To Be Hero X è di certo un’opera sorprendente, rivoluzionaria sotto certi aspetti, coraggiosa, ma – soprattutto – profondamente attuale. Frutto della collaborazione tra BeDream, bilibili e Aniplex, la nuova serie cino-giapponese si distingue non solo per la qualità tecnica e narrativa, ma soprattutto per un forte tono critico e polemico, reinterpretando con originalità il genere supereroistico.
Tuttavia, cosa rende To Be Hero X davvero speciale?
Oltre ad uno stile visivo spettacolare e ad un’animazione che mescola 2D e 3D in una fusione che richiama capolavori come Arcane, la serie diretta da Li Haolin affronta temi inusuali, ma dal forte impatto sociale. Dietro l’apparente storia di supereroi si cela una riflessione disturbante, e per certi versi spietata, sull’identità, l’apparenza e la cultura dell’immagine. Il titolo stesso, To Be Hero X, sembra alludere al classico messaggio motivazionale – “anche uno come me può diventare un eroe!” – ma la serie si diverte a rovesciare questa prospettiva.
Più sei ammirato, più sei potente.

Al contrario di My Hero Academia e My Hero Academia: Vigilante, qui il protagonista non diventa un eroe per merito o vocazione, ma solo grazie a un inganno ben orchestrato. Lin Ling è un uomo qualunque, squattrinato e invisibile alla società, che finisce per prendere il posto del defunto supereroe Nice, un’icona amatissima che si è tolta la vita in circostanze poco chiare. La popolazione, bisognosa di una figura da idolatrare, non può in alcun modo rinunciare al suo beniamino e eroe N°1. Pertanto, nemmeno l’azienda per cui lavorava Nice intende rinunciare alla sua fonte di guadagno primaria. Ed ecco che Lin Ling è costretto a vestire i panni di un morto.
La fiducia collettiva lo trasforma fisicamente: in questo universo narrativo, difatti, i poteri e l’aspetto non derivano da mutazioni, tecnologia o destino, ma dalla percezione pubblica. Più sei ammirato, più diventi potente. Ma se la fiducia del pubblico vacilla, anche i tuoi poteri svaniscono: perderai tutto.
Questa originale meccanica narrativa si rivela una metafora inquietante della nostra realtà. In To Be Hero X, il supereroe non è altro che una costruzione sociale, un prodotto dell’approvazione pubblica: un’analogia potente con il mondo degli influencer, delle celebrità digitali, dei content creator. Oggi, la fama e il successo sembrano accessibili a tutti, almeno in teoria. Ma in pratica, il prezzo da pagare è altissimo, poiché nella stragrande maggioranza dei casi il patto con Faust prevede una conseguenza necessaria: la totale perdita di sé stessi. Come i personaggi della serie, anche molti influencer reali finiscono per diventare marionette del consenso, prigionieri di un’immagine da mantenere ad ogni costo, vittime di un pubblico che può elevare o distruggere con un solo click.
Una critica alla società delle apparenze e delle menzogne

Esempio lampante è la morte di Nice, il Number One Hero della serie, cuore tematico dell’intera opera. Non è solo un evento scatenante, ma la conseguenza inevitabile di un sistema che idealizza e consuma. Nice sceglie di morire perché non regge più il peso di una maschera che gli sta stretta, una identità che non sente più sua. Una scelta tragica, ma perfettamente comprensibile in un mondo che non lascia spazio all’autenticità: se per la società sei Nice, allora tu sei Nice.
Difatti, a nostro parere, To Be Hero X si distingue dalla massa anche per l’audacia con cui critica la società delle apparenze e delle menzogne. Dopo la morte di Nice, il mondo non si interroga, non riflette, non piange davvero. Si limita a rimpiazzarlo, come si sostituisce una pedina su una scacchiera. Gli eroi sono intercambiabili, uomini e donne privati della loro umanità, strumenti di propaganda, figure rassicuranti. La loro vera personalità non interessa a nessuno: ciò che conta è la narrativa, l’immagine, il brand. Non a caso, ogni due anni si tiene una competizione che ricalibra la classifica degli eroi in base alla fiducia del pubblico, non ai loro atti di coraggio.
È una parodia perfetta del meccanismo social: carisma, storytelling e marketing battono verità, qualità e valore morale. Anche i villain della serie sono lontani dagli stereotipi classici. Non esseri mostruosi, ma persone comuni, dirigenti, manager, impiegati. Individui apparentemente normali che incarnano però la vera oppressione del mondo moderno: quella del lavoro, dell’efficienza, della produttività a tutti i costi. In questa visione distopica, l’ufficio diventa il vero campo di battaglia, e la carriera una guerra silenziosa e logorante. Un’idea che potrebbe sembrare esagerata, ma che, nella realtà di tanti, è fin troppo familiare.
Un prodotto ibrido

A questo proposito, non va dimenticato che To Be Hero X è il terzo capitolo di una saga che trova origine in To Be Hero, franchise multimediale di serie commedie d’azione antologiche sperimentali. Tuttavia, da commedia demenziale e parodica, la serie si è trasformata in una riflessione esistenziale sull’identità, sulla fiducia e sulla pressione sociale. È il segno maturo di una donghua che sta ridefinendo le regole del genere. In un momento in cui l’industria anime giapponese vive una fase di crisi produttiva e creativa, l’animazione cinese emerge come alternativa fresca e innovativa. Serie come Link Click hanno certamente aperto la strada, ma con To Be Hero X la Cina mostra di poter competere su scala globale, nutrendosi di contaminazioni.
Difatti, nonostante la serie sia una produzione cinese, coinvolge attivamente talenti giapponesi, dimostrando che l’animazione può e deve essere un linguaggio condiviso, un ponte tra mondi. E le contaminazioni vanno in entrambe le direzioni: se il donghua guarda al design e alla narrazione tipicamente nipponica, sempre più spesso l’animazione giapponese esplora ambientazioni cinesi, come dimostra – ad esempio – Il monologo della Speziale.
Quanto di ciò che mostriamo è davvero nostro?

To Be Hero X è molto più di un prodotto di intrattenimento: è una critica intelligente e provocatoria alla cultura della performance, una denuncia lucida del culto dell’immagine e un’indagine dolorosa sulla perdita di autenticità nel nostro mondo. È una storia che ci costringe a guardarci allo specchio e a chiederci:
quanto di ciò che mostriamo è davvero nostro? E soprattutto, quanto siamo disposti a fingere per essere amati?