Già nella nostra recensione di Elvis non avevamo potuto che sottolineare come Baz Luhrmann, autore degli ormai classici Moulin Rouge! e Il Grande Gatsby, sembra aver realizzato il suo primo film di supereroi, sulla scia del successo dei cinecomic, unico genere che sembra ad oggi attrarre ancora gli spettatori al cinema.
L’egemonia culturale e musicale di un’icona che per un ventennio ha sparso il proprio potere tra l’enormità della propria folla. Seguaci da ogni parte del mondo, mentre la vita del cantante rimaneva ancorata alla sua gabbia d’oro americana. Un film che sembra tratto da uno dei fumetti tanto apprezzati dal piccolo Elvis Presley, le cui magie e acrobazie sono state riprodotte tanto dal personaggio nella vita vera, quanto dal suo interprete Austin Butler.
Come realizza però Luhrmann questo film sul suo supereroe? Come riesce a far capire al pubblico che non racconterà semplicemente una figura stampata su t-shirt e adesivi o di cui si ascoltano alla radio le più grandi hit? Per far capire allo spettatore di trovarsi di fronte a un essere sovrumano e costruendogli un’adeguata narrazione – nonché messinscena – attorno, Elvis si sviluppa come un’origin story con tanto di scoperta iniziale delle proprie abilità, sperimentando tali prodezze sul pubblico e riservandosi un epilogo che solamente le anime maestose del panorama spettacolare riescono a suscitare con simile malinconia.
La scoperta dei poteri
È a una serata come le altre che il Colonnello Tom Parker, quello che diventerà per Presley un imbonitore destinato a muoverne i fili e a rivelarsi il suo più grande villain, scorge su di un palco un giovane ragazzo mingherlino col trucco agli occhi e un completo rosa sgargiante. Un palcoscenico su cui il ragazzo doveva esibirsi, registrando anche per la radio e sentendo così tutta la pressione che può avere un novellino alle prime armi. Il pubblico gli è di fronte, non manca chi va attribuendogli epiteti dispregiativi, e la situazione è tesa come prima di ogni grande partita.
Perché Elvis Presley forse non ne è ancora cosciente, ma quella serata avrebbe cambiato la sua vita e quella dei suoi familiari. Sarebbe stata un primo piccolo passo per la consacrazione di una potenza che nessun uomo aveva dimostrato prima, e che il giovane conteneva al punto da non saperla più trattenere. In questa scena in cui i giovani ascoltatori sono tutti seduti ad attendere che il “fanciullo di Tupelo” cominci a cantare, per Baz Luhrmann si consuma la spiegazione dei suoi poteri e come questi facessero del performer un autentico supereroe.
Eroe di quelli interpellati in caso di difficoltà, come quelle da cui sono state liberate le generazioni dagli anni Cinquanta in poi, soggiogate da una repressione identitaria e sessuale che affliggeva la loro giovinezza e il loro futuro, e così non più costrette al rigore e ai pregiudizi. Rigore e pregiudizi che un colpo d’anca è riuscito a spazzare via. Come se un fulmine avesse colpito il cantante e quest’ultimo ne avesse acquisito la carica elettrica, la stessa che nella sequenza del film viene sganciata e utilizzata per legare Elvis al pubblico, in un gioco di movimenti e di mani protratte verso il fisico di un dio, non per prestanza, ma per l’uso che il giovane sapeva farne.
Gli effetti di un supereroe
Un supereroe che, secondo le parole del film, non poteva cantare senza muoversi e non poteva muoversi senza cantare, motto paradigmatico per quella sequenza quasi d’apertura sull’universo Elvis proposta da Luhrmann. Quell’uomo arrivato da una galassia lontana e destinato a fare strage di fan, imitatori e di cuori. L’emblema della visione supereroistica è perciò in quell’esibizione in cui la timidezza del protagonista viene spazzata via nell’istante in cui il ragazzo impugna il microfono, facendo così affidamento a un attrezzo indispensabile per la sua trasformazione. Da comune a straordinario, da umano a superuomo.
Agendo con un’inaspettata nonchalance, dunque, Baz Luhrmann mostra gli effetti di quel potere che Elvis esercita sugli spettatori, soprattutto di sesso femminile. Inquadrando la scena come in un vero scontro a due, dove da una parte c’è l’eroe che deve usufruire di tutto il proprio vigore e dall’altra un avversario destinato a perire sotto la sua influenza, il regista utilizza slow-motion e velocizzazioni, campi totali e dettagli per dare il dinamismo che per tutta la pellicola condizionerà il tono del racconto di Elvis. La zona pelvica di Elvis Presley viene isolata come fonte di quei superpoteri che vediamo agire durante il brano, alternandola al controcampo di una giovane sul punto di cedere.
Sono gli occhi, dice il Colonnello, i primi a mostrare le reazioni alla voce e alla fisicità del cantante. Le pupille si dilatano, come di fronte a qualcosa che improvvisamente si brama con tutto il proprio corpo, lo stesso che si alza per lanciarsi disperatamente verso il bordo del palco protraendo le braccia e cercando di dare pace al proprio desiderio. È lo sguardo che si modifica nelle vittime di Elvis Presley, è un languore mai provato prima e, se già conosciuto, mai esplicitato con tanto fervore in pubblico.
È poi l’urlo un’altra delle conseguenze incontrollabili delle movenze del performer. Quello che è inizialmente un urletto da fermare in gola, di quelli che le camere da letto più fortunate hanno sentito, improvvisamente squarcia il circondario, così come l’anca del supereroe che produce la reazione irrefrenabile nel pubblico.
Ogni supereroe ha la sua kryptonite
In fondo era il film stesso ad avercelo detto. Ad aver mostrato l’infanzia del protagonista con un giornaletto tra le mani e aver riproposto la vivacità e la rapidità del testo a disegni nella composizione registica e creativa. Ad aver infuso nel piccolo Elvis un potere che in una chiesa lo aveva invaso fin dentro alle ossa e che riesce a restituire al suo pubblico ogni volta che parte la musica. È l’obiettivo di raggiungere la Roccia dell’Eternità che sospinge il protagonista (e l’uomo reale) insieme al cineasta, alla scoperta di un traguardo effettivamente aggiunto, come per il suo supereroe preferito Captain Marvel Jr.
Nel corso della sua carriera Elvis indossa un mantello, vola in alto fermandosi poi a Las Vegas, dove i primi segni del cedimento emotivo e psichico si tramutano in un corpo che non può più librare e che rimane ancorato al suolo come i suoi show reclusi nella città che non dorme mai. La kryptonite è stata sganciata, la stessa che per anni lo ha avvelenato lentamente fino a dargli il colpo letale.
Era il troppo amore della madre, nel film una donna cartoonesca, rappresentata in maniera più espressionista che fumettosa, capace di descrivere un sentimento d’angoscia richiamante un intero immaginario culturale quale quello tedesco degli anni Venti, con i suoi occhi minuscoli e le occhiaie marcate. C’è poi il troppo amore per il pubblico, quello per cui avrebbe fatto ogni cosa, anche sfasciare un matrimonio con una donna che promise sempre di amare, e che così fece, pur non potendo che cedere alla parte più umana del suo essere eroe. E, infine, il troppo amore per un’arte che gli è stata in qualche maniera sottratta da quel manager Parker che ha finito per incatenarlo. A dargli davvero una roccia a cui aggrapparsi, ma da cui sempre più spesso Elvis Presley volle e provò a scappare.
L’ultimo volo
La potenza della sequenza di Suspicious Minds, l’apertura di un percorso che finirà per esserne la chiusura definitiva, è l’ultimo vero slancio nel film di un supereroe con il suo mantello e le sue mosse di karate pronto a divorare il palcoscenico (e a baciare tutte le donne che sono sotto ad aspettarlo…). E Baz Luhrmann, coerente col resto della sua opera, dedica a quel sentito, esagitato e insieme anche grondante momento musicale l’ultima scintilla di vita di un artista che avrebbe smesso di volare.
Eppure, pur vedendosi riservata la più umana delle conclusioni, Elvis Presley è diventato immortale e ha avuto anche il suo cinecomic. Ha visto trasposto cinematograficamente il suo ritratto, così come era. Un essere venuto da un altro pianeta e che in quel 1977 non è morto, ma che come un cult quale Man in Black ci insegna, è solo tornato a casa.