Guardando l’andamento dell’intrattenimento nel panorama internazionale degli ultimi anni non si fatica a notare una certa tendenza. I fratelli Grimm l’avrebbero definita una “scia di briciole” mentre nella mitologia greca si parlerebbe di “filo d’Arianna”. Ad ogni modo abbiamo davanti una serie di indizi che ci mostra quanto siano sempre più importante il linguaggio “di genere” nel gusto del grande pubblico. Il mondo dell’intrattenimento orientale della commistione dei generi ha fatto e continua a fare un suo marchio di fabbrica. In Giappone Takashi Miike e Sion Sono si divertono da decadi nel costruire i loro puzzle dove il linguaggio action si mischia a quello horror per poi virare sul melò e sul drama. Lo stesso si può dire per la new wave sudcoreana, con Kim Ji-woon, Park Chan-wook e Bong Joon-ho a guidare il movimento. E il riscontro del pubblico, testimoniato dal successo di Parasite, Squid Game o, per legarci al filone manga e anime, di Chainsaw Man, dimostra che questo approccio post-moderno alla commistione di generi è una via percorribile.
Anche in Occidente si sta progressivamente approcciando quella via. L’Academy Awards, un indicatore puntuale delle tendenze e dei gusti dell’industria hollywoodiana, ha saputo negli anni nominare e premiare con l’Oscar sempre più opere di genere (o che ne utilizzavano il linguaggio), andando contro all’assioma “i film di genere non possono competere per l’Oscar” che durava fin dagli albori del riconoscimento. Il già citato Parasite e La forma dell’Acqua di Guillermo del Toro, altro sperimentatore da questo punto di vista, vincitori entrambi nella categoria Miglior Film ne sono un esempio. Ma anche le nominations per opere come Dune, Scappa – Get Out, Arrival e Mad Max: Fury Road lo sono. Per non parlare poi del successo di pubblico e di critica, in attesa dei premi, di Top Gun: Maverick. Potremmo poi continuare parlando del fenomeno produttivo Blumhouse, delle scelte sempre più in questa direzione della A24, del boom al botteghino di Terrifier 2, del ritorno in auge del western, del successo della 87 North e dei figli di John Wick, della popolarità raggiunta dal filone indonesiano con The Raid o The Night Comes for Us. O ancora dei cinecomics, come ci ha recentemente dimostrato The Batman, diventati sempre di più un contenitore, o meglio ancora una maschera, sotto cui celare un film di genere.
Tutti segnali che portano in una sola direzione: il pubblico ha voglia di cinema di genere. In Italia come siamo messi da questo punto di vista? Cerchiamo di capirlo partendo da Hidden – Verità sepolte, arrivato lo scorso 2 febbraio nelle sale.
Hidden – Verità sepolte, un thriller privo di speranza
Siamo nella provincia piemontese. Nella zona vengono segnalati a più riprese delle strane segnalazioni di sparizioni. Per la precisione si tratta di donne sparite nel nulla, senza lasciare traccia alcuna. Avvenimenti che sembrano però non lasciare particolare traccia nella calma e nella quotidianità degli abitanti. Questo finché non si interessa alla questione il giornalista Filippo Valenti che subito cerca di coinvolgere la scrittrice Nadia Coppola. I due avranno l’appoggio dell’investigatore privato Davide Olivieri e arriveranno a formulare l’ipotesi che si tratti di un serial killer. Supposizione che noi spettatori sappiamo essere vera visto che, fin dal principio, abbiamo seguito le gesta del killer Emilio. La terza storyline che osserviamo in parallelo è quella della vita di Martin (interpretato dallo stesso D’Antona, impiegato in un’agenzia pubblicitaria la cui giovane compagna è incinta. Tre filoni narrativi destinati poi a intrecciarsi e a fondersi tra loro in un’opera, lunga circa 135 minuti, ricca di colpi di scena.
Fin dalla scena iniziale, dove vediamo per la prima volta in azione il killer interpretato dal sodale Francesco Emulo, si intuisce la via tracciata da Roberto D’Antona. L’inevitabilità del male, della sofferenza e della morte, dove non è previsto alcun tipo di speranza. Forse è proprio questa la caratteristica dominante di Hidden – Verità sepolte: la mancanza di luce in fondo al tunnel. Per mettere in scena questo idillio di disperazione, D’Antona si lascia alle spalle ogni forma di ironia delle opere precedenti per abbracciare il thriller nella sua forma più cupa. I riferimenti non sono difficili da scovare. In particolare il fincheriano Zodiac con il quale condivide, oltre che la sotto-trama giornalistica, la ricerca degli ambienti chiusi, dell’atmosfera asfittica e, appunto, quell’abisso rappresentato dalla mancanza di speranza. Un bel tocco di originalità è rappresentato dalla figura del killer e dalla sua gestione. Ci viene mostrato come detto fin dai primissimi istanti così da poter scavare, lungo tutta la durata dei film, la sua morbosa sessualità deviata. Un personaggio davvero interessante su cui D’Antona potrebbe (e forse dovrebbe) tornare in opere successive.
L’importanza e la caduta del cinema di genere in Italia
Nonostante un’esterofilia innata in noi italiani che, tra le tante cose, ci porta a guardare più alle produzioni cinematografiche straniere che a quella nostrana, il cinema di genere ha avuto un ruolo fondamentale nel nostro paese. Non basterebbero ore e decine di articoli per addentrarci in maniera approfondita nel passato di questa materia. Eppure è impossibile negare che la stagione migliore del cinema italiano sia stata quella in cui proliferava il cinema di genere. I poliziotteschi di Di Leo, Lenzi e Castellari al fianco del cinema sociale di Elio Petri; l’horror di Fulci e Bava di pari passo con la commedia all’italiana; il thrilling di Dario Argento con la visione di Bertolucci; la peculiarità dello spaghetti Western di Leone e Corbucci e il surrealismo di Fellini.
Una varietà sintomo di un’industria sana, in grado di nutrire culturalmente i palati più disparati. Soprattutto capace di tenere allenate le menti, di formare degli spettatori elastici e cinefili curiosi. Un patrimonio purtroppo perso nel corso degli anni ’90, portato quasi a zero nei primi Duemila. Non che le cose all’estero siano rimaste immutate, non vogliamo peccare anche noi di esterofilia. Ma non possiamo negare che nel nostro paese fenomeni simili abbiano portato a conseguenze più pesanti e durature, probabilmente a causa di un’industria monolitica e poco vivace.
Segni di ripresa, criticità e speranze per il cinema di genere in Italia
All’improvviso, nel biennio 2014-2016, le cose sembravano aver preso tutt’altra direzione. Prima il fenomeno Smetto quando voglio, poi il successo della serie di Gomorra e di film come Suburra, Veloce come il vento e Lo chiamavano Jeeg Robot parevano aver riaperto le porte al cinema di genere in Italia. Un avvento accolto positivamente, oltre che dal pubblico, da tutta la critica. Una tendenza che non ha però trovato la continuità sperata. Nonostante alcuni tentativi da parte della Groenlandia di Rovere, delle piattaforme streaming come Netflix con A Classic Horror Story e Amazon Prime Video con la serie Bang Bang Baby, l’industria cinematografica italiana non ha saputo prendere con decisione quella strada, relegando esperienze simili perlopiù al mondo indipendente. Un panorama, quello indie italiano, che è ricchissimo di titoli di genere. Negli ultimi anni, solo per citarne alcuni, abbiamo avuto titoli come In a Lonely Place di Davide Montecchi, la metafora zombie Go Home – A casa loro di Luna Gualano, il lanthimosiano Buio di Emanuela Rossi o il recente e riuscito Piove di Paolo Strippoli. Per non parlare poi di tutto il lavoro fatto dallo stesso Roberto D’Antona e di suo fratello Eros.
Una serie di titoli che però ha fatto i conti con il classico problema della scarsa visibilità del mondo del cinema indipendente italiano rispetto a quello estero, faticando ad uscire dal giro dei piccoli Festival ed entrare in quello della distribuzione tradizionale. Anche in un periodo come quello post-pandemico in Italia si è preferito non rischiare. La paura della non affluenza in sala è stata tale dal portare a una complessiva assenza di titoli che ha portato, come ovvia conseguenza, al medesimo risultato. Nel medesimo lasso di tempo negli Stati Uniti, vista l’assenza di grandi produzioni, hanno trovato spazio e fatto fortuna film come Terrifier 2. Non vogliamo sostenere che il cinema di genere, in particolare quello indipendente, possa diventare la panacea di tutti i mali dell’industria cinematografica italiana. Siamo consapevoli che i problemi sono più strutturati, legati al sistema produttivo, delle strutture, della cultura cinefila e forse ancor di più a quello comunicativo. Eppure da qualche parte bisogna ripartire. Ne abbiamo una profonda necessità e vediamo nel pubblico la voglia di film di genere. Si tratta solo, per usare un eufemismo, di guardare al futuro nel tentativo di intercettare questa domanda, ricordandoci di cosa ha contribuito a rendere grande il nostro cinema.
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