Trentacinque anni fa usciva in sala il dirompente Harry, ti presento Sally, diretto da Rob Reiner e scritto da Nora Ephron, un vero e proprio cult anni Ottanta capace di influenzare in maniera consistente la successiva produzione di rom com negli Stati Uniti. Alternando scene memorabili – come l’orgasmo simulato da Meg Ryan nel diner, seguito dall’emblematico “Quello che ha preso la signorina” – a espressioni iconiche impresse nella memoria collettiva, la pellicola è stata spesso analizzata guardando la sua struttura interna, ovvero gli elementi narrativi che l’hanno resa così efficace. Proviamo quindi oggi a spostare l’obiettivo, concentrandoci su ciò che l’ha preceduta e permettendo una dialettica di incontro-scontro tra passato e presente: il romance e la mistificazione del matrimonio nelle screwball comedies.
Le ragioni di un’ideologia
E’ probabilmente merito del femminismo se anche negli studi di cinema si è iniziato a considerare il romance come una vera e propria ideologia, rileggendo di conseguenza gran parte della produzione hollywoodiana dell’epoca classica. Adottando una prospettiva psicologica, infatti, la celebre Laura Mulvey, così come Juliet Mitchell e Shulamith Firestone, hanno reso evidente che la commedia di Hollywood ha spesso costruito le proprie narrazioni intorno ad un rapporto romantico tutto orientato a una mistica idealizzazione del matrimonio. Si tratta di un lavoro culturale forse neanche troppo sottile, che risponde a precise esigenze del tempo: bisognava riaffermare la necessità del matrimonio di fronte alla diffusa crisi di questa istituzione, che aveva investito la società americana dalla fine dell’Ottocento. Tra il 1867 e il 1929, infatti, la popolazione USA era cresciuta del 300%, e parallelamente il tasso di divorzio aveva subito un’impennata dell’oltre 2000%. Se già questa cifra fa venire il capogiro, dovremmo anche ricordarci che non tutte le interruzioni di matrimonio sfociavano in un divorzio ufficiale. Le cifre reali delle relazioni in crisi sono dunque presumibilmente ancora più alte.
Ma da cosa fu generata tale situazione? Prevedibilmente furono tanti i fattori concorrenti, dalla progressiva emancipazione delle donne all’introduzione di una legislazione più permissiva in merito al divorzio, alla crescita delle aspettative sul raggiungimento della felicità e della realizzazione personale, che inevitabilmente caricarono il matrimonio di un fardello tutto nuovo. Ad ogni modo, diventa urgente correre ai ripari, e come spesso succede il cinema finisce sia per incarnare che per fomentare alcuni tratti dello spirito del tempo. La screwball comedy degli anni Trenta nasce precisamente con l’intento di rafforzare il mito del matrimonio a fronte del suo diffuso fallimento.
Screwball comedies: tra romance e illusione di eternità
Nel guardare una delle più emblematiche screwball comedies americane, Accadde una notte (Frank Capra, 1934) ci troviamo davanti ad un apparente paradosso: lungi dal rappresentare la vita matrimoniale come ci si aspetterebbe da un prodotto volto a legittimarla, l’intera trama ruota intorno alla tensione erotica che precede il momento finale di unione coniugale, tensione che cresce e si articola tra i due protagonisti, interpretati da Clark Gable e Claudette Colbert. Ovvero, il film si presenta in realtà come una grande celebrazione dell’amore romantico, che tuttavia ha molto più in comune con il desiderio, piuttosto che con il matrimonio. Anzi, come bene comprendono queste commedie, il matrimonio, soddisfacendo il desiderio, lo estingue. Al contrario, la tensione erotica che anima i personaggi e tiene lo spettatore agganciato alla storia nasce proprio da un meccanismo di insoddisfazione, che in effetti sta alla base di tutte le rom com degne di nome.
Generalmente le sceneggiature prevedono alcuni elementi convenzionali per mantenere la tensione e l’insoddisfazione del desiderio, primo fra tutti una struttura triangolare, dove i vertici del triangolo diventano in momenti alterni soggetti desideranti e oggetti desiderati all’interno di una dinamica fluida e in continua evoluzione (schema che troviamo applicato anche in moltissimi prodotti odierni, come ci insegna il recente Challengers di Guadagnino). Dobbiamo poi notare una certa chimica tra la coppia principale, che ci porti fin da subito ad identificarla come tale, alimentando le nostre aspettative per una loro unione finale. Ancora, si tratta di commedie borghesi spesso ambientate in contesti privilegiati: l’upper class e lo sfarzo aumentano esponensialmente gli oggetti del desiderio, creando un curioso rispecchiamento tra desiderio erotico ed erotica del lusso.
Spesso, queste relazioni di desiderio sono ulteriormente rafforzate da tinte adulterine, sebbene prive dell’atto sessuale vero e proprio: per funzionare, la tensione erotica deve per l’appunto avvenire fuori dal matrimonio, destinato a spegnerla definitivamente. Effettivamente il matrimonio, lungi dall’essere legato al desiderio, si configura in questi prodotti come funzione del dominio patriarcale, come un processo di conquista e controllo, prevedibilmente del maschile sul femminile. La sceneggiatura è appunto consapevole del modo in cui il matrimonio spenga il desiderio, dunque gli dedica uno screen time irrisorio: le dinamiche matrimoniali non sono mai effettivamente rappresentate, così da lasciare lo spettatore con una sensazione di illusoria eternità, figlia del “vissero per sempre felici e contenti” che raramente trova riscontro nella nostra realtà. La fine della commedia lascia dunque la coppia nella loro privata estasi coniugale, negando la temporaneità del piacere dato dalla soddisfazione del desiderio.
New Hollywood e nuovi modelli
Se queste dinamiche narrative funzionano incredibilmente bene nella società degli anni Trenta, inevitabilmente vengono messe in crisi con il passare dei decenni. In realtà possiamo intercettare un primo cambio di rotta già ne La costola di Adamo (George Cukor, 1949), dove viene parzialmente messa in discussione l’illusoria eternità della gioia matrimoniale, rivelando gli inevitabili conflitti e la diminuzione del desiderio nelle dinamiche di coppia. Eppure, il film nella sua conclusione riafferma la norma monogama eterosessuale. In effetti, i primi anni Cinquanta rimangono un momento storico in cui spettatori e spettatrici potevano ancora auspicare per un unico, felice matrimonio nel corso della loro vita. In ben diverse circostanze si trovavano gli spettatori degli anni Settanta e Ottanta, che probabilmente avevano già perso in principio queste speranze: già a partire dal secondo dopoguerra – ma sappiamo che l’industria culturale di massa impiega qualche tempo per registrare i cambi sociali – il divorzio era diventato la norma se non per tutti, almeno per la stragrande maggioranza di cittadini statunitensi. Hollywood non può più quindi trattare il divorzio come una semplice eventualità da evitare in tutti i modi possibili.
Al contrario, le situazione di matrimonio, divorzio e nuovo matrimonio diventano abbondanti nei prodotti della cosiddetta New Hollywood, tra cui spiccano Io e Annie (Woody Allen, 1977), Choose me (Alan Rudolph, 1984), Cercasi Susan Disperatamente (Susan Seidelman, 1985) o il nostro Harry, ti presento Sally, del 1989. Tutti questi film da una parte muovono una critica all’ideale amoroso romantico, dall’altra riaffermano l’amore eterosessuale in maniera normativa, rielaborando stereotipi e dinamiche della screwball comedy in maniera personale. D’altronde, siamo negli anni dell’edonismo del governo Reagan e i pubblici americani cercano volentieri prodotti leggeri, privi di conflittualità se non nel contesto amoroso. Allen sfonda quindi al botteghino con commedie che mostrano rapporti più aderenti al reale, omettendo spesso il lieto fine dei prodotti precedenti. Ephron, d’altra parte, concepisce una storia ancora sognante e romantica, pur sviluppando in modo nuovo la dialettica tra maschile e femminile, non necessariamente concepiti come due poli in conflitto (la celebre lotta fra sessi), ma come possibili attori in dialogo, alla ricerca di una sintesi tra le loro opposte visioni di mondo.
E’ forse per questo motivo che Harry, ti presento Sally continua a parlare così eloquentemente al nostro presente, sebbene per molte dinamiche non rispecchi gli avanzamenti sociali e culturali di questi ultimi trent’anni. Il film si mostra infatti capace di appellarsi agli stessi bisogni che nutrivano gli spettatori degli ultimi anni Ottanta, reduci da tensioni internazionali e promesse di cambiamenti paradigmatici nella loro cultura: guardare un racconto che li conforti del fatto che, nonostante tutte le apparenti incomunicabilità dello scenario reale, alla fine si può trovare un punto d’incontro che conduca all’insperato lieto fine.
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