Chiunque si appresti a vedere X – A Sexy Horror Story si accorgerà di quanto la riflessione sul sesso nel cinema horror sia arrivata a livelli di autoconsapevolezza forse mai raggiunti prima. L’ultimo film diretto da Ti West ha per protagonista un gruppo di ragazzi e ragazze, le brulle colline (con gli occhi) che campeggiano sullo sfondo e un killer che vi si annida, pronto a squarciare le pieghe della quiete apparente. E non solo quella. Su carta, X sembrerebbe ricalcare fedelmente la formula che ha dato origine allo slasher film, fondato sulla caccia forsennata di un maniaco omicida ai danni di un gruppo più o meno eterogeneo di adolescenti che vorrebbero solo divertirsi.
Il 1979 e la golden age dello slasher horror
Addentrandoci nei dettagli della storia del film, comunque, è possibile scoprire che gli intenti di X non si limitano all’omaggio. L’anno in cui il film è ambientato, il 1979, è simbolico e potrebbe portare fuori pista: non solo nel ’79 si è reduci dall’uscita di alcuni film di culto rappresentativi del genere, ma si è anche sul margine di un radicale cambiamento dello slasher horror, che in mezza decade era passato dall’essere cinema underground a smuovere l’interesse dei grandi studios per la sua facile riproducibilità di successo (basti pensare che nel 1979 esce uno slasher nello spazio prodotto da 20th Century Fox, Alien), soprattutto fra i teenagers.
C’era appena stato Halloween di John Carpenter, paradigma della tranquilla cittadina sconvolta da una brutale serie di omicidi, del villain mascherato (Michael Myers ha plasmato gran parte dei cattivi di altre saghe) e della final girl, la ragazza che riesce a salvarsi alla fine del film. Non una novità assoluta – viene quattro anni dopo la Sally Hardesty di Non Aprite Quella Porta (The Texas Chain Saw Massacre) – ma una netta svolta, con la Laurie di Jamie Lee Curtis, nella direzione di un personaggio femminile più strutturato e potenzialmente più complesso della superstite torturata. C’era appena stato Piranha, di Joe Dante, ma anche Non violentate Jennifer (I Spit On Your Grave), che inaugura il filone rape and revenge attraversando un’inamovibile e fittissima schiera di detrattori, anche illustri.
Il legame fra slasher horror e cinema a luci rosse: l’ X-rating
I protagonisti di X non sono comuni teen, bensì i futuri protagonisti, a loro volta, di un film a luci rosse che sta per essere realizzato. Dunque il gruppo di adolescenti viene qui sostituito da una piccola troupe che sta cercando di girare un altro film, un film nel film: innegabile che il set delle riprese abbia, in interni ed esterni, le sembianze di quei luoghi reconditi e arcaici che sono arena favorita dei massacri horror anni Settanta, ma al principio l’unico elemento orrorifico è un’atmosfera che prelude a ciò che verrà solo negli occhi dello spettatore, che può orientarsi grazie ai segni distintivi di un immaginario horror ben consolidato. All’atto pratico, invece, nella prima abbondante ora di X c’è più spazio per scene erotiche softcore che per scorrimenti di sangue. Ti West sembra traslare per immagini ciò che per anni è stato impresso su carta da critici e studiosi del genere, ossia l’ormai acclarata correlazione esistente fra il genere dello slasher horror e la pornografia.
Dopotutto la “X” che allude all’X-rating è stato, nel sistema di classificazione delle opere degli Stati Uniti e dal ’68 al ’90 (in alcuni paesi del mondo è ancora in vigore), quello utilizzato per segnalare la presenza di contenuto eccessivamente violento o esplicito, e non dal solo punto di vista sessuale: tanti sono stati i film marchiati dalla X, da Midnight Cowboy a Flesh Gordon, da Arancia Meccanica a RoboCop (che, di conseguenza, è stato rimontato per ottenere almeno un rating R). Nel corso degli anni Settanta la temibile X, che poteva essere applicata dal distributore stesso, e che in Italia ironicamente è stata appena applicata al film di Ti West sotto forma di divieto ai minori di 18 anni, è diventata uno strumento a vantaggio della diffusione di film pornografici, che cominciano a giocare con la quantità di X moltiplicabili (XX, XXX e così via, potenzialmente all’infinito e ben oltre la sola lettera riconosciuta ufficialmente) per attirare il suo stesso pubblico e guadagnarne di nuovo.
La tendenza dell’X-rating, così fumoso eppure così tentacolare, di accomunare film in base a quali istinti repressi si teme che riemergano nello spettatore è oggetto di studio da quando lo slasher ha cominciato a essere realizzato, distribuito e ricevuto attraverso i canali del cinema dominante. A offrire la più esauriente spiegazione del successo dello slasher fra le masse e del suo appeal è Carol J. Clover, che nel seminale Men, Women and Chainsaws (1992) spiega come i meccanismi d’identificazione dello spettatore slasher si differenzino in maniera significativa rispetto agli altri generi cinematografici.
Sebbene, infatti, il pubblico tipico di un film slasher abbia sempre contato una percentuale di spettatori maschi decisamente maggiore rispetto a quella di spettatrici, questi spettatori sembravano e sembrano tuttora disposti a immedesimarsi nel personaggio femminile più di quanto non accadesse con forme di cinema più “alte”. Vale a dire che, nonostante il ricco simbolismo fallico che nello slasher proviene dal villain (fra coltelli, motoseghe e altro), l’allineamento emotivo di uno spettatore è con la vittima e mai col carnefice, con la donna – a patto che sia la Final Girl – e mai con il villain, dichiarandosi ogni volta pronto a subire le stesse torture e penetrazioni per mezzo di armi taglienti (non abbiamo mai visto uno psicopatico mascherato con una pistola).
La sopravvissuta torturata
La Final Girl ha spesso nomi e fattezze che permettono di connotarla facilmente come femminile, ma non così femminile da compromettere il fondamentale meccanismo d’immedesimazione maschile: basti pensare che la grande maggioranza di superstiti torturate della tradizione slasher non esprime la propria sessualità – al contrario della donna promiscua, una delle vittime su cui il villain sembra accanirsi con maggior gusto e dedizione (ma voler comprendere come lo stesso gusto si rifletta sullo spettatore significherebbe aprire una parentesi gigantesca e non più vincolata al solo campo cinematografico) – e ha spesso avuto un nome androgino (Sam, Chris, Jess e così via). Queste ricorrenze nella costruzione della pseudoeroina slasher vengono accompagnate ad accortezze altrettanto importanti applicate nella delineazione del villain, di cui non viene offerto alcun background psicologico che possa azionare il riconoscimento con lui: il maniaco in maschera e machete è più che un individuo un emblema, l’ogni-male maschile che alberga nei territori al di fuori di casa propria (e, dagli anni Novanta, anche dentro).
X non è certo la prima opera che prova a sovvertire le regole basilari dello slasher. Quella casa nel bosco (2011), di Drew Goddard, era fondato su un congegno narrativo interamente pensato per riflettere sul processo di canonizzazione dello slasher horror, con protagonisti che vengono privati del libero arbitrio e indotti dall’alto a fare scelte in linea con precise esigenze produttive. Per non citare Scream (1996), manifesto del metacinema horror in perfetto equilibrio fra tradizione e innovazione, e i recenti The Final Girls e The Tragedy Girls. Tutti questi film si basano sull’autoconsapevolezza che lo slasher ha raggiunto oggi a partire dal film di Wes Craven e che permette l’autoriflessività dei personaggi, la capacità di osservare e ragionare sul film stesso di cui, loro malgrado, sono parte.
Un nuovo metacinema horror
X però fa qualcosa che ancora doveva essere fatto: riflettere su quella branca della teoria che studia lo slasher horror e che ne percorre il tragitto evolutivo in parallelo con il restante cinema rated-X, incluso quello della pornografia. Questo è anche il motivo principale per cui il montaggio e la regia, nel film, esplicitano i numerosi punti di contatto fra un mondo e l’altro, con scene erotiche girate come fossero un horror e che sono la risposta naturale alla schiera di slasher girati come fossero film porno, consapevoli che il godimento risiede nell’indugio sul particolare macabro. Quale sia la Final Girl del film è immediatamente intuibile, ma questa scardina le nostre convinzioni anche a distanza di oltre vent’anni da Scream. Porta il nome di Maxine, che è volutamente la versione esclusivamente femminile di un nome maschile (Max), e cerca la fama come pornodiva, dunque non solo esprimendo la propria sessualità ma facendone uno strumento di guadagno e di autorealizzazione.
A metà film veniamo tratti in inganno nel credere che il ruolo di superstite possa essere rivestito da Lorraine (la Jenna Ortega vista anche nell’ultimo capitolo di Scream), bacchettona ma curiosa good girl di provincia che fa da fedele aiutante del fidanzato regista e da promemoria, allo spettatore, che non dovremmo approfittare della gentilezza degli sconosciuti. Avere tutte le carte in regola per vincere il gioco evidentemente non basta in un film che, a giudicare da molti indizi lasciati lungo il percorso, è interessato anche nella critica del televangelismo anni ‘70 e dei suoi pesanti effetti sulla politica e sulla società.
Qualcosa di determinante ce lo dicono anche l’ordine e le modalità delle uccisioni, visto che la nudità di Wayne (Martin Henderson) ci suggerisce, oltre alla sua vulnerabilità, uno scambio di ruolo con la donna promiscua (Brittany Snow), che invece non è più promiscua delle altre. E che dire di Pearl – Mia Goth, nel duplice ruolo di villain e Final Girl, a rimarcare il nesso inestricabile fra le due figure – che sta per avere un prequel tutto suo, girato segretamente in parallelo con le riprese di X? Perché il ritratto dell’anziana signora che è artefice delle uccisioni è quello, malinconico e doloroso, di una donna che non si riconosce più nel suo aspetto esteriore e che non riesce a comunicare un bisogno di appagamento sessuale tutt’altro che dormiente. L’empatia è garantita, le norme vengono meno.