Si può partire eppure restare lo stesso. Chi ha fatto dell’avventura la propria ragione di vita lo sa bene. La regola non scritta vale anche per quell’anima inquieta di Jerry Drake, uno dei personaggi più atipici del fumetto italiano. Antieroe per eccellenza, contradditorio per vocazione e pieno di vizi (a suon di sigarette e bicchierini di troppo), Mister No è arrivato sul mercato nel 1975, accompagnato da uno slogan emblematico: “Un nuovo esplosivo personaggio”.
E così è stato. Un protagonista di rottura, dalla personalità ingombrante e dall’atteggiamento sempre sfuggente. Quasi il contraltare perfetto del ligio Tex, sempre irreprensibile e rassicurante. Prima dell’arrivo di Dylan Dog, Mister No era l’antitesi delle “certezze texane”. Ed è per questo che il suo arrivo sul mercato del fumetto popolare da edicola ha lasciato davvero i segni di un’esplosione.
I detriti sono ancora tra noi, da qualche parte. Ma allora qual è l’eredità di un personaggio bonelliano che ha salutato tutti nel 2006? Cosa è rimasto dopo l’ultimo inchino di un uomo irrequieto partorito dalla penna (o forse dovremmo dire macchina da scrivere) di quel Guido Nolitta (ovvero Sergio Bonelli) che in Mister No ha riversato tutto il suo amore per l’avventura? Proveremo a rispondere a queste domande, analizzando l’ultima incarnazione di Mister No. Quel Mister No Revolution che tra il 2018 e il 2019 ha provato a stravolgere senza snaturare. Un’operazione chirurgica delicata di cui adesso andiamo ad analizzare la cicatrice.
Trapianto di spirito

Prima di parlare dell’opera, partiamo dall’operazione. Che tipo di operazione è stata Mister No Revolution? Sicuramente coraggiosa. Perché quando parliamo di miti e personaggi iconici, la strada più comoda da percorrere è sempre quella della nostalgia. E invece il rilancio orchestrato da Michele Masiero (ai testi) ha osato. E non poco. Molti lo hanno definito un reboot, altri un furbo “entry point”(come dicono quelli bravi) perfetto per accogliere nuovi lettori dopo tanti anni di silenzio.
E invece no. Mister No Revolution si definisce bene da solo in ogni quarta di copertina: “Cosa sarebbe successo se l’antieroe creato dalla fantasia di Guido Nolitta fosse nato 25 anni dopo rispetto alla sua biografia ufficiale?”. Eccola lì, l’operazione. La rivoluzione di Mister No è un what if, una domanda che affonda le sue radici nell’America degli Sessanta, contradditoria almeno quanto Drake stesso. Da una parte il trauma del Vietnam, dall’altra il boom economico di una nazione che sogna in grande. In mezzo un moto di ribellione giovanile pronto a esplodere.
Un vero e proprio trapianto di spirito che ha aggiornato il mito di Jerry Drake senza tradirne la natura. Al netto dei fan storici spesso allergici a qualsiasi forma di sperimentazione, Mister No Revolution è stata un’operazione audace, capace di dimostrare una regola: puoi togliere Jerry dalla Seconda Guerra Mondiale, ma non puoi togliere la guerra da Jerry Drake. Sì, questa volta il trauma bellico viene dal Vietnam, ma il modo di reagire a quel trauma resta lo stesso.
Drake viene forgiato dagli orrori visti e commessi col fucile in mano e rimane un lungo mistero chiuso per sempre dentro se stesso. Jerry è sempre altrove, pensieroso, riluttante al bello che gli capita attorno, quasi funestato da una maledizione. Quella che lo fa soffrire sempre e comunque. Anche quando i “what if” cambiando le domande, le risposte rimangono sempre le stesse. Come i “no” urlati in faccia a chi crede che Jerry Drake possa essere davvero felice.
Tre atti di un No

Il viaggio, l’assedio e il ritorno. Omero e Tolkien ci hanno insegnato che un grande storia, spesso, ha bisogno di questi tre atti. E Mister No Revolution è parecchio d’accordo con loro. Vietnam, California, Amazzonia. Tre tappe fondamentali che assomigliano a tre fotografie, o meglio, a tre parti di uno specchio rotto in cui è il lettore a dover rimettere assieme i pezzi. Una volta fatto, si troverà davanti l’immagine di un Jerry Drake condannato a vita, rincorso per tutta la vita da dolori ricorrenti.
La bellezza di questo what if è nella continua tensione tra la ricerca del volo pindarico, della spensieratezza, del piacere (anche sessuale), di una forma di romanticismo e una realtà spesso balorda, che costringe Drake a non fidarsi mai troppo degli altri. Masiero, affidandosi al tratto agile e sintetico di Matteo Cremona, Alessio Avallone e di Emiliano Mamucari (qui anche copertinista) e a una squadra di coloristi che si è fatta le ossa su Orfani, sacrifica l’avventura sull’altare del dramma e dell’introspezione, puntando molto su una violenza sia fisica che psicologica.
Rivoluzione interiore

Giocando molto bene con i salti temporali, Mister No Revolution riesce sia a delineare bene la personalità complessa di un uomo che si è sempre sentito solo contro il mondo che a calare tutto in un contesto socio-culturale molto ben caratterizzato come quello degli anni Sessanta. Cambia la scacchiera, ma non cambia la pedina. E soprattutto non si giudica mai. Né i presunti eroi, né i bastardi di turno. Le cose accadono come nella vita: perché sì. Perché capitano.
E alla fine i grandi personaggi li ritrovi lì: nel modo in cui reagiscono alla vita stessa. Un’audacia narrativa coerente con dei disegni freschi, impreziositi da una regia che (anche senza sfidare mai troppo la sacra gabbia bonelliana) non è mai statica, sempre varia e ariosa, con grande cura delle ambientazioni in cui si muove il nostro riluttante Jake. E allora, ecco perché quasi sei anni dopo la sua conclusione, questo Mister No (per noi) resta un grande sì. Una rivoluzione silenziosa come Jerry stesso.
Una rivoluzione non urlata, che ha lasciato un segno (anche sottoforma di amaro in bocca in chi l’ha apprezzata poco) ma profondo. Come fanno le cicatrici dietro le schiene dei reduci. Quelle che nascondono grandi e orribili storie. Come ha sempre fatto e continuerà a fare quell’antieroe riluttante e sfuggente di nome Mister No.