente-futuro al confine di un’epoca e di una civiltà. Lotta interna che in quegli anni si rifletteva sullo stesso cinema nipponico. C’erano da decenni Ozu e Mizoguchi, istituzionali, amati in patria e a quel tempo non di rado preferiti dalla critica, mentre intanto avanzava con prepotenza Kurosawa, il “nuovo”, decisamente più popolare e vicino ai gusti europei e americani, inizialmente osteggiato nel Sol Levante. Anche e soprattutto da tale contrasto e dicotomia prese forma il (in parte falso) mito di un Kurosawa come “il più occidentale degli orientali”.
Oltre gli anni, oltre i confini, sempre fortissimo
Tra le opere più citate e rielaborate di sempre, l’epopea epica di Kurosawa ha rifondato un genere e aperto la strada ad un differente modo di far cinema. Lo fa per via dell’abilità del suo autore, dell’ampiezza dello sguardo e della maestria con la quale fa sembrare facili cose difficilissime. Ne I sette samurai la macchina da presa alterna campi larghi e dettagli, stasi paesaggistica e frenesia febbrile, segue instancabilmente personaggi per evidenziare il groviglio, le masse in azione così come in distensione e genera una sinfonia di puro movimento. Il mondo messo in piedi è pulsante, figlio di un senso dello spazio e dei luoghi vivissimo. Uno spettacolo per gli occhi, oggi ancora moderno e impressionante, che bilancia adeguatamente, per ritmo e registri, la narrazione popolare e l’autorialità.
Una grandezza che passa anche e soprattutto dal montaggio, dalla maniera con la quale le scene si incrociano (accadono, spesso, più cose contemporaneamente) e si scontrano e, attenti alla lezione russa, dall’esplosione che ne conseguenze viene generato un senso nuovo. Kurosawa ha mille volti ed è difficile capire quale di essi prevalga. Ciò che lo distingue ed eleva è però il modo in cui mette insieme ogni elemento, ognuno di questi volti, come trova un senso e armonizza l’insieme. E ruolo fondamentale lo giocava finanche l’ammirazione nei confronti di Ford e la conoscenza del western statunitense. Se è indubbio che questo genere, americano per eccellenza, ha cambiato forme stimolato dal cinema dell’autore nipponico è anzitutto poiché Kurosawa stesso ha riformulato, attivamente o meno, il cinema action e il western stesso, piegato a diverse esigenze. È, come sempre, questione di dare e avere, di scambi reciproci che alimentano le creazioni.
Il western cambia perché Kurosawa instilla al suo interno – I sette samurai stesso, a ben vedere, può rientrare in tale genere – il germe della messa in crisi dell’eroe, così come aveva fatto con i suoi samurai. Parte e si diffonde da lì uno specifico e nuovo eroismo moderno, oltre al cliché della squadra da formare contro un nemico comune – Avengers ante litteram, per citare qualcosa di più pop. Così quattro anni dopo arriverà I magnifici sette, adattamento diretto, ad opera di John Sturges, primo di una lista di omaggi che continua a crescere tutt’oggi con opere, non sempre riuscite, come Rebel Moon – a Kurosawa, nello specifico a La sfida del samurai, guarderà, forse troppo se si considera il contenzioso legale che ne seguirà, anche Leone con Per un pugno di dollari.
Così I sette samurai continua ad espandere la sua eco e cambiare il cinema, anche attraverso altre, e diverse, opere. Un grande, forse il più grande racconto per immagini, che trascende lo spazio e il tempo e continua ad avere un immenso impatto culturale.
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