Era il 2014 quando, in maniera del tutto inaspettata e sorprendente, HBO si preparava a sconvolgere di nuovo il mondo del piccolo schermo con una scommessa originale. Nic Pizzolatto, autore eclettico e spinto da una letterarietà costante, riuscì a creare un nuovo modello di crime drama partendo da basi fino ad allora inconcepibili per la tv. Nacque così True Detective, una serie antologica incentrata su indagini poliziesche più o meno scabrose, tra demoni urbani e interiori, concepita per coinvolgere il pubblico con stagioni (e storie) sempre differenti. Trame cupe e misteriose, che nel pathos e l’intrigo trovarono terreno fertile per lasciare un segno indelebile nell’immaginario collettivo; personaggi, ambientazioni e interpreti talmente potenti da raggiungere all’istante l’olimpo della serialità televisiva.
Con un impatto senza precedenti come quello della prima stagione dello show, alimentare quell’impeto irrefrenabile si è col tempo rivelato il lavoro più complicato per HBO e gli autori. Di stagione in stagione, Pizzolatto ha cercato di muoversi fra i meandri di un genere che lui stesso aveva contribuito a cambiare, ma che non ha mai retto il peso del proprio successo. L’evoluzione di True Detective, giunta tra alti e bassi alla quarta stagione (in uscita il 15 gennaio su Sky e NOW), è diventata col tempo uno dei fenomeni più interessanti dell’intero mondo del piccolo schermo. Il percorso tribolato di quest’opera antologica non ci permette soltanto di osservare un cult che cambia, ma ci spinge ad analizzarlo come testimonianza perpetua di un’evoluzione storica e sociale.
Una finestra oltre lo schermo che, attraverso i suoi cambiamenti, può dirci davvero tanto sulla complessità della televisione di oggi, sulla percezione del pubblico e sulla capacità di adattamento – tanto degli spettatori, quanto degli autori.
Carcosa svelata: un lampo nel buio
In un periodo di grande tumulto, Nic Pizzolatto trovò terreno fertile per costruire un vero e proprio fenomeno culturale. La miniserie del 2014 con protagonisti Matthew McConaughey e Woody Harrelson ha rapidamente conquistato il cuore degli spettatori, travolti dalle derive macabre e oscure intraprese da una narrazione crime che mai aveva osato tanto in termini di costruzione piscologico-narrativa negli anni immediatamente precedenti. Marty Hart e Rust Cohle, punte di diamante di uno show praticamente perfetto, finirono di colpo sulla bocca di tutti. True Detective arrivò quindi a fare la storia ancor prima della sua conclusione con un racconto colmo di riferimenti e un’epopea lunga diciassette anni, strutturata con una tale maniacalità da prestarsi ancora oggi a qualsiasi tipo di studio.
Attingendo a piene mani dal Re in Giallo di Robert W. Chambers e dalla filosofia di autori come Nietzsche e Schopenhauer, Pizzolatto e soci hanno trasceso il concetto stesso di mitologia portando l’orrore più puro (Carcosa) sulla terra malata dei vivi e dei morenti. Se True Detective avesse seguito l’opera di Chambers, non ci sarebbe stata alcuna speranza per i personaggi; ma è qui che l’autore si è allontanato dalla mitologia, tracciando un nuovo percorso attraverso l’introspezione. Un approccio già di per sé rivoluzionario, volto a mostrare la lotta all’oscurità attraverso la decostruzione (e la salvezza) di un protagonista ossessionato dalla ricerca di verità, dall’idea di costruire e creare miti. Con la sua natura intrinsecamente metaforica e le profonde allegorie che permeano la sua struttura, lo show è entrato prepotentemente nell’immaginario collettivo di un pubblico in costante crescita, ponendo le basi per un confronto inevitabile con qualsiasi produzione successiva.
Il libro dei morti d’occidente: come liberarsi da sé stessi?
Un’opera capace di stravolgere in modo così marcato l’intero ambiente televisivo in America sarebbe stata (e in fin dei conti resta tuttora) un unicum destinato a restare irraggiungibile nella sua meraviglia. Qualsiasi storia sarebbe stata difficile da digerire per un pubblico segnato dall’odissea di Carcosa – e Pizzolatto stesso ne è sempre stato cosciente. Di fronte a un urlo tanto potente da squarciare il cielo, ritrovare la propria voce lontani dalla sua eco non poteva che essere l’unica opzione percorribile. L’arrivo di una seconda stagione di True Detective, forte di un cast importante (Colin Farrell, Rachel McAdams, Vince Vaughn) e diverse premesse intriganti, ha subito scatenato un putiferio di attese da parte dei fan.
Una fiamma ardente di passione, destinata però a spegnersi rapidamente sotto le correnti di un hype che pochissimi avrebbero saputo domare. Neppure Pizzolatto ha potuto quindi gestire la mole della sua creatura: l’esperienza mistica presentata nella prima stagione è stata trascinata a terra, verso una dimensione più mortale e fallace (forse anche più malinconica), celando dietro i cartelli della droga e gli intrighi politici il tentativo di raccontare una nuova epopea corale. Le indagini di Ray Velcoro e soci non hanno (ovviamente) riscosso il successo della prima stagione, scatenando un’ondata di malcontento che ha impedito allo show di ottenere persino il rispetto che meritava. Con uno sviluppo più dispersivo, che tentava di rendere complesso l’intreccio e non il sottotesto dell’opera, True Detective si è scontrato per la prima volta con il peso della sua stessa iconicità.
Un destino segnato?
Lo spartiacque della seconda stagione ha segnato inevitabilmente il futuro della serie, spostando l’analisi dall’interno della narrazione all’esterno delle dinamiche produttive. Nel 2017, con grande sorpresa da parte del pubblico, Mahershala Ali (fresco di Oscar) si trovò al centro di un nuovo True Detective – concepito con l’idea di riportare in auge l’epopea crime di Pizzolatto e soci. HBO, dal canto suo, non ha fatto segreto di aver fornito un supporto decisamente diverso all’autore per permettergli di riavvicinarsi ai fasti di un tempo: tornando a trattare temi più cupi grazie a un approccio più introspettivo e a un protagonista complesso, la terza stagione è servita a sanare (almeno in parte) le ferite passate.
La struttura narrativa dello show, sviluppata su più periodi temporali differenti, riuscì a convincere buona parte della critica senza però ottenere lo stesso apprezzamento da parte del pubblico. True Detective ha così finito per mutare ancora, questa volta ritrovando brillantezza come prodotto più vicino alla nicchia che alla cultura collettiva. Se non altro, a differenza del suo predecessore, questo ciclo è riuscito ad allontanare lo spettro di una complessità fine a se stessa con una storia più avvincente e convinta. Nonostante uno show in chiara ripresa, l’idea creativa di Pizzolatto ha comunque finito per cozzare con le idee di HBO: nell’eterno conflitto di interessi (soprattutto economici) tra chi crea e chi produce, l’autore si è riscoperto sempre più distante dalla sua creatura.
Sintetizzare un cult
L’addio ufficiale di Pizzolatto (rimasto comunque tra i produttori esecutivi della serie) ha inevitabilmente segnato l’andamento (e anche l’attesa) dei nuovi episodi dello show. La prospettiva tracciata da HBO sembra sempre più quella di un andamento al confine tra autorialità e sintesi creativa, un tentativo di sublimare il passato per costruire storie interessanti nel prossimo futuro. L’approccio odierno agli elementi della serie sembra in tutto e per tutto coerente con gli stilemi tracciati dallo show negli anni, ma sarà caratterizzato da una prospettiva interamente femminile: Issa Lopez al timone, Jodie Foster e Kali Reis in primo piano come protagoniste di un oscuro caso ambientato nelle gelide terre d’Alaska.
Potrebbe trattarsi di un caso, ma a dieci anni dalla prima stagione ogni elemento del nuovo progetto sembra gridare al cambiamento: dall’afa della Louisiana e di Carcosa al gelo assoluto del nord, da due uomini vittime di sé stessi a due donne complesse ma potenti. Chissà se fra le ombre di questa lunga notte True Detective riuscirà a ritrovarsi, o magari a cambiare decisamente rotta. Checché succeda con il suo nuovo corso, HBO ha chiuso le porte col passato – e forse è anche giusto così. Pizzolatto potrà osservare la sua creatura crescere, mutare (e chissà, anche morire) con la consapevolezza di aver realizzato un’opera indimenticabile.
True Detective, tra i suoi alti e bassi, passerà alla storia come una creatura affascinante e imperfetta, destinata a mordersi la coda in eterno nel tentativo di crescere e migliorarsi – o forse condannata a soccombere sotto il peso della propria leggenda. A chi osserva la scelta tra la speranza e l’oblio. Nelle parole di Rust Cohle:
“Il tempo è un cerchio piatto. Tutto quello che abbiamo fatto e faremo, lo faremo ancora e ancora e ancora”
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