Ormai quasi un anno fa, il 30 ottobre 2022, Talk to Me veniva proiettato in anteprima in chiusura dell’Adelaide Film Festival. A partire da quella data, l’opera d’esordio di Danny e Michael Philippou, gemelli australiani con una lunga esperienza da youtuber, avrebbe intrapreso un percorso fortunatissimo: le presentazioni ad alcuni tra i maggiori festival internazionali (Sundance, Berlino, South by Southwest) nei primi mesi del 2023 e, l’estate scorsa, il positivo riscontro al box-office americano, con quasi cinquanta milioni di dollari anche grazie all’appoggio di A24, che da ormai quasi un decennio si attesta come il più importante distributore indipendente negli USA. Un successo, quello di Talk to Me, che ha appena contagiato anche l’Italia, con quasi centomila spettatori registrati nella prima settimana di programmazione: merito, almeno in parte, di un favorevole passaparola, soprattutto considerando il confronto a breve distanza con l’ennesimo, stanco capitolo – The Nun II – di un franchise che si limita a vivere di rendita.
Fra esoterismo, possessioni e contatti con l’aldilà (“Talk to me” è la formula che apre delle anomale sedute spiritiche, con una mano magica/maledetta in grado di trasformare chi la stringe in un medium), il film dei fratelli Philippou fa leva su convenzioni ben note del genere di appartenenza, ma con un’originalità superiore alla media e la capacità di risultare, almeno a tratti, genuinamente inquietante, specie laddove non si limita ad affidarsi ai puri jump-scare. Per certi aspetti, Talk to Me potrebbe addirittura essere considerato una cartina di tornasole di certe tendenze dell’horror contemporaneo: si tratta infatti di un racconto saldamente ancorato nel presente, a partire dalla brutale scena d’apertura, e in cui una narrazione più esplicita convive con un apparato metaforico dalla fruibilità abbastanza immediata (per capirci, siamo ben lontani dai territori dell’ermetismo surreale dell’ultimo Ari Aster). Insomma, quanto basta per puntare a un pubblico piuttosto ampio riuscendo a proporre più di qualche spunto degno di diventare oggetto di riflessione.
L’orrore ai tempi dei social media
Partiamo proprio dall’incipit, che idealmente vorrebbe rievocare la ripresa di uno smartphone nel bel mezzo di una festa casalinga fra teenager, interrotta all’improvviso da un tragico colpo di scena. Se il prologo di Talk to Me ha la sola funzione di anticipare l’orrore a venire, in esso si annida un elemento ben preciso che, da lì a breve, si insinuerà nelle vicende dei protagonisti: la viralità incontrollata all’epoca dei social media. Se la nostra quotidianità è accompagnata, o talvolta perfino scandita, dall’uso del cellulare e dall’accesso a un mare magnum di contenuti, la sfida di natura esoterica in cui si cimentano i personaggi non ha più il carattere misterico di un rituale riservato a una ristretta cerchia di ‘iniziati’, ma si manifesta come il fenomeno virale del momento, alla stregua di una challenge destinata a catalizzare l’attenzione per una manciata di giorni prima di essere inghiottita nell’oblio.
Dunque, nelle sedute spiritiche affrontate dalla diciassettenne Mia e dai suoi amici, a scardinare la tradizione è appunto il venir meno dell’esclusività e della segretezza: tutto avviene davanti alla fotocamera dello smartphone, moderno e onnipresente “occhio che uccide”, nonché strumento che annebbia e confonde la distinzione tra vero e falso, tra la cronaca della realtà e la mistificazione dell’immagine. Una tematica che nel film non approda a chissà quali sviluppi metatestuali, ma che comunque ci restituisce una prospettiva significativa sugli adolescenti (e non solo) di oggi.
La mano stregata e la metafora della dipendenza
Se in assoluto il genere horror, con il suo corredo di simboli e di archetipi, si è sempre prestato a ospitare ampi substrati metaforici, il recente cinema (americano, ma non solo) ha contribuito a rinsaldare più che mai tale legame, a partire dall’analisi della questione razziale condotta da Jordan Peele in Scappa – Get Out e Noi. In Talk to Me, i fratelli Philippou non si sottraggono all’utilizzo della metafora, secondo un approccio però decisamente ‘scoperto’ e di facile esegesi: nella mano stregata, fonte di divertimento e di adrenalina nei party organizzati da Joss e Hayley, risiede la tentazione per il proibito, l’accesso a una forma di eccitazione tanto più esaltante in quanto porta con sé un quid di minaccia. È il motivo per cui il contatto con la mano deve essere limitato a novanta secondi: quanto basta per affacciarsi nel regno dell’oltretomba senza però essere risucchiati nel suo oscuro labirinto.
La metafora legata al consumo di sostanze illecite e ai rischi della dipendenza è accentuata dal contesto delle sedute spiritiche del film: feste in cui prevedibilmente vengono meno i freni inibitori, prove di coraggio proposte come tappe obbligate di un qualunque coming of age (è il caso del membro più giovane del gruppo, Riley), ma pure scappatoie dalla frustrazione e dalla solitudine, ovvero le ragioni che spingono Mia a stringere la mano e a pronunciare il fatidico «I let you in». Oltrepassare i novanta secondi costituisce il punto di rottura fra l’estasi dionisiaca della possessione e un baratro da cui non pare esistere via d’uscita.
L’impossibile elaborazione del lutto
In una delle scene iniziali di Talk to Me, l’auto su cui viaggiano Mia e Riley colpisce un canguro, riducendolo in fin di vita. Riley vorrebbe sottrarre l’animale alla propria agonia, ma Mia, incapace di sopprimere la malcapitata creatura, preferisce abbandonarla alla sua sorte. L’episodio in sé non avrebbe alcun peso sul piano narrativo, ma la scelta di Mia è emblematica: la ragazza è alle prese con il secondo anniversario dalla morte della madre, stroncata da un’overdose (ulteriore richiamo al tema della dipendenza), e non ha accettato pienamente l’idea di “lasciar andare” la persona che più amava. E nel suo caso, rifiutarsi di elaborare un lutto significa anche cedere al sortilegio della mano nella speranza di ritrovare lo spirito della madre.
Se l’equazione fra possessione e dipendenza viene dipinta nel film con toni talvolta fin troppo didascalici, il tormentato percorso di Mia funge al contrario da baricentro emotivo dell’opera e ne rappresenta il maggiore punto di forza. Nei suoi momenti più incisivi, Talk to Me irretisce gli spettatori non tanto per l’irruzione dei morti nel mondo dei vivi, ma per il carico di dubbio, di angoscia e di sofferenza che tale irruzione scatena in Mia. In tal senso, i fratelli Philippou e il co-sceneggiatore Bill Hinzman paiono recuperare la lezione di Hereditary di Ari Aster, fra gli horror imprescindibili dell’ultimo lustro proprio in quanto si tratta di un grande film sull’impossibilità di fare i conti con il lutto: un’impossibilità che spingerà Mia ad addentrarsi sempre più a fondo nell’abisso, ignara del fatto che il vortice dell’assenza materna possa trasformare il suo amore disperato in una mostruosa spirale di follia.
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