La nostalgia può essere, per usare un’espressione comune, una “brutta bestia”. L’animo umano è fatto per fare ritorno ai luoghi, ai tempi e alle storie in cui è stato felice: la paura del futuro, l’ansia di un tempo sociale sempre più precario si trasforma in un disperato bisogno di familiarità, di tornare dentro punti di riferimento che conosciamo e di cui ci fidiamo. Per questo, negli ultimi anni, ogni forma di intrattenimento sfrutta tanto il senso di malinconia quanto la serializzazione: nel primo caso come nel secondo sono strategie narrative e di marketing che servono ad andare incontro al gusto di un pubblico smarrito, pieno di ansie, bisognoso di rassicurazioni.
Questo, naturalmente, porta a una mancanza generale di rischi, di voglia di sperimentare. Naturalmente ci sono le solite eccezioni: si pensi, ad esempio, a Joker: Folie à deux, che decide di non seguire pedissequamente i passi del primo film e di avventurarsi in generi inaspettati. Eppure anche il film di Todd Phillips rientra nella casistica che vogliamo affrontare in questo articolo: non sappiamo più mettere la parola “fine”. Non sappiamo più chiudere una storia, lasciarla andare. Abbiamo sempre bisogno di un sequel, di uno spinoff, di un reboot. Qualsiasi cosa rimandi l’idea della chiusura. Ma perché avviene tutto questo?
La rassicurazione del guadagno
In un mondo perfetto, forse, si potrebbe analizzare il mondo dell’intrattenimento, in ogni sua forma, solo per il contenuto, per la forma con cui viene realizzato: per i meriti artistici che porta in sé, insomma. E sarebbe senz’altro poetico soffermarsi solo sui valori veicolati da un’opera, sull’emotività che tale opera fa scaturire in chi ne usufruisce. Ma non si può parlare del mondo dell’intrattenimento senza parlare di guadagni. Sebbene ci sia ancora uno zoccolo duro – ad esempio – di intellettuali che reputano il mondo della cultura come un contenitore di insegnamenti morali che niente hanno a che fare con la mera economia, la verità è che cinema, case di produzioni, ma anche case editrici o etichette discografiche non sono onlus determinate ad arricchire il mondo, ma aziende che vogliono un fatturato in attivo. Tenendo bene in mente questo e liberandoci da stereotipi classisti per cui la cultura esiste solo come arricchimento spirituale, appare chiaro che il motivo per cui la parola “fine” viene ritardata sempre di più è legata a fattori economici.
Un vecchio e ridondante monito recita che “squadra che vince non si cambia” e per chiunque sia alla guida delle scelte editoriali di una qualsiasi azienda è normale scommettere sulla scommessa meno pericolosa. Perché realizzare un film del tutto nuovo quando possiamo andare al cinema con una serie di film che gli spettatori vedranno perché sono appassionati al personaggio? Da questo punto di vista, ad esempio, non dovrebbe sorprendere che, dopo la pandemia, il cinema inteso come sala cinematografica, sia stato “salvato” da Top Gun: Maverick o che Mission Impossible: Dead Reckoning sia stato quasi campione d’incassi. Il pubblico ha potuto ritrovare personaggi a cui era affezionato, con cui magari era cresciuto e le case di produzione hanno giocato proprio su questo per guadagnare di più. Non si tratta certo di una tecnica misteriosa né particolarmente recente: perché Lo Hobbit, un libro breve, è stato diviso in tre pellicole distinte e dai risultati non sempre entusiasmanti? Perché l’ultimo libro di Harry Potter è stato diviso in due film, proprio come è avvenuto anche con il terzo libro di Hunger Games? Se analizziamo il fenomeno da un punto di vista meramente “economico” possiamo dire che non è vero che non sappiamo più mettere la parola “fine” a una storia. Il punto è che non vogliamo.
Siamo cresciuti, ma vogliamo rimanere ragazzi
Come si diceva in apertura, non si può fare a meno di inserire anche il sentimento della nostalgia all’interno delle motivazioni per cui è sempre più difficile chiudere una storia, continuando a costruire saghe, serie e spinoff. Se per le case di produzione si tratta di scommettere su puntate pressoché assicurate, per il pubblico significa scappare dalla vita quotidiana, più probabilmente da quella adulta. Lasciarsi alle spalle le preoccupazioni e le responsabilità della “vita reale” e rifugiarsi in un mondo altro che ci trasporta indietro nel tempo, quando le nostre vite forse erano più semplici, più serene. Prendiamo ad esempio Ghostbusters – Minaccia Glaciale, che arriva proprio in questi giorni in sala. Ora, a voler essere anche solo vagamente obiettivi, sappiamo che non c’era davvero bisogno di un altro film sugli Acchiappafantasmi e che è vero che certe pellicole cult non hanno necessariamente bisogno di essere “svecchiate”, perché funzionano ancora bene.
Eppure, ecco qua in arrivo un nuovo sequel di una “saga” iniziata negli anni Ottanta e a cui proprio non riusciamo a dire addio. La verità è che non abbiamo alcun bisogno di un’altra pellicola coi flussi catalizzatori, ma è anche vero che quasi mai necessità e desideri procedono sugli stessi binari. Noi non investiamo sempre i nostri sentimenti e le nostre aspettative su quello di cui abbiamo bisogno. Lo facciamo, invece, per quello che abbiamo amato e per ciò che ci ricorda chi eravamo quando, magari, ci amavamo un po’ di più ed eravamo più in pace con noi stessi. In qualità di spettatori/lettori o, comunque, fruitori di storie, sappiamo che mettere la parola “fine” ad una storia potrebbe significare accettare di dover mettere lo stesso epiteto anche ad una certa fase della vita. Significa accettare il tempo passato, i cambiamenti subiti, le responsabilità che ci hanno raggiunto. Significa accettarlo in modo ancora più definitivo. Rimanere ancorati ai personaggi e alle storie del nostro passato, al contrario, ci regala ancora quell’illusione che forse tutto è ancora possibile. Che non siamo cambiati poi così tanto.
Il peso dell’egocentrismo nella “fine” delle storie
Oggi una delle maggiori critiche che si muovono, per fare un nome, all’indirizzo di Hollywood è quella di mancanza di coraggio, di creatività. Lo spettatore lamenta una certa svogliatezza da parte dei creativi, che accusa di essersi adagiati sugli allori, di voler guadagnare col minimo sforzo. Fermo restando che la “moda” dei sequels/rebott, come ogni moda, ha un’esistenza ciclica, è vero che in questi ultimi anni si è sentito maggiormente il peso dei vari remake, sequel, live action e chi più ne ha più ne metta. Ma è altrettanto vero (e questo ci riconduce al primo punto) che il mercato offre ciò che il mercato richiede. E se è vero che tutti sono stanchi e annoiati da questo tipo di produzioni, allora perché sono quelli che continuano a funzionare, in media, meglio di tutti gli altri titoli? Il punto è che se un tempo eravamo soprattutto i fruitori delle storie, oggi ne vogliamo essere in qualche modo padroni.
Si pensi, ad esempio, alla petizione fatta dai fan per cambiare il finale di Game of Thrones, o a serie tv come Once Upon a Time o The 100 che si sono perse durante le stagioni perché preda del febbrile bisogno di soddisfare le richieste del pubblico, anche quando cozzavano con la storia costruita fino a quel momento. Ancora, pensiamo a come le produzioni cerchino sempre di non offendere nessuno, anche eliminando del tutto il conflitto dalle storie. Tutti esempi, questi, che mettono in chiaro come adesso lo spettatore si senta molto più padrone delle storie per cui paga un prezzo di copertina o il prezzo di un biglietto. E l’egocentrismo che deriva da questa nuova realtà, che ci fa sentire come se il nostro punto di vista fosse l’unico valido, è quello che ci spinge in una direzione piuttosto che in un’altra. Ecco allora che tutti si lanciano contro il live action de La Sirenetta non perché è un remake, ma perché è un remake che non combacia con il nostro ricordo egoriferito. Ci lamentiamo che a Hollywood si facciano solo sequel o remake, eppure siamo i primi a pagare per vedere un nuovo capitolo di Ethan Hunt o che, ad esempio, compriamo l’ennesimo romanzo di Dune o la nuova opera di Sarah J. Maas.
Ecco perché l’uscita in sala di The First Slam Dunk ha esaltato così tante persone. Il punto è che gli spettatori vogliono che il mondo delle storie somigli sempre il più possibile all’idea che ne hanno loro: e questo porta a non voler mettere la parola “fine” a quelle storie, ma siamo pronti a sacrificarne altre. Ci lamentiamo tutti di questi “allungamenti di brodo”, ma saremmo comunque i primi a sacrificare magari un bel film di un esordiente se qualcuno ci consegnasse, ad esempio, la storia dei malandrini ad Hogwarts. Forse è tutto riconducibile a un luogo comune alquanto banale ma non per questo meno valido: il vero amore, dopotutto, è per sempre. Anche e soprattutto quando si parla di storie.
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