volte definito l’enfant terrible del cinema francese, François Ozon ha acquisito in pochi anni una solida reputazione in Francia e all’estero. Sebbene i suoi film siano tutti diversi per genere, contenuto e forma, ciascuno di essi sfida a viso aperto le regole del cinema convenzionale affrontando questioni molto spesso ancora considerate tabù – soprattutto quelle legate alla sfera del desiderio non etero-normativo. Ozon non si limita alle questioni queer, ma la loro ricorrenza (unita all’omosessualità dichiarata del regista) rendono il suo status nel cinema francese piuttosto insolito e degno di attenzione. In occasione del suo compleanno, approfondiamo insieme alcuni dei suoi lavori più interessanti.
Una tendenza abbastanza recente nel cinema francese offre in realtà visioni meno eterocentriche del mondo e suggerisce una fluidità sessuale in modi nuovi, innovativi. André Téchiné può essere considerato un precursore di questa tendenza, con film come Niente baci sulla bocca (1991), L’età acerba (1994) e Les Voleurs (1996). Altre opere chiave includono Peccato che sia femmina (1995) di Josiane Balasko, Ma vie en rose (1997) di Alain Berliner, L’École de la chair (1998) di Benoît Jacquot e La Répétition (2001) di Catherine Corsini. Molti cortometraggi di Ozon appartengono a questa categoria, insieme a diversi suoi lungometraggi, tra cui Sitcom, Amanti criminali, Gocce d’acqua su pietre roventi e 8 donne e un mistero.
Un vestito estivo
L’originalità di Ozon, evidente nel suo stile cinematografico, appartiene a tradizioni note da lui rese estranee – o trasportate in territorio queer, o mescolate a vari generi riconoscibili all’interno di un singolo film. Non sorprende la reticenza a conformarsi o a inserirsi nei confini netti del cinema mainstream: fin dall’inizio della sua carriera, le opere di Ozon problematizzano la fissità dell’identità destabilizzando le nozioni di genere (mascolinità, femminilità) e sessualità in modo audace ed esplicito.
Il suo cortometraggio del 1996 Une Robe d’été (Un vestito estivo) merita particolare attenzione in questo senso: il film si apre con un dettaglio – in corrispondenza dei genitali – del costume da bagno di un giovane, rivelando il desiderio di Ozon di presentare il corpo e la sessualità maschile in modo distinto e preciso nel cinema francese contemporaneo. Questo tour de force di quindici minuti racconta la storia di un annoiato diciottenne, in vacanza con il suo fidanzato, che decide di andare in spiaggia da solo un pomeriggio (chiaramente irritato dal fatto che il suo fidanzato canti e balli una canzone dell’icona gay francese Sheila). Il ragazzo va in bicicletta fino a una spiaggia deserta e, dopo un bagno, accetta di far sesso con una donna spagnola. Non ha alcun problema a confessarle che sia la sua prima volta, ma quando lei gli chiede se è gay lui non è sicuro nella sua risposta (e quindi del suo orientamento sessuale).
La “veste” del titolo diventa fondamentale quando, tornato in spiaggia, si rende conto che i suoi vestiti gli sono stati rubati e si ritrova costretto a indossare l’abito della donna spagnola. All’inizio sconvolto, il giovane si abitua all’idea e finisce persino per apprezzarla. La fluidità di genere è suggerita letteralmente mentre il tessuto dell’abito ondeggia al vento durante il rientro in bicicletta al bungalow. Il ragazzo si gode così tanto il travestitismo improvvisato che decide di non toglierlo neanche una volta a casa, decisione che attrae anche il suo compagno. Alla fine, dopo che lo si vede cucire il vestito strappato nella foga dell’azione, la ragazza con cui ha fatto sesso per un pomeriggio gli dice che non lo rivuole indietro: “È tuo, potresti volerlo riutilizzare”.
Une Robe d’été è un’esperienza unica nel suo genere nel cinema francese. Ritrae personaggi che non sono costretti a scegliere tra gli inevitabili binari maschile/femminile o gay/etero, né vengono mai puniti per le scelte che fanno. Ozon è pienamente consapevole del carattere privo di sensi di colpa del film, che contrasta deliberatamente con il suo precedente cortometraggio La Petite mort (1995): “Volevo che fosse un film gioioso e colorato sull’estate che affronta l’ambivalenza sessuale degli anni dell’adolescenza, senza sensi di colpa”. Una commedia sessuale estiva sull’articolazione del desiderio adolescenziale, presentata con insolenza, umorismo e leggerezza.
Sitcom: le origini
Rispetto ad alcuni dei suoi precedenti cortometraggi, il primo lungometraggio di Ozon sembra essere più reazionario. Il titolo, Sitcom, è un riferimento diretto alle situation comedy americane (ma anche e soprattutto francesi) che di solito si svolgono in un ambiente borghese e che spesso sono cariche di valori familiari conservatori. Le intenzioni del film sono chiaramente quelle di sovvertire e trasgredire le norme della bonne société borghese, presentando o suggerendo esplicitamente ogni perversione e tabù: omosessualità, adulterio, sadomasochismo, incesto, pedofilia. Un topo da laboratorio portato di recente a casa dal padre si rivela essere “il diretto responsabile del caos” (vengono incolpate le sue “vibrazioni negative”) e l’ordine viene ristabilito solamente dopo la morte del topo e del padre.
Ciò che è fondamentalmente problematico in Sitcom non è tanto la sua intenzione di scandalizzare, quanto piuttosto il fatto che in questa pletora di perversioni l’omosessualità sia trattata come tale e allo stesso livello della pedofilia – rafforzando lo stereotipo omofobico, già saldamente consolidato, secondo cui gli uomini gay hanno una morale lasca e sono tutti sessualmente intrigati dai ragazzi. Dopo che David, il figlio della famiglia protagonista, fa coming out con i suoi genitori a tavola e va nella sua stanza, Abdu, il marito nero della cameriera spagnola, viene convocato per andare a parlargli, poiché “sa come parlare ai bambini” a causa del suo lavoro come insegnante di ginnastica (un altro stereotipo che equipara gli uomini neri all’atletismo).
Dopo che Abdu viene morso dal topo, prova attrazione per David e i due si baciano e accarezzano. Più avanti nel film, Abdu perde il lavoro a causa di accuse di molestie su minori e lascia la moglie perché si rende conto di essere gay (la moglie dice alla madre di famiglia che è gay “da un po’”). Nell’ultima scena, Abdu si presenta mano nella mano con David al funerale del padre, suggerendo che i due ora hanno una relazione. Un altro colpo di scena interessante è che anche la cameriera e la madre di famiglia si presentano insieme, suggerendo una potenziale relazione lesbica.
Se, alla fine, la morte del patriarca ha reso tutti e tutte decisamente più felici, permettendo loro di vivere più liberamente, il processo utilizzato per raggiungere questo obiettivo (vale a dire i restanti settantotto minuti del film) ha mostrato gli omosessuali e gli uomini neri sotto una luce poco soddisfacente.
Gocce d’acqua su pietre roventi e 8 donne e un mistero
Il terzo lungometraggio di Ozon, Gocce d’acqua su pietre roventi, è un giallo a porte chiuse allo stesso modo di Sitcom e 8 femmes. Adattato da un’oscura pièce teatrale di Rainer Werner Fassbinder (Tropfen auf heisse Steine), è ambientato nella Germania degli anni ’70 e racconta un’insolita storia d’amore tra un uomo d’affari cinquantenne e un giovane studente. La natura della relazione è in linea con tutti i film di Ozon: i confini tra gay ed etero sono di nuovo resi sfumati, con lo studente che si riunisce alla sua ragazza e il ritorno dell’ex amante dell’uomo, Vera, che trasforma la relazione in un complicato ménage-à-quatre. Il tono è più cupo di quello di Sitcom, ma il sollievo comico è garantito da una sequenza musicale stravagante, inaspettata e dalla coreografia perfetta, che è un bel preludio a 8 femmes, il suo “pseudo-musical” più elaborato.
8 donne e un mistero è ispirato a The Women (1939) di George Cukor e adattato da un’opera teatrale francese relativamente sconosciuta di Robert Thomas. Il film si rifiuta chiaramente di rientrare nei confini di un singolo genere: è una commedia, un melodramma e un giallo, condito con un pizzico di musical. La morte del padre, che avviene alla fine della storia in Sitcom, è ora al centro della narrazione: il film, infatti, inizia con il suo omicidio (o almeno così pensiamo). Jean-Marc Lalanne fa un’osservazione interessante sulla rappresentazione del padre nell’opera di Ozon, affermando che i suoi film raccontino solo due tipi di storie: l’onnipotenza dei padri violenti (l’orco pedofilo in Amanti criminali, Bernard Giraudeau che governa una famiglia sottomessa simile a un harem in Gocce d’acqua su pietre roventi) o, al contrario, la follia e il caos scatenati dalla scomparsa del padre (Sitcom, Sotto la sabbia e 8 femmes).
Visivamente, 8 femmes rende omaggio al Technicolor di Hollywood degli anni ’50 e vede spudoratamente come protagoniste la crème de la crème dello star system francese. Ogni personaggio canta (pezzi spesso, ma non sempre, pertinenti alla diegesi), con tutte e otto le donne mostrate come spettacoli da guardare (specialmente durante i numeri musicali) senza la presenza di uno sguardo maschile mediatore. Poco prima che il padre venga trovato morto, il primo numero musicale (cantato dalla sorella più giovane) stabilisce chiaramente il padre come un concetto obsoleto: “Papà, non ci sei più”. Il colpo di scena finale del film, tuttavia, rivela che il padre, vivo e vegeto, si è nascosto nella sua stanza per tutto il tempo, ascoltando e guardando cosa succedeva dentro e intorno alla casa. Disgustato dal comportamento della moglie, della sorella, della cognata, della figlia maggiore, della suocera e delle cameriere, alla fine si suicida davanti alla figlia minore, sua complice nel finto omicidio.
Come ci si poteva aspettare da Ozon, il film contiene anche un intrigo queer (come in Sitcom): la cameriera Madame Chanel ha una relazione con la sorella del padre, Pierrette, che è odiata dalla moglie e madre di famiglia Gaby. Dopo che la relazione viene scoperta, Deneuve e sua madre sono inorridite all’idea di avere un’invertie (invertita) in casa e la cameriera si ritira in cucina. Segue il suo numero musicale, mentre lei, sola in cucina, canta una canzone intitolata Pour ne pas vivre seul (Per non vivere da sola). La canzone parla di persone sole che farebbero di tutto per non esserlo (“alcune prendono un cane, altre adorano una croce”). La seconda strofa riconosce che le relazioni queer avvengono per lo stesso motivo: “Per non vivere sole, le ragazze amano le ragazze e, a volte, i ragazzi sposano i ragazzi”. La maggior parte dei numeri musicali sembra mirata a rivelare i veri pensieri interiori dei personaggi, il loro need. Tuttavia, non è chiaro se il film sembri suggerire che la stessa Madame Chanel sia diventata lesbica per pura solitudine o se la battuta prenda in giro le ipotesi sul suo desiderio omosessuale.
Ozon e la cinefilia
L’ardente cinefilia di Ozon è presente nella maggior parte dei suoi lavori: in Sitcom è molto buñueliana, ma questo film può anche essere visto come un remake moderno di Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini. Ancora, Les Amants criminels cita spudoratamente La morte corre sul fiume (1955) di Charles Laughton. La cinefilia del regista è più evidente in 8 femmes, in cui i riferimenti intertestuali sono troppo numerosi per essere contati. La sceneggiatura indica che il film rende omaggio ai film hollywoodiani degli anni ’50 diretti da registi europei esiliati.
Si pensi ai melodrammi di Douglas Sirk (il film cita in particolare Secondo amore, 1956), così come ai musical dai colori primari del (non emigrato) Vincente Minnelli. Le attrici e i costumi di 8 donne rendono omaggio alle star della Hollywood classica: Lana Turner è Marilyn Monroe, Agnes Moorehead (Isabelle Huppert), Kim Novak e Grace Kelly (Emmanuelle Béart), Rita Hayworth (Ardant), Audrey Hepburn (Virginie Ledoyen), Leslie Caron (Sagnier), Hattie McDaniel e Juanita Moore (Richard).
Se il film ha il “look” del cinema hollywoodiano degli anni ’50, è anche profondamente radicato nella tradizione cinematografica francese. Il collegamento al cinema di Truffaut (e alla sua vita reale, poiché anche Deneuve era coinvolta sentimentalmente con il regista) ne è un chiaro esempio. Durante una conversazione madre-figlia tra Deneuve e Ledoyen, la madre ripete una battuta (“c’est une joie, et une souffrance”) detta a lei in due film di Truffaut (La mia droga si chiama Julie e L’ultimo metrò). L’inquadratura ravvicinata anormalmente lunga (ventidue secondi) di Ardant (che ha sentito la battuta) suggerisce che è il ricordo del suo defunto marito a farla piangere piuttosto che il contesto fittizio del film.
8 femmes fa anche indirettamente riferimento a tre film precedenti in cui Deneuve e Darrieux erano madre e figlia (tra cui Les Demoiselles de Rochefort di Jacques Demy e Il luogo del crimine), e due film in cui Darrieux era un avvelenatrice (La Vérité sur Bébé Donge di Henri Decoin e L’Affaire des velenos). Un ultimo esempio: Ledoyen nasconde la sua gravidanza in 8 femmes, come ha fatto in La Cérémonie (1995) di Claude Chabrol.
La trilogia del desiderio femminile
L’enciclopedia cinematografica a cui 8 femmes può essere paragonato contrasta con le opere profondamente originali che chiameremo la “trilogia del desiderio femminile” di Ozon: Regarde la mer (1997), Sotto la sabbia (2000) e Swimming Pool (2003). Realizzati a tre anni di distanza l’uno dall’altro, i tre film hanno molto in comune. Lenti nel ritmo, hanno come protagonista una donna inglese (Sasha Hails nel primo, Charlotte Rampling negli ultimi due) e si svolgono in riva al mare, in un ambiente di vacanza. In tutti e tre i casi, le donne devono fare i conti con l’assenza di una figura maschile (un marito o un amante). In ciascuno di essi, i loro impulsi sessuali sono resi espliciti, sia attraverso scene di masturbazione o veri e propri rapporti sessuali con estranei. Infine, qualcuno viene ucciso.
Regarde la mer è una “bozza” di Sotto la sabbia e l’inquadratura iniziale di Swimming Pool (un’inquadratura dall’alto del Tamigi a Londra) cita l’inquadratura iniziale di Sotto la sabbia (un’inquadratura dall’alto della Senna a Parigi), con la macchina da presa che si sposta verso l’acqua dopo aver mostrato una vista di Notre-Dame – in Swimming Pool, la macchina si muove verso l’alto dall’acqua per mostrare una vista del Parlamento. In entrambi i casi, il titolo del film appare in cima all’acqua, in lettere maiuscole, utilizzando lo stesso font.
Swimming Pool
Nella loro rappresentazione del desiderio, Sotto la sabbia e Swimming Pool rispecchiano nella sottigliezza ciò che era pesante nelle prime opere di Ozon (Sitcom e Amanti criminali). Il primo film racconta la storia di una donna che si rifiuta di ammettere la morte del marito (interpretato da Bruno Cremer, partner sullo schermo di Rampling in La Chair de l’orchidée di Patrice Chéreau) e continua a vivere come se lui fosse ancora vivo. Il secondo parla di una scrittrice inglese di gialli sessualmente repressa (di nome Sarah Morton) che viaggia nel Lubéron in cerca di ispirazione per un nuovo libro: il viaggio, più che fruttuoso, le permette di scrivere quello che sarà probabilmente il miglior libro della sua carriera. Ozon fa entrare gradualmente il pubblico nella storia e lo lascia partecipare al processo di scrittura tanto quanto la stessa Rampling. Mai prima d’ora lo spettatore e la spettatrice erano entrati nella mente di un personaggio con tanta intensità come in Swimming Pool.
Swimming Pool è probabilmente l’opera più compiuta di Ozon, che ammette spesso e volentieri di essere Sarah Morton (proprio come Flaubert dichiarò di essere Madame Bovary) e relaziona il film al suo metodo creativo. Se non si può fare a meno di paragonare la scena dell’omicidio di Swimming Pool a Les Diaboliques (1955) di Henri-Georges Clouzot, la maggior parte delle ispirazioni di Ozon per il film si trovano nel suo cinema: “Swimming Pool riflette le mie ossessioni personali sulla creazione e, poiché è un film sull’ispirazione, contiene molti riferimenti ai miei altri lavori”. L’inquadratura carezzevole in cui la macchina da presa si sposta lentamente dai piedi di un personaggio al suo viso è anche in Gocce d’acqua. La relazione tra Ludivine e Charlotte rimanda a 8 femmes e al contempo a Sotto la sabbia, con entrambe le donne che vivono soprattutto nella loro testa.
Spiagge nel cinema di Ozon
Sarebbe un grave peccato non sottolineare l’importanza dei luoghi nel cinema di Ozon – soprattutto l’insistenza con cui si ritorna a un’ambientazione balneare, definita critico cinematografico Peter Bradshaw la location distintiva e il segno autoriale della sua filmografia. Le spiagge di Ozon sono un luogo queer in cui l’attraente ambiguità della costa, immersa in un gioco tra terra e mare, figura come metafora del desiderio mutevole e delle identità dei suoi protagonisti. L’oceano viene utilizzato da Ozon come un “luogo inarrestabile di diversità”, in cui i personaggi borghesi, attraverso il loro contatto con la natura selvaggia, si trovano a confrontarsi con un’enormità che non possono controllare. Proprio la spiaggia consente ai personaggi di Ozon di costruire nuove modalità relazionali: una funzione chiaramente metaforica che rimanda a un luogo di liquidità, fluidità e cambiamento.
La città fornisce l’ordine che collega corpi altrimenti non correlati, è l’ambiente in cui la corporeità è prodotta socialmente, sessualmente e discorsivamente; la spiaggia, invece, può funzionare come cornice e contesto per il corpo – un corpo che è prodotto in modi diversi e non normativi. Oscillando tra l’essere un luogo di piacere e libertà o l’essere un luogo di dolore, dissoluzione e morte, la spiaggia re-immagina la corporeità: cambia costantemente aspetto attraverso l’azione del vento e delle onde, mostrando stati diversi intrecciati nella sua stessa figurazione. Le spiagge di Ozon esprimono il suo progetto cinematografico queer e al contempo contestano le nozioni di progresso, razionalità, linearità. Mentre i suoi personaggi inseguono fantasmi sulle spiagge, agiscono e smascherano il desiderio oltre i vincoli dell’eteronormatività – dissipando le fantasie reazionarie della famiglia normativa e incontrando un’alterità che non sarà domata, ma con cui dovranno necessariamente fare i conti.
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