“La storia non è scritta dalle masse deboli, dai signor nessuno, dai comunisti, dalle checche, dalle donne. È scritta e riscritta dai soldati che portano gli stendardi dei re: questo significa essere forti, questo significa essere americani, questo significa essere Nixon”.
Queste agghiaccianti parole pronunciate da un uomo immerso nella più profonda oscurità e illuminato soltanto da una candela sulla cui fiamma tiene, con sprezzo del dolore, la mano, costituiscono il potente incipit di Gaslit, miniserie Starz in 8 episodi appena conclusa, che vede Julia Roberts e un’irriconoscibile Sean Penn vestire i panni di Martha e John Mitchell, quest’ultimo ministro della giustizia sotto il primo governo Nixon, nonché direttore del “Comitato per la rielezione del presidente” per il 1972. La miniserie creata da Robbie Pickering e basata sul Podcast Slow Burn di Leon Neyfakh, è un ottimo political-drama che ha saputo raccontare, tramite una sapiente sintesi tra i toni della farsa dissacrante e del dramma intimo, uno degli eventi cruciali, nonché il più grande scandalo politico della storia americana. Stiamo parlando del caso Watergate, grazie al quale, nel corso di 2 anni, il presidente Richard Nixon fu costretto a dimettersi, reo, tra le altre cose, di aver fatto insabbiare l’indagine sull’effrazione all’hotel Watergate (avvenuta il 17 Giugno 1972), con cui i suoi uomini cercarono di piazzare delle cimici nella sede del partito Democratico, situata nel famigerato hotel di Washington DC. Per dare un’idea di come il caso entrò di diritto nell’immaginario collettivo, ogniqualvolta viene alla luce un qualche scandalo politico, la stampa utilizza il suffisso ‘Gate’ per meglio definirlo: si vedano, per dirne solo un paio, gli scandali Irangate o Sexygate. Grande merito della serie di Pickering è stato quello di aver riportato l’attenzione su un fatto così importante ed emblematico, tra l’altro utilizzando un punto di vista inedito, di cui parleremo in seguito. Anche sull’uomo con la candela torneremo più avanti.
Sull’onda di Gaslit, proponiamo una scorsa ai film che in passato hanno trattato dello stesso argomento. Sarà sorprendente scoprire come la trama che si dipana di pellicola in pellicola, basata su eventi reali, costituisca già di per sé un’unica e appassionante grande narrazione, frammentata nel tempo in più opere filmiche e televisive. Ognuna di queste ha saputo illuminare una fetta di verità attorno ad un evento oscuro e inquietante come il Watergate, suscettibile di molte letture e sfaccettature, a dimostrazione di come i fatti della storia non siano mai univoci, né riconducibili a semplificazioni e riduzioni, bensì complessi e richiedano più livelli di lettura e analisi. Ecco dunque i migliori film e serie tv sullo scandalo Watergate e cominciamo con il film più clamoroso, nonché iconico, che per primo, proprio a ridosso degli eventi, trattò questo caso.
1. Tutti gli uomini del presidente (1976)
McCord, Hunt, Liddy, Dean, Magruder, Mitchell, Haldeman, Ehrlichman, Colson: sono questi i nomi, in ordine più o meno gerarchico, degli Uomini del presidente, i tessitori di quella rete che ebbe a nome Watergate ma sotto il cui ombrello andarono a finire le malefatte di ben 4 anni di amministrazione Nixon, durante i quali non solo si spiavano gli opposti schieramenti politici, ma si fabbricavano false prove per gettare fango sugli avversari, si infiltravano le organizzazioni dissidenti, si coprivano finanziamenti illeciti, l’invasione ‘segreta’ della Cambogia e così via. Tutto questo guadagnò a Nixon l’appellativo di Tricky Dick, ovvero insidioso, scaltro. Furono due giornalisti del Washington Post, Carl Bernstein e Bob Woodward, con il loro paziente e rischioso lavoro sul campo, a dissotterrare tutto il marcio e a provocare l’inchiesta della Commissione del Senato che culminerà, l’8 Agosto 1974, con le dimissioni di Nixon, attuate per prevenire la sicura richiesta di impeachment che sarebbe arrivata dal Parlamento.
Fu Robert Redford a rimanere affascinato per primo dal poderoso lavoro giornalistico svolto dai due giovani reporter (avevano solo 29 anni Woodward e 28 Bernstein) e a volersi accaparrare i diritti del libro che i due stavano ancora scrivendo sull’argomento, “Tutti gli uomini del presidente”. La star arrivò addirittura a influire sul tono e il registro narrativo che i due giornalisti stavano usando, suggerendo di inserire loro stessi come personaggi, permettendo così una maggiore identificazione dei lettori, facendogli abbandonare la prima idea di una mera esposizione dei fatti. Fu sempre Redford a scegliere Alan J. Pakula come regista, che si era distinto nel 1974 con un altro bellissimo thriller a sfondo politico come The Parallax View (Perché un assassinio), con una star del calibro di Warren Beatty. Fu poi la Warner a convincere Redford ad assumere il ruolo di Woodward e, a quel punto, non fu difficile far entrare nella partita anche Dustin Hoffman per il ruolo di Bernstein.
Ciò che rende il film di Pakula un capolavoro è il fatto di aver realizzato un thriller politico, non basandosi su eventi clamorosi o particolari scene di tensione (tranne quelle nel garage con l’informatore Gola Profonda), bensì sulla costruzione di un’atmosfera di paranoia e minaccia incombente che, come inquietanti spire, avvolge sempre più i due protagonisti e lo spettatore. Come in un labirinto, Bernstein e Woodward dovranno dipanarsi attraverso la fitta rete di collusioni, finanziamenti illeciti e insabbiamenti attorno al caso Watergate, avvicinandosi sempre più al Minotauro che si trova al centro di questo dedalo, ovvero lo stesso Nixon. Tale atmosfera fu efficacemente sorretta dal geniale direttore della fotografia Gordon Willis, lo stesso de Il Padrino, che, con i suoi suggestivi chiaroscuri, diede corpo e visione a quella fosca sensazione di oppressione e sinistra macchinazione che aleggia in tutto il film. Resta iconica l’inquadratura in allontanamento dall’alto, nella biblioteca del Congresso, in cui Bernstein e Woodward scartabellano affannosamente tra i documenti delle richieste di libri da parte della Casa Bianca. In un’unica, potente immagine viene sintetizzata l’oppressione di immani giochi di potere, di fronte ai quali gli individui sono inesorabilmente schiacciati.
Tutti gli uomini del presidente è, tra le altre cose, un sentito monumento al giornalismo d’inchiesta, di cui ricostruisce difficoltà, frustrazioni e momenti esaltanti e ancora oggi viene proiettato nelle scuole di giornalismo per motivare gli aspiranti reporter e mostrare loro cos’era il vero giornalismo d’inchiesta e come veniva praticato.
Fondamentali infine per l’inchiesta Woodstein (come venivano bonariamente apostrofati i due giornalisti dal caporedattore Ben Bradley) furono le dritte di Gola Profonda (Deep Throat), informatore anonimo, probabilmente appartenente alle alte sfere, che li indirizzò sul cammino giusto, invitandoli a “seguire i soldi”, sulla cui identità Woodward, da professionista quale era, mantenne sempre uno stretto riserbo. Gli incontri notturni nel garage tra Woodward/Redford e Gola Profonda (interpretato da un grandissimo Hal Halbrook), restano nella storia del thriller politico e sono stati ripresi perfino dai Simpson. Torneremo anche su Gola profonda.
2. Gli intrighi del potere – Nixon (1995)
Con il film di Oliver Stone, la storia di Nixon assume i contorni di una grande tragedia greca, dei cui miti il regista è sempre stato appassionato. Come si intuisce fin dal titolo, il film interpretato da un Anthony Hopkins decisamente in parte (quando non lo è?), tratta non solo dello scandalo Watergate ma abbraccia buona parte della vita dell’ex-presidente, fin da quando era senatore, con alcuni flashback della sua infanzia. La pellicola di Stone, roboante, bulimica (dura 3 ore), lega, in modo forse troppo meccanico, la brama dell’ex-presidente di essere amato, con il rapporto di subordinazione che aveva con la madre, cosa che lo rese costantemente bisognoso di riconoscimento, da parte della genitrice prima, del popolo americano dopo.
Ciò non toglie però vigore all’analisi politica dell’operato di Nixon da parte di Oliver Stone che, se da un lato continuava lo studio della storia americana nel solco del bellissimo JFK (1991), di cui riprendeva anche gli stilemi visivi con la contaminazione tra materiali eterogenei (filmati di repertorio, riprese moderne sporcate appositamente, effetti di interpolazione tra riprese moderne e d’epoca), dall’altro risulta chiaro come il riferimento principale del film fosse il wellesiano Quarto potere (1941). In primo luogo per l’incipit, con gli ‘uomini del presidente’ che guardano, al buio, un filmato di propaganda (simile al News on the March, la ‘Parata di notizie’ di Quarto Potere), per poi proseguire con una ripresa che, dall’esterno del cancello, ci porta in una Casa Bianca che non è mai stata così oscura e sinistra, proprio come la gotica residenza di Charles Foster Kane, Xanadu, nel capolavoro di Welles. Mentre quest’ultimo iniziava con la scritta “No Trespassing” e la macchina da presa che saliva lungo il cancello della sfarzosa villa, qui la cinepresa entra tra le grate esterne della Casa Bianca e vi penetra dentro, mostrandoci l’oscuro cuore del potere americano.
Come il Kane di Welles anche il Richard Nixon di Stone e Hopkins è ossessionato dall’idea di essere amato e non sopporta né comprende l’odio che la sua persona scatena negli altri. Nixon non è però all’altezza del sogno di potere che persegue, prigioniero com’è del bisogno di riconoscimento da parte degli altri, cosa che lo porta alle azioni più meschine (non solo il Watergate ma, come abbiamo visto, tanto altro), in nome di un’arroganza che egli esplicita per sentirsi più sicuro di sé, portando infine un paese alla rovina democratica. Neanche alla moglie riesce mai a dire la verità, escludendola dalla propria vita interiore. La menzogna sarà infatti uno stigma che Tricky Dick si porterà dietro da bambino, fin da quando mentiva alla madre sulle sigarette che le nascondeva.
Riguardo il discorso dei materiali di repertorio ricostruiti e sporcati apposta, nonché degli effetti di compositing, come in Forrest Gump l’anno prima, che mostravano il protagonista che aveva a che fare con altri famosi personaggi del periodo, è interessante rilevare come anche nella forma, nei meccanismi di rappresentazione che mette in atto, il film di Oliver Stone esibisse platealmente la menzogna, concetto che, come abbiamo visto, è fondamentale e costituisce la base psicologica del film. Da notare anche una breve apparizione di Martha Mitchell, interpretata da Madeline Kahn, che fa rivelazioni ai giornalisti, su cui torneremo, parlando di Gaslit.
Quando infine, a seguito del Watergate, un Nixon sconfitto e amareggiato è costretto a dimettersi, le sue parole donano all’intera vicenda il sapore di una tragedia umana, storica e politica, di proporzioni mitologiche: ”Hanno sentito l’odore del mio sangue, mi sono rammollito e loro attaccano. Ha l’odore della ruggine, un odore di metallo, e proveniva dal Vietnam capisci? Quell’odore… il paese ha sofferto, e tanto. Tutti quei suoi figli uccisi, avevano bisogno di sacrificare qualcosa, un sacrificio per placare gli dei della guerra, Marte, Giove. Io sono quel sangue e sono quel sacrificio che monderà la loro coscienza. Tutti i capi alla fine vengono sacrificati.”
3. Frost/Nixon – Il duello (2008)
Dopo le dimissioni, a differenza di tutti i suoi sottoposti che furono perseguiti, Nixon non ebbe conseguenze penali e non subì alcun processo, per via della grazia concessagli dal presidente in carica successivo, Gerald Ford. A molti americani, comprensibilmente, questa cosa non andò giù. Ci pensò uno showman inglese, noto playboy, intervistatore di celebrità dello spettacolo e per nulla avvezzo alla politica, a regalare al popolo americano quel processo e quelle scuse, o almeno quel pentimento, che Nixon non aveva mai espresso pubblicamente. Lo showman in questione era David Frost che, inaspettatamente, inchiodò Nixon alle sue responsabilità nel corso di una lunga video-intervista registrata nell’arco di alcuni giorni e destinata a essere trasmessa sui network nazionali. Del fatto ne era stata già tratta una pièce teatrale con Frank Langella nel ruolo dell’ex-presidente e Michael Sheen in quello di Frost.
Non fu dunque difficile per il regista Ron Howard e lo sceneggiatore, nonché autore del copione teatrale, Peter Morgan adattare per lo schermo un testo già esplosivo, utilizzando tra l’altro gli stessi interpreti dello spettacolo teatrale. Howard riesce però, a colpi di primi piani incisivi, nel difficile compito di rendere avvincente un’intervista televisiva, mostrandoci tra l’altro il grosso lavoro di preparazione che c’è dietro e come Frost partisse svantaggiato, in quanto ritenuto poco adatto all’argomento. I suoi stessi collaboratori, interpretati da Sam Rockwell e Oliver Platt, storici espertissimi di Nixon e Watergate, non nutrivano alcuna fiducia in lui. E infatti nelle prime tranche dell’intervista il giovane Frost soccombe di fronte all’arte tutta nixoniana di svicolare le domande e partire sempre alla lontana per tergiversare e perdere tempo. Ma arrivati al Watergate Frost caccia finalmente gli artigli e, al culmine dell’intervista e del film, incalzandolo senza pietà, riesce a far cadere nella trappola Tricky Dick, facendogli ammettere che se è un presidente a commettere un’illegalità allora vuol dire che è legale. Da lì partirà la confessione che il popolo americano voleva da sempre.
4. The Post (2017)
Saltiamo di quasi 10 anni ed arriviamo a Spielberg col suo The Post, ulteriore celebrazione del giornalismo di una volta, in cui ritroviamo ancora il Washington Post e il suo redattore-capo, Ben Bradley, che nel film di Pakula era interpretato da Jason Robards (vincitore dell’Oscar come non protagonista) e qui da Tom Hanks, roba non da poco. La pellicola di Spielberg sulle carte del Pentagono potrebbe essere il prequel ideale a Tutti gli uomini del presidente: l’analista militare Daniel Ellsberg fotocopia un mole enorme di documenti top secret, i cosiddetti Pentagon Papers, che testimoniano come il governo americano, nel corso di più amministrazioni, da Eisenhower a Kennedy e Johnson, fino ovviamente a Nixon, cercarono in tutti i modi lo scontro in Vietnam, pur sapendo, da analisti sul campo come lo stesso Ellsberg, che era una guerra senza sbocco.
La storia si concentra dunque sul suddetto Bradley del Post e su Katharine Graham, incarnata da una perfetta (poteva essere altrimenti?) Meryl Streep, proprietaria del quotidiano che sta per essere quotato in borsa. Sarà sua la difficile decisione se pubblicare o meno le Carte del Pentagono, di cui il giornalista Benjamin “Ben” Bagdikian, interpretato dal mitico Bob Odenkirk di Better Call Saul, è riuscito in maniera rocambolesca a venire in possesso. Da un lato c’è il futuro del giornale che, se diffonderà documenti secretati per ragioni di sicurezza nazionale, verrà incriminato per spionaggio, dall’altro c’è il diritto del popolo americano a conoscere la verità. Coraggiosamente Kay sceglierà la verità e, una volta chiamata in tribunale, grazie alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica da parte del resto della stampa, vince inaspettatamente contro il governo.
Anche qui, come nel film di Pakula, Spielberg costruisce un elogio del giornalismo che fu, ma lo fa a suo modo: accentuando, con perfetta sapienza drammaturgica, il conflitto presente nella storia, affidandosi a un cast di prim’ordine e utilizzando la macchina da presa con quel suo stile inconfondibile e terribilmente affabulante. Basti ricordare il momento in cui finalmente il controverso articolo va in stampa: mai rotative di un giornale furono più imponenti e magnifiche in un film. Il loro rombo squassa tra l’altro le fondamenta del palazzo del Post e, dalle vibrazioni delle pareti, Benjamin Bagdikian intuisce che il pezzo è andato in stampa e che la verità sarà trasmessa al pubblico americano. Il film si conclude proprio con l’effrazione al Watergate, in ideale continuità con quello di Pakula del 1976.
5. The Silent Man (2017)
Ricordate Gola Profonda, l’informatore ‘delle alte sfere’ che mise Woodward sulla strada giusta, la cui identità non fu mai rivelata dal giornalista? Ebbene, nel 2005 il nostro Deep Throat fece outing e si rivelò al mondo: si trattava di Mark Felt che, all’epoca dei fatti, era addirittura vice-direttore dell’FBI. Interpretato da Liam Neeson ormai paladino di un certo genere action (da Taken in poi), è come se il film risentisse della presenza dell’attore in questa sua fase da eroe tutto d’un pezzo e così lo sceneggiatore e regista Peter Landesman gli costruisce attorno un ritratto più che celebrativo. Le ragioni che spinsero l’allora vice direttore dell’FBI a rivelare alla stampa particolari scottanti della cospirazione attorno al Watergate, risiederebbero unicamente nella sua fibra morale, che gli avrebbe impedito di stare con le mani in mano di fronte al più grosso insabbiamento politico della storia americana, in cui l’FBI non ci faceva affatto una bella figura. Alla morte dello storico e, diciamolo, sinistro, fondatore del Bureau J. Edgar Hoover, l’integerrimo Felt si aspettava di divenire il nuovo direttore, ma Nixon piazzò al suo posto un galoppino, ovvero Patrick Gray che, su ordine della Casa Bianca, rallentò e ostacolò le indagini dell’agenzia federale sull’effrazione al Watergate. Felt, inorridito da tutto questo, decise di aiutare la stampa a far saltare tutta la cospirazione.
Come dicevamo, il tono del film è piuttosto banale, nella sua malcelata intenzione di rendere a tutti i costi Felt un eroe americano, ma Neeson regala un’interpretazione convincente e non mancano alcuni momenti iconici come per esempio quello nel corso di un dialogo su una panchina tra Felt e un rappresentante della CIA, interpretato da Eddie Marsan, il quale afferma che l’FBI non riuscirà a coinvolgere la CIA nello scandalo. “E la casa Bianca?” chiede Felt. “I presidenti vanno e vengono. Ma la CIA rimane, l’FBI rimane. Noi siamo le costanti.” Suona quasi come una sentenza.
6. Gaslit (2022)
Arriviamo infine alla miniserie da cui siamo partiti, che ribalta totalmente la prospettiva di Tutti gli uomini del presidente. Mentre nel capolavoro di Pakula ascoltavamo solo le voci al telefono di questi fantomatici uomini del presidente che rimanevano senza volto (poco importa se sarebbe stato fittizio), e nel film di Stone erano personaggi di secondo piano, qui invece sono loro i protagonisti. Assistiamo dunque, dall’altro lato della barricata, quello dei “cattivi”, al maturare di quella operazione di spionaggio politico che culminò nell’effrazione al Watergate. In particolare seguiamo la vicenda dal punto di vista di John Dean, giovane consulente legale di Nixon, e da quello di Martha Mitchell, moglie di John, direttore, come già accennato, del comitato di rielezione del presidente. È da quest’ultimo, interpretato da un imbolsito e incarognito, nonché magistrale Sean Penn, che parte l’ordine, originato però da Nixon, di spiare i democratici e di utilizzare tutti i mezzi e uomini possibili. Proprio a Dean viene chiesto di occuparsi della cosa e il giovane avvocato si ricorda di qualcuno che fa al caso suo. Ricordate l’inquietante discorso iniziale pronunciato dal tizio con la candela in mano? È qui che entra in scena Gordon Liddy, avvocato, ma in realtà faccendiere dell’FBI, specializzato in operazioni sporche. Ma soprattutto nazista convinto, personalità disturbata e sopra le righe, che farà da mattatore in alcuni momenti one-man-show davvero parossistici e indimenticabili, presenti nelle serie.
Infine, soprattutto, c’è lei, Martha Mitchell, vero fulcro emotivo di tutta la serie, interpretata da una fragile e al tempo stesso indomita Julia Roberts, che, coraggiosamente cercherà di denunciare pubblicamente, alla Commissione del Senato prima e in TV poi, le malefatte del comitato di Nixon e del presidente stesso. Sarà però lo stesso marito, John Mitchell, a farle perdere credibilità, creandole terra bruciata attorno, in modo da delegittimare qualsiasi dichiarazione della moglie sui fatti. Da qui il titolo della serie che si riferisce appunto a quel fenomeno che va sotto il nome di Gaslighting. Grande merito dello show di Pickering è stato dunque quello di aver acceso i riflettori su una figura importante come Martha, fondamentale per sensibilizzare l’opinione pubblica sui fatti del Watergate, e ingiustamente delegittimata e dimenticata dai media.
Ciò che colpisce di Gaslit è la grande attenzione psicologica con cui sono stati ritratti tutti i personaggi: complessi, sfaccettati, dotati di luci e ombre, alcuni fragili, nessuno assolutamente malvagio. Anche la stessa Martha non è certamente un’eroina ma una donna fragile, dal passato personale difficile, che per alleviare il dolore si rifugia in pericolose dipendenze. Dai ritratti che la serie di Pickering fa degli uomini coinvolti nel Watergate risulta chiaro, da un lato, come le qualità di alcuni di loro (Dean in particolare), fossero superiori alla grettezza di Nixon, alla cui volontà si sottomisero, ma per la loro debolezza nei confronti delle seduzioni del potere, decisero coscientemente di commettere degli illeciti. Dall’altro lato, l’infinita serie di errori grossolani commessi da molti di loro nel corso dell’effrazione fallita prima, e dell’insabbiamento poi, ci da il polso della loro ingenuità e, in alcuni casi, incompetenza.
Riconnettendoci alle precedenti trasposizioni filmiche degli eventi, ritroveremo anche qui Patrick Gray, il nuovo capo dell’FBI, burattino di Nixon, che abbiamo visto in Silent Man e, in brevi apparizioni, lo stesso Mark Felt (Gola Profonda) che, senza che se ne approfondiscano le motivazioni, va a spifferare le informazioni a Woodward. Ma il bello è proprio che, seguendo quel filo rosso che abbiamo dipanato dal film di Pakula fino a qui, potremo essere noi spettatori a riempire i buchi, a unire i puntini per avere infine una visione, perlomeno un po’ più chiara, su uno dei fatti più cruciali e inquietanti della storia politica americana.