La Formula 1 è una disciplina che, più di ogni altro sport, vive in bilico tra precisione e caos, gloria e tragedia. È un mondo fatto di velocità assoluta, di frazioni di secondo che separano la vittoria dalla disfatta, di corpi che si fondono con le macchine in un’unione quasi meccanico-metafisica. In questo universo brutale, scintillante e drammatico si inserisce F1, l’atteso film di Joseph Kosinski con protagonista Brad Pitt, che tenta la difficile impresa di raccontare il cuore umano dietro il casco, il passato che bussa attraverso le vibrazioni dell’asfalto e il bisogno irrazionale (ma potentissimo) di tornare a correre.
Il film si apre con una scena sospesa tra sogno e incubo: una macchina da corsa sfreccia in una galleria, illuminata solo dalle luci rosse dei freni e dai riflessi metallici delle pareti. Una voce fuori campo, quella del protagonista Sonny Hayes, riflette sull’ultimo giorno in cui si è sentito davvero vivo. È un incipit che segna il tono: non sarà solo un film di corse, ma un viaggio personale, quasi elegiaco, nel passato e nel presente di un uomo che ha fatto della velocità la propria ragione di vita – e forse anche la sua condanna.
Brad Pitt interpreta Sonny con la calma e la gravitas di chi ha vissuto e sbagliato, ma senza mai cadere nel cliché del “vecchio leone”. Il suo ritorno alle piste, dopo un lungo ritiro dovuto a un tragico incidente, è motivato più da un’urgenza personale che da una trama salvifica. Lo chiamano per allenare un giovane talento emergente: Joshua Pearce (Damson Idris), pilota promettente ma acerbo. In quel ruolo di mentore riluttante Sonny rivede se stesso, ma soprattutto rinasce una domanda mai risolta: “Chi ero davvero, quando correvo?”. Kosinski, che già con Top Gun: Maverick aveva messo in scena l’attrito tra passato e presente, qui costruisce un film ancora più intimo, dove il rombo del motore è una forma di catarsi.
Genere: Drammatico
Durata: 156 minuti
Uscita: 25 Giugno 2025 (Cinema)
Cast: Brad Pitt, Kerry Condon, Damson Idris, Javier Bardem
Brad Pitt in stato di grazia

La sceneggiatura, firmata da Ehren Kruger (con contributi non accreditati di piloti e tecnici reali), si muove con intelligenza tra tensione drammatica, introspezione e dinamiche da sport movie, ma senza indulgere mai in una linearità troppo prevedibile. La struttura narrativa alterna momenti di grande spettacolo a pause contemplative, quasi zen, in cui il protagonista si confronta con il peso della memoria, il fallimento e il corpo che non risponde più come un tempo. La trama è semplice, ma densa di sottotesti: il ritorno in pista è solo l’inizio di una ricostruzione identitaria.
Pitt offre una delle sue prove più sottili degli ultimi anni. Il suo Sonny è magnetico anche nei silenzi, un uomo che non ha più bisogno di dimostrare nulla, ma che non riesce a smettere di cercare. La sua gestualità è trattenuta, quasi rituale. L’atto di indossare il casco, di controllare la pressione degli pneumatici, di scambiare poche parole col meccanico di fiducia diventa parte di un linguaggio intimo, una liturgia laica fatta di precisione e disciplina. I flashback mai invadenti, dosati con gusto, ci mostrano un Sonny giovane, arrogante, affamato, ma anche fragile: il film evita con cura l’idealizzazione, preferendo un ritratto pieno di crepe, di contraddizioni che si appoggia a un cast di comprimari di assoluto livello.
Sotto il casco

Ciò che impressiona più di ogni altra cosa è il sacrificio che emerge da questa pellicola. Brad Pitt ha davvero guidato una monoposto da F1. O, meglio: una vettura progettata ad hoc dal team Mercedes-AMG, basata sul telaio della loro monoposto 2022, ma modificata per garantire sicurezza e stabilità. L’attore si è allenato in pista per settimane, affrontando veri giri sui circuiti di Silverstone, Hungaroring e Spa-Francorchamps, sempre sotto la supervisione di ingegneri e coach reali. Pitt e Idris hanno seguito un training simile a quello dei piloti esordienti: simulatore, studio telemetrico, allenamenti cardio per sostenere i G laterali, esercizi per il collo e la resistenza al calore.
Lewis Hamilton, co-produttore del film, ha avuto un ruolo fondamentale nel rendere tutto credibile. Non solo ha supervisionato il realismo delle gare, ma ha anche contribuito a scrivere alcune dinamiche tra team principal e piloti, basandosi su situazioni realmente vissute nel paddock. In più, durante le soste tra le sessioni ufficiali di qualifica o prove libere, il team di Kosinski è entrato in pista per girare le scene “vere”, mescolando comparse e figure autentiche. Il pubblico sugli spalti è reale, così come reali sono le reazioni degli ingegneri nei box. Questo ibrido tra cinema e realtà rende quindi F1 un caso unico. “È un ruolo in cui non puoi fingere” ha dichiarato Pitt. “Se non ti alleni davvero, la camera se ne accorge. La velocità non si può simulare: si sente nel respiro, nelle mani, nel sudore. Abbiamo dovuto essere piloti prima ancora che attori.”
Dentro l’abitacolo

Kosinski conferma di essere uno dei registi hollywoodiani più capaci nella costruzione di spazi cinematici immersivi. L’approccio alle sequenze di gara è quasi rivoluzionario per il genere: niente slow motion acrobatici, niente CGI invasiva. Le auto vengono riprese con camere montate su droni FPV, con obiettivi grandangolari e angolazioni mai viste prima. La sensazione, quasi documentaristica, è di essere dentro la gara, di sentire ogni vibrazione, ogni sbandata, ogni cambio di marcia. Brad Pitt e Damson Idris non si limitano a recitare la guida: i loro volti sotto il casco, durante le sequenze, non sono simulazioni. Sono presenze reali, che respirano e reagiscono mentre le gomme sfiorano i 300 km/h.
Kosinski e la sua squadra vogliono dirci che il cinema può ancora essere fisico, concreto, vissuto. In un’epoca dominata dal digitale, F1 è un film che sporca la cinepresa di benzina e polvere, sorretto da due anime visive e da un montaggio chirurgico. La colonna sonora, composta da Hans Zimmer con la collaborazione di artisti elettronici contemporanei (noti produttori techno e synth ambient), alterna tracce pulsanti a brani quasi ambientali. Ogni gara ha una sua “voce” sonora distinta, una scelta che sottolinea l’unicità di ogni tappa del mondiale, ma anche lo stato d’animo mutevole del protagonista. L’uso del sound design è a tratti ipnotico: il suono del turbo, delle gomme che slittano, dei messaggi radio disturbati si fonde con la musica in un’esperienza sonora totalizzante.
Una lunga corsa a inseguire l’essenza

La Formula 1 è una filosofia. Il cinema se n’è accorto da tempo. F1 si differenzia però da tutti questi precedenti perché non sceglie una singola angolazione, ma tenta una sintesi più complessa: racconta la corsa come metafora del tempo, come arena esistenziale. In Sonny non vediamo solo un ex campione, ma un essere umano che ha costruito la propria identità sulla velocità e che ora si ritrova improvvisamente fermo. L’auto è specchio, feticcio e trappola.
Il film gioca anche con la fascinazione cinematografica per il corpo del pilota: un corpo sottoposto a forze disumane, ma al tempo stesso fragile, mortale. Nei dialoghi si riflette spesso sulla “solitudine in curva”, sul momento in cui tutto il mondo scompare e resta solo l’istinto. È lì che F1 si fa cinema puro: nei frammenti sospesi tra tachimetro e battito cardiaco, tra griglia di partenza e fine corsa. C’è una cura filologica che non si limita all’estetica, ma tocca la cultura della F1: le gerarchie nei team, la diplomazia nei box, le strategie di gara, i codici comunicativi. Anche lo spettatore non appassionato ne esce arricchito, perché il film non spiega, ma mostra – e mostra con rispetto, con l’ossessione di chi ha capito quanto sia sacro, per chi corre, l’atto stesso del guidare.