Nonostante sia morto da più di trent’anni, Roald Dahl continua ad essere uno degli scrittori più apprezzati nel mondo della letteratura per l’infanzia, capace di usare uno stile irriverente per raccontare la dicotomia tra bene e male in un mondo pieno di magia nascosta nel quotidiano.
Accusato spesso di antisemitismo, razzismo e misoginia, Roald Dahl – classe 1916 – ha scritto storie che al giorno d’oggi sono spesso sotto esame per la connessione narrativa che lo scrittore fa tra l’apparenza dei personaggi e la loro moralità, per cui personaggi affascinanti sono nella schiera degli eroi, mentre coloro che non rientrano negli standard di bellezza sono spesso visti e percepiti come malvagi.
Con queste premesse quasi non sorprende che l’opera di Roald Dahl, coi suoi titoli più famosi, sia finita al centro di nuove edizioni che sembrano quasi promuovere la cancel culture.
Cancel culture e framing: dalla Disney a Via Col Vento
“Non si può più dire niente“: quante volte ci siamo imbattuti in queste frasi durante una navigazione qualsiasi tra i social media? Quante volte si è tacciato il mondo dell’intrattenimento di essersi piegato al politicamente corretto? Abbiamo visto la quarta stagione di Boris e abbiamo riso di quel “maledetto algoritmo” che dettava legge sugli elementi imprescindibili di un prodotto contemporaneo.
Molto spesso queste accuse lasciano il tempo che trovano e rimangono l’espressione di una vecchia generazione e di una forma mentis non adatta al cambiamento, che non vuol accettare la caduta del proprio privilegio interiorizzato, né l’accettazione di un cambiamento sociale e culturale non solo inevitabile, ma necessario. Spesso termini come politicamente corretto e Cancel Culture sono stati utilizzati fuori contesto, con una leggerezza quasi spaventosa, confondendo le battaglie per il riconoscimento di diritti che dovrebbero essere inalienabili per una limitazione alla libertà d’espressione.
Tuttavia la deriva di questa corsa all’inclusione a ogni costo, a quel tipo di inclusione social che funziona come una vetrina, una sorta di click baiting delle intenzioni, è paradossalmente un impoverimento per le battaglie reali e, soprattutto, un’arma in mano a chi si lamenta proprio dei cambiamenti sociali e che li descrive come moda. E chi ci rimette sono proprio i lettori.
Ne è un caso emblematico il trattamento ricevuto da Don Rosa per i fumetti su Zio Paperone, Il papero più ricco del mondo e Il sogno di una vita. Le tavole sono accusate di razzismo per una rappresentazione stereotipata e da suprematista bianco delle popolazioni afroamericane. Una rappresentazione che non si sposa coi valori inclusivi che la casa di distribuzione sta inseguendo a ogni costo. L’autore si è lamentato in un post di Facebook, asserendo quanto la sua opera rischiasse di venire deturpata dalla scelta di eliminarne episodi che hanno fatto la storia e che hanno ereditato il lascito di Carl Barks.
Il trattamento verso l’opera di Don Rosa si sposa con il framing che hanno subito altre opere. Ne sono un esempio film come il lungometraggio d’animazione Aladdin ma anche Via col Vento, in cui Disney e HBO hanno sentito la necessità di aggiungere un “cartello” (frame, appunto) che spiegasse il contesto in cui l’opera è stata realizzata e/o ambientata, in modo di aggiungere un livello di significato oltre quello che il pubblico è abituato a percepire. Una scelta a posteriori che invece di spingere lo spettatore a indagare stimolando il proprio spirito critico, lo adagia sugli allori della pigrizia culturale. Con Roald Dahl, che si riferisce a un pubblico molto giovane, questo appiattimento narrativo rischia di minare la crescita dello spirito critico e del sistema dei valori in chi legge.
Il caso Roald Dahl nel dettaglio
Puffin Books, marchio della Penguin Random House, è l’editore incaricato di pubblicare i romanzi per ragazzi firmati da Roald Dahl. Ed è proprio della Puffin Books la scelta di apportare quelle che ha chiamato “piccole modifiche” per alleggerire i testi di Roald Dahl di contenuti oggi considerati problematici per rendere le storie più inclusive e più in linea con la politica culturale di oggi, che vuole giustamente dare voce anche alle minoranze e a coloro che sono rimasti sempre fuori dalle narrazioni canoniche. Insieme alla Inclusive Minds, un’organizzazione di sensitivity readers che si occupa proprio di inclusività nei romanzi per ragazzi, la casa editrice ha dato il via a una revisione.
Queste “piccole modifiche”, tuttavia, hanno risvegliato il furore di lettori, case editrici e studiosi che ritengono che in questo modo venga snaturata l’opera di Roald Dahl, come se fosse stata “rivista” per non dover essere messa all’Indice. Soprattutto perché si ha la sensazione che queste modifiche non siano la prova di una battaglia quotidiana contro le ingiustizie, ma una sorta di lavaggio delle coscienze, qualcosa fatto per prendersi un plauso alle intenzioni.
Ne Le streghe – una delle opere più famose di Roald Dahl – il protagonista annuncia che andrà in giro a tirare i capelli alle donne per scoprire quali sono quelle calve e, dunque, scoprire la vera identità delle streghe. La nonna, nell’edizione originale, spiegava semplicemente al nipote che di certo non poteva andarsene in giro a tirare i capelli alle donne. Nell’edizione del 2022 si legge invece: “Oltretutto, ci sono molte altre ragioni per cui le donne potrebbero portare delle parrucche e di sicuro non c’è niente di sbagliato in questo [TdR].”
In un’altra scena della stessa opera si può leggere un dialogo in cui le donne possono svolgere lavori come quello di cassiera o quello di segretaria per un uomo d’affari. Nella nuova edizione si legge invece: “Anche se lavora come scienziata di livello o gestisce una sua attività” [TdR]. Le Streghe è un’opera che è stata spesso accusata di misoginia e lo dimostra anche la riflessione in cui si asserisce che “le streghe sono tutte donne“, frase seguita da un sillogismo che spinge a pensare che dunque le donne siano il male. Di questa seconda parte, nell’edizione 2022, non rimane nulla.
Come è evidente si tratta di modifiche che non hanno davvero uno scopo e che non arricchiscono affatto l’opera: vengono cambiate frasi scritte da un uomo britannico nato nel 1916 che faceva parte di una determinata società.
Altri esempi di “piccole modifiche”: sta vincendo la Cancel Culture?
Sono stati resi noti molti altri cambiamenti che hanno intaccato l’opera di Roald Dahl. In Matilda, ad esempio, la protagonista viene descritta come una persona colma di fantasia, capace di veleggiare insieme a Joseph Conrad, viaggiare in Africa con Hemingway e in India con Rudyard Kipling. Nell’edizione del 2022, Conrad viene cancellato – Cuore di Tenebra è stato spesso accusato di razzismo e colonialismo volto a descrivere le popolazioni indigene come selvagge – e al suo posto viene messa Jane Austen. Kipling, che aveva gli stessi problemi del collega, viene invece sostituito da John Steinbeck, che invece è diventato famoso per aver raccontato la voce degli ultimi e dei disperati.
In James e la Pesca Gigante gli “Uomini Nube” diventano “Clouds People” e, quindi, persone, per far sì che la lettura possa includere tutta la varietà di gender dei lettori. In generale, poi, sono state modificate tutte le espressioni legate alla grassofobia, al razzismo e a ogni possibile forma di discriminazione. Non ci sono più “vecchie streghe”, il “turning white” che potremmo tradurre con “sbiancare” viene sostituito con un “become quite pale“, utilizzando il termine impallidire, che non contiene più la parola “bianco” e che quindi può abbracciare più etnie e razze. La domanda da porsi è: ha davvero senso fare questo lavoro, con redattori che riscrivono ex novo parti delle opere, inventandole?
“Perché nessuno pensa ai bambini?!”
In un episodio diventato iconico de I Simpson la signora Lovejoy grida una delle battute più conosciute della serie: Perché nessuno pensa ai bambini? In effetti, nel voler trattare con leggerezza il tema della riscrittura delle opere di Roald Dahl, sarebbe impossibile non sentire echeggiare la voce della donna in preda al panico. La Puffin Books avrebbe sottolineato come la sua opera di reinvenzione delle opere di Dahl è legata proprio alla volontà di dare ai bambini storie di cui possono godere senza sentirsene esclusi. Motivazione encomiabile, ma che tuttavia va approfondita.
Come si diceva quale riga più su, Roald Dahl è sempre stato accusato – come molti altri – di ricorrere a semplificazioni estetiche per raccontare il male. Perciò i personaggi negativi erano spesso brutti o grassi, creando una relazione pericolosa che tuttavia non appartiene solo allo scrittore britannico. Sin dal medioevo è esistita la credenza per cui l’esteriorità di un corpo rappresentava lo specchio di quello che avveniva all’interno: un personaggio crudele era quasi sempre rappresentato come brutto o, addirittura, deforme. La deformità della carne era vista come deformità dell’anima. Anche in ambito cinematografico è esistita questa estrema semplificazione e questa rincorsa agli stereotipi: gli afroamericani come criminali, gli italiani mafiosi e i messicani come spacciatori.
Sottolineare questo corsus non vuole essere una giustificazione e ben vengano i cambiamenti scevri di razzismo e sessismo, ma sarebbe fazioso non sottolineare come i problemi per cui viene additato oggi Roald Dahl non sono iscrivibili a un solo artista ma a un intero sistema culturale che è stato accettato e condiviso per decenni e che oggi viene criticato da chi, in passato, se ne era già fatto portavoce.
Inoltre va sottolineato che una semplificazione di bene e male è spesso utilizzata per creare le basi di uno spirito critico: un bambino riesce a comprendere meglio grandissimi concetti quando vengono ridotti ai minimi termini. Quindi dividere in modo netto il bene dal male con tratti distintivi è importantissimo, soprattutto nei primi anni di letture e formazione dello spirito critico. Allo stesso modo però – e ci sono molti studi a riguardo – i bambini sono in grado di comprendere la moralità di un personaggio da quello che fa e non da come è fatto. Quindi anche se l’immagine stonava con l’idea che si erano fatti, i giovani lettori comprendevano quale fosse la bontà e quale il male. “Pensare ai bambini”, forse, dovrebbe riguardare più dar loro fiducia e accompagnarli nella crescita invece che bendarli e non metterli davanti agli errori della società.
Educare, non censurare
E questo ci porta forse al punto più importante di questa riflessione. Bisogna chiamare le cose come stanno: quello che sta accadendo all’opera di Roald Dahl non è altro che una forma di censura. L’opera è stata rimaneggiata da mani esterne, riscritta – seppure in minima parte – per essere diversa da quella che era in origine. Facciamo un esempio e, insieme, una provocazione. Negli ultimi venti anni, secondo l’OMS, il tasso di suicidi nel mondo è salito del 65%, rappresentando un vero e proprio problema, soprattutto tra i più giovani. Ora prendiamo un classico della letteratura come Anna Karenina e poniamo di fare solo una piccola modifica: poniamo di modificare l’atto di “gettarsi” sotto un treno con un più accettabile “cadere”. Sarebbe accettabile? Si potrebbe accettare di modificare così un’opera comunque vecchia (come data di pubblicazione) e di cambiarne anche la natura per non intaccare i sentimenti di un vasto pubblico di lettori? Cosa succederebbe davvero se un editore proponesse qualcosa di simile?
Ovviamente si tratta di un esempio volutamente esagerato, ma che forse aiuta a comprendere la portata di quello che la Cancel Culture vuol fare. Cancellare pagine di storia, cancellare i passi fatti dall’evoluzione culturale, quei gradini che ci hanno permesso di arrivare al 2023 e comprendere tutto quello che abbiamo sbagliato strada facendo. Si sta appiattendo la lettura e appiattire quella per l’infanzia vuol dire privare i bambini di strumenti per crescere, per comprendere gli errori e i conflitti, di modo che quando usciranno nella vita vera non avranno gli strumenti per decodificare quello che succede, impoverendo anche le battaglie stesse.
È più che giusto che la letteratura racchiuda storie per tutti, ma sarebbe più corretto – e molto meno ipocrita – lasciar stare le vecchie storie, quelle nate nel secolo scorso, e concentrarsi invece sulle nuove voci della letteratura, dare più spazio a quegli autori che possono scrivere storie che ben rispecchiano i cambiamenti culturali. Eppure il numero di autori legati a minoranze continua ad essere vergognosamente basso. Si preferisce investire sul cancellare il passato, piuttosto che sul diversificare il presente. Questo “nascondere la povere sotto il tappeto” è proprio la prova di come la Cancel Culture sia in realtà un fallimento. Non serve a migliorare le cose, ma solo a nascondere il problema, di modo che non si possa affrontare davvero di petto.
Un altro esempio volutamente provocatorio ci riconduce di nuovo al cinema. Ogni anno, con l’avvicinarsi della stagione dei premi, ci sono moltissimi movimenti che lamentano (di nuovo, giustamente) l’assenza di minoranze nelle categorie principali. Quante volte abbiamo sentito gli addetti ai lavori lamentarsi di una mancanza di donne nella lista dei migliori registi? Ma è molto più facile accedere a un social media qualsiasi e battersi il petto per l’ingiustizia invece che ammettere che il problema deve essere affrontato in modo diretto, alla base, investendo davvero per cambiare le cose.
Ma forse il punto è che nessuno con degli interessi è davvero convinto a voler cambiare il mondo. Forse l’unica cosa che si vuole è mettersi in vetrina e dormire sonni tranquilli. Il rischio maggiore della Cancel Culture è quello dunque di perdere credibilità, di essere attaccata con ancora più ferocia e far finire nel calderone delle sconfitte anche le battaglie importanti per riconoscere davvero i diritti alle persone: diritti che valgono ben di più di una semplice rappresentazione.
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