Il tempo passa, il mondo intorno a noi cambia, noi stessi cambiamo, ma certe cose sono eterne, senza tempo. Non sembra passato neanche un giorno dalla prima visione di C’era una volta in America: in questo film il tempo è più che mai un concetto relativo. La storia inizia nella New York degli anni Venti con una banda di giovani ragazzi, guidata da Max e Noodles, che vive di espedienti. Entrambi ebrei, trascorrono la vita di quartiere commettendo piccoli furti, scippi e ricatti ai poliziotti locali. Con il passare del tempo e l’avvento del Proibizionismo, si aprono nuove possibilità di ricchezza facile. I due non sono più semplici ladruncoli, ma uomini disposti a tutto pur di farsi strada.
La loro vita si riempie di violenza, tradimenti, amori spezzati e amicizie distrutte alla ricerca del potere. Tuttavia, ogni errore ha un prezzo e i debiti del passato possono presentarsi anche quando tutto sembra ormai lontano, come un ricordo sbiadito, lasciando dietro solo il rimpianto. C’era una volta in America è ancora oggi una delle opere più amate e più viste nella storia del cinema, ma cosa lo ha reso un cult e perché continua ad emozionarci? Forse Paul Bowles, autore di “Il tè nel deserto”, può offrire una prima risposta: il suo romanzo contemplativo racconta di personaggi immersi in una dimensione senza tempo dove un minuto può sembrare una vita e un’intera vita passa in un secondo. Da questo titolo e da concetti come questo Bernardo Bertolucci ebbe l’idea per il film omonimo:
“Poiché non sappiamo quando moriremo siamo portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile, però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza neanche riuscireste a concepire la vostra vita. Forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte vedrete levarsi la luna? Forse venti. Eppure tutto sembra senza limite.”
Ecco la risposta: C’era una volta in America fa parte della vita di tutti noi, è quel pomeriggio d’infanzia radicato nel nostro animo senza il quale non saremmo noi stessi.
Un film lungo una vita
Ma come nacque l’idea di realizzare un gangster movie che ruotasse intorno allo scorrere del tempo?
Sergio Leone rimase colpito dal romanzo di un ex gangster vissuto negli anni del proibizionismo che in cella decise di scrivere la sua biografia. Lui si chiamava Harry Grey (pseudonimo scelto per non farsi riconoscere) e il libro era The Hoods (Mano armata). Il film tratto da questa storia doveva costituire il terzo capitolo della “trilogia del tempo” dopo C’era una volta il West (1968) e Giù la testa (1971), ma oggi sembra assurdo pensare che abbia rischiato di non veder mai la luce. Dalla fine della produzione di Giù la testa, Leone dovette aspettare quasi 15 anni, fino al 1982, per realizzarlo – complice una serie di impedimenti: la vendita dei diritti del romanzo, la ricerca degli sceneggiatori più adatti, difficoltà produttive d’ogni sorta.
La sceneggiatura, nata da un soggetto scritto dallo stesso Leone, passò di mano in mano prima di trovare la giusta quadra: per un breve periodo fu coinvolto persino lo scrittore Norman Mailer, americano ed ebreo proprio come i protagonisti, ma purtroppo la sua visione della storia e lo stile narrativo non collimavano con l’idea del regista. Alla fine furono gli sceneggiatori italiani Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Franco Arcalli e Franco Ferrini a scrivere la versione definitiva dello script con la supervisione ai dialoghi di Stuart Kaminsky, ebreo polacco nato a Chicago e famoso per i suoi polizieschi.
Una volta scritto il copione come voleva Leone, le riprese poterono iniziare con il cast scelto dal regista, capitanato da Robert De Niro e James Woods nei ruoli dei protagonisti Noodles e Max.
Il tempo non esiste
Secondo Sergio Leone il film doveva parlare della natura effimera del tempo. Il tempo è un’unità di misura concepita dall’uomo per tenere in ordine le cose della vita, ma la verità è che non è così lineare: lo sentiamo scorrere ma non sappiamo trattenerlo. Noodles all’inizio del film è un uomo avanti con l’età che vive di ricordi e nostalgia per gli anni ’30, la sua golden age, ma in realtà è come se non fosse mai uscito da quel momento della sua vita e i suoi ricordi sono tutto ciò che gli resta. Infatti il film inizia e finisce in una fumeria d’oppio, lasciandoci addirittura con il dubbio che tutta la storia sia stata solo un sogno del protagonista.
I personaggi di C’era una volta in America crescono insieme, si separano, cambiano, alcuni rinnegano la loro identità e perfino i loro nomi, ma nonostante tutto restano legati a quel passato che li ha resi ciò che sono, “quel certo pomeriggio di infanzia” di cui parlava Bowels. Tutti loro sono uniti da quel preciso momento nel passato, lo stesso che in un certo senso li ha divisi e che nel presente li riunisce – adulti, imbolsiti e con le rughe.
È come in Stand by me di Rob Reiner, (anche questo tratto da un libro: The body di Stephen King), che ci ricorda che certi momenti della vita ci legano ai nostri amici e ci cambiano. Non è forse questo il senso? E non è ciò che capita a chiunque? Ricordare momenti chiave che ci hanno reso ciò che siamo e ricordarli quando nel presente le cose non sono come vorremmo.
Noodles siamo noi
Per questo motivo lo stesso Noodles è un personaggio senza tempo che non è mai uscito dagli anni ’30 malgrado il passare degli anni. In una scena del film, Fat Moe chiede a Noodles “Che hai fatto in tutti questi anni?”. Non c’è risposta, perché Noodles è il fantasma di ciò che è stato e può solo rispondere con l’iconica frase: “Sono andato a letto presto”. In un certo senso Noodles siamo noi, difficile non rivedersi nella nostalgia del protagonista, nel rimpianto e nella voglia di rispondere a domande che hanno risuonato nella mente per anni.
Quante volte nella vita troviamo il senso delle cose anni dopo che queste sono accadute? Quante volte gli amici di sempre ci sembrano diversi e anzi si dimostrano il contrario di ciò che credevamo?
C’era una volta in America non parla di criminalità organizzata, parla di tempo, di vita, di amicizia e di nostalgia per un’epoca in cui il Cinema era un sogno e in cui la speranza per il futuro era tutto. Per queste ragioni anche tra altri 40 anni sarà sempre IL film, capace di lasciare un segno in chiunque lo veda. Questa è l’opera testamento di Sergio Leone perché oltre a essere la più rappresentativa del regista è stata (purtroppo) anche l’ultima: Leone morì nel 1989, lasciandoci una filmografia spettacolare ed emozionante che si conclude con un indiscutibile capolavoro.
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